La nostra Via Micaelica/ 7 – Di Elena Casagrande
Prima di attraversare il dipartimento dell’Ain, dalle piane della Bresse ai rilievi del Bugey, la Borgogna ci emoziona con la storia millenaria di Cluny
L’Abbazia di Cluny vista dal granaio.
Link alla puntata precedente.
La «rete dei siti cluniacensi», itinerario culturale europeo, è candidata al Patrimonio Unesco
Partiamo
al buio sulla strada D 17, per fortuna senza traffico. Cerchiamo di
tenere un buon passo per arrivare il prima possibile a Cluny. Ci attende
il più importante dei siti de «Le réseau des sites clunisiens» (La
rete dei siti cluniacensi), itinerario culturale del Consiglio d’Europa
candidato a far parte del Patrimonio Unesco.
Per motivi di tempo
non saliamo al belvedere di Suin, da dove, nelle giornate di cielo
terso, si vede addirittura il Monte Bianco. Quel che è certo è che,
dopo Digoin, il paesaggio è cambiato. Prati, boschi e piccoli villaggi,
disseminati tra le colline, hanno preso il posto della pianura
fluviale della Loira.
Al nostro arrivo, lasciati gli zaini
all’«Hôtel Saint-Odilon», andiamo di buon passo all’Ufficio del Turismo
per acquistare i biglietti per l’Abbazia.
La Tour des Fromages a Cluny.
Dalla sommità della «Tour des Fromages» si vede la cittadina di Cluny e quel che resta dell’Abbazia
Cominciamo
la visita dalla «Tour des Fromages» (Torre dei Formaggi). Dall’alto
dei suoi 120 gradini in legno si vede tutta la città e quel che resta
dell’Abbazia. Un modellino della chiesa mostra in azzurro la parte
perduta. La Rivoluzione francese e la nazionalizzazione costrinsero i
monaci ad andarsene. Era il 1790. I terreni dell’Abbazia furono
alienati, le tombe distrutte, la biblioteca bruciata. La chiesa fu
depredata, dapprima delle gronde in piombo, poi degli arredi sacri,
delle campane ed infine dei cancelli. L’acqua si infiltrò, rovinando le
volte.
La chiesa fu «tagliata in due» da una strada e suddivisa in
lotti, acquistati da un consorzio di demolitori di Mâcon. Il Comune di
Cluny cercò di opporsi con dei ricorsi, ma appena questi «imprenditori»
lo seppero imbottirono la chiesa di dinamite e ne fecero saltare le
parti strutturali. Per loro era solo una cava di pietra. Dopo 25 anni di
distruzione, rimane in piedi meno del 10% del complesso.
Il modellino della Chiesa abbaziale di Cluny (in azzurro la parte perduta).
Nel transetto, ai piedi della Torre dell’Acqua Santa, mi sento piccola piccola
Scesi
dalla torre, passiamo dal quartiere delle case romaniche dietro la
Piazza di Notre-Dame e dalla fontana dei serpenti. Scatto due foto prima
di entrare nell’Abbazia. Si accede dal Palazzo di Papa Gelasio e non
da quello che fu l’ingresso originario. «Chi non l’ha studiata, Cluny?»
– mi dico. «Ora siamo qui».
Guardare dal basso verso l’alto la
Torre campanaria superstite (detta dell’Acqua Santa) toglie il fiato.
Dalla sua altezza si capisce perché questa fu la chiesa romanica più
grande dell’antichità. Trasuda ancora oggi fierezza e rispetto ed io mi
sento così piccola! Fu la «madre» della Riforma Cluniacense,
riportando alle origini gli ideali benedettini, privilegiando la
preghiera e l’ascetismo alle cariche sociali.
L’Abate di Cluny,
svincolato dalle nomine dei vescovi-feudatari locali e soggetto
solamente al Papa, guidò la più grande federazione di monasteri ed
abbazie benedettine del Medioevo, con possedimenti senza eguali in
Occidente.
Questo era l’ingresso principale alla Chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Cluny.
I giardini e le facciate degli edifici monastici mascherano in parte l’assenza della «Maior Ecclesia»
Continuiamo
il giro nel chiostro seicentesco, ma sono visibili anche i resti del
chiostro romanico e di quello gotico. Proseguiamo poi nella sala
capitolare. Fuori, nei giardini, si trova l’antico granaio, dove si
conservava la farina dei monaci, macinata nella vicina Torre del Mulino.
Al piano inferiore c’era la cantina. Il tetto de «le farinier»
(granaio), simile ad uno scafo, fu assemblato dai carpentieri dei
cantieri navali di Brest, con legno di rovere e castagno. Oggi
custodisce quel che resta di alcune colonne e dei capitelli del coro e
la mensa dell’altare. Nei giardini tutto sembrerebbe al suo posto, ma
non è così. Manca il fulcro di ogni Abbazia: la chiesa. E per me, la
zona più emozionante, è proprio quella del suo ingresso principale, oggi
al di là della strada.
Colonne coi capitelli del coro conservati nel granaio (le farinier).
Nel nartece, l’atrio dell’ingresso principale alla chiesa abbaziale, respiro un’atmosfera sacra
L’accesso
alla chiesa avveniva dal suo nartece, un atrio longitudinale a 3
navate e a 2 piani, sito davanti al portale romanico col trionfo del
Cristo. Pur non essendoci più nulla, a parte il basamento delle
colonne, respiro un’atmosfera sacra. Fu fatto esplodere con una
quantità enorme di dinamite, ma il medaglione con l’Agnello Pasquale,
la chiave di volta della traversa orientale, rimase quasi intatto.
Oggi
è al museo archeologico (nel Palazzo dell’Abate Jean de Bourbon) ed è
riprodotto, come segnavia, nella pavimentazione della città, per
indicarne tre percorsi turistici. Riporta incisa la frase: «In celo
magn(us) hic par(us) sculpor ut agnus» (Grande nei cieli, qui scolpito
come un piccolo agnello).
Oramai sfiniti, seguendo la formella
dell’agnello, andiamo a vedere, per ultimi, la chiesa di Saint-Marcel e
l’antico ospedale dell’Hôtel-Dieu. Poi non resta che cenare: che
giornata!
L’Agnello Pasquale di Cluny e il suo segnavia.
Vicino a Mâcon c’è il villaggio gourmet dello chef tristellato George Blanc
L’indomani
prendiamo la Via Verde diretta a Mâcon, una ex ferrovia. Incontriamo
anche la galleria de le «Tunnel du Bois clair», dove vive una famiglia
di pipistrelli che non va disturbata. A fianco della ciclabile si
stagliano le colline vitate delle terre della Roche du Bourgogne, dove
si coltiva lo Chardonnay di Mâcon.
Arriviamo senza troppa fatica in
città, anche grazie ai «macarons» che ho preso in una panetteria sbucata
dal nulla: quelli al «cassis» (ribes nero) sono una bomba e ci
caricano di energia. E, visto che siamo nella zona del «poulet de
Bresse» (pollo di Bresse), chiedo a Teo di andare a Vonnas, da George
Blanc. «Bisognerà vedere come arrivarci e se accettano una prenotazione
all’ultimo minuto» – mi risponde lui.
La Chiesa di San Pietro a Mâcon.
Per farmi contenta Teo in serata mi porta a Bourg-en-Bresse la «patria» del pollo DOP di Bresse
Purtroppo,
anche se c’è un bus per Vonnas, al «Village Blanc» non c’è posto.
D’altronde, quando si è in cammino, è difficile prenotare, perché non
sai dove sarai il tal giorno, né se ci arriverai. Sono delusa. «Senti
Elena, l’unica, se vuoi mangiare il pollo stasera, è andare subito a
Bourg-en-Bresse» – mi propone Teo. «E perché no?» – gli rispondo. E così
prendiamo un trenino per la capitale del mitico pollo, reso famoso nel
mondo dallo chef Paul Bocuse, uno dei più grandi del XX secolo e
recentemente scomparso.
Cresce all’aperto e, nella fase finale
dell’ingrasso, viene nutrito solo di mais e latte. Ha un bel piumaggio
bianco, le zampe blu e la cresta rossa: i colori della bandiera
francese.
La targa ufficiale dei ristoranti dove si serve l’autentico pollo di Bresse.
Nella hall del nostro hotel di Bourg-en-Bresse incontriamo dei Valsuganotti in gita
Il
famoso Café «Le Français», dove volevo cenare, è chiuso. Per fortuna
trovo un ristorante che promette bene. Io ordino il classico pollo alla
panna e spugnole, Teo allo sherry: sono gustosissimi. «Finalmente mi
sono tolta questa voglia!» – dico a Teo. Anche le viuzze del centro
storico celebrano questo pollo, con tante sculture, una diversa
dall’altra. C’è n’è una anche davanti alla Cattedrale di Notre-Dame,
dove si venera una Madonna Nera del Trecento. Dormiamo vicino alla
stazione e, nella hall dell’hotel, sento parlare dialetto. «Sono
trentini» – bisbiglio all’orecchio di Teo. Alla fine glielo chiedo. Sì,
sono dei Valsuganotti che stanno visitando la Francia in bus. E, così,
finisce «a chiacchiere»!
Davanti al «Cafè Francais» di Bourg-en-Bresse.
Fuori dalla città la nebbia cela il Monastero reale di Brou
Usciamo
dalla città con la nebbia quando scorgiamo, da lontano, una sagoma che
da piccola si fa via via più grande. È il Monastero reale di Brou. Fu
voluto da Margherita d’Austria ai primi del Cinquecento, in stile
gotico fiammeggiante e sembra un pizzo di pietra bianca, rifinito con
l’oro delle scandole dei tetti. Vederlo da soli, senza una marea di
turisti intorno, è un regalo. Poco avanti c’è il golf club. Nei pressi
del suo parcheggio dovrebbe partire la nostra stradina. Macché: ci sono
dei lavori in corso e finiamo per imboccare un sentiero «barrée»
(sbarrato). Per eludere le recinzioni del cantiere ci arrampichiamo su
un pendio scivoloso, dietro una siepe, nel fango. «E quando lo fermano
un pellegrino?» – esclama Teo, sorridendo.
Il Monastero reale di Brou nella nebbia.
Dalle piane della Bresse ci avviciniamo ai piedi della regione montuosa del Bugey
Sbucati
su un’altra stradina iniziamo a salire, tra le mucche al pascolo,
verso la località di Montagnat. Tutto tace e tutto è chiuso. A Tossiat,
finalmente, posso bermi un «café crème» (caffè con la panna). In ogni
villaggio si incontrano i lavatoi tipici dell’Ain. A fine paese scorre
la strada dipartimentale D 1075 e, per un po’, camminiamo su una sua
laterale. Purtroppo, ad un certo, punto la laterale finisce. Arrivare a
Pont- d’Ain e poi ad Ambérieu-en-Bugey diventa davvero molto faticoso,
per il traffico pericoloso e per l’assenza di marciapiedi. «Forse
avremmo dovuto fare il percorso più interno, anche se più lungo» – ci
diciamo stravolti, all’arrivo.
Elena Casagrande - [email protected]
(L'ottava puntata sarà pubblicata mercoledì 4 dicembre)
I lavatoi dell’Ain.