Lo sguardo che cura – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

Con gli occhi, più che con le parole, conosciamo lo stato di una relazione

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«Mi bastava uno sguardo da piccolo per capire da mia madre se stavo facendo qualcosa di buono o di negativo.»
Una frase che ho sentito dire una quantità di volte. Ed era così! Non servivano tante parole, bastavano gli occhi per dare un consenso o contenere un comportamento non opportuno.
Lo stare in silenzio non corrispondeva alla distanza, anzi nell’assenza di parole si cresceva perché c’erano gli occhi che aiutavano a far venire fuori le parti migliori oppure a frenarne l’esuberanza.
 
Era con lo sguardo che una madre diceva: ti guardo con attenzione e rispetto. Da quella posizione iniziava l’avventura della crescita, perché una madre non «guarda» semplicemente il figlio, ma lo «osserva» e mentre lo fa con occhi attenti gli permette di essere osservata.
Una reciproca contemplazione guida la relazione e apre al desiderio di comunicare, come gesto non necessariamente verbale.
Quello viene dopo, perché diceva Alfred Tomatis: «La madre è la voce! Il padre invece è il linguaggio».
 
All’inizio così c’è lo sguardo materno che può essere «vocale» fatto di suoni e vocalizzazioni reciproche, ma allo stesso tempo è contatto, presenza, interazione, corpo che vibra e si muove, da cui nasce la relazione.
Questo fa una madre già nei primi giorni di vita quando osserva il suo bambino e senza parole gli dice: ti incontro, ci conosciamo, ci ritroviamo e io so chi sei e chi sarai.
Senza parole, per l'appunto, tranne quelle poche che servono e appena sussurrate proprio a confermare che non c’è bisogno di loro: basta il piccolo rumore delle vocali e lo sguardo per dire «ti voglio bene», «ci sei con me» e «io sono per te».
 
Nella relazione d’amore, infatti, agli amanti non servono le parole spesso superflue o ingombranti. Bastano gli occhi che si incontrano e avviano narrazioni infinite, quasi impossibili al solo verbale.
Ma all’inizio di una vita, tutto quello che serve è lo stretto necessario utile a quell’inconsapevole empatia cui ci destinano i nostri neuroni specchio.
E anche se poi tutto rimane e da grandi misuriamo gli affetti dalla vicinanza dello sguardo o dalla distanza, sono quegli incroci dello sguardo che definiscono la cura o misurano la trascuratezza.
Con gli occhi, più che con le parole, conosciamo lo stato di una relazione.
 
Lo sapevano bene i pittori rinascimentali Da Lorenzetti a Raffaello le cui Madonne col bambino narravano la cura e la relazione, quella che fa dire «se ti guardo con amorevolezza tu sai che esisti nella mia mente».
Così se mancano gli sguardi, oppure sono distratti, sappiamo quanto poco sarà la cura e quanta la trascuratezza.
 
Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento