In 28 aprile 1945 Mussolini veniva ucciso a Giulino di Mezzegra

Ottant'anni fa, insieme a lui furono uccisi Claretta Petacci e i gerarchi fascisti (e qualcuno che c'entrava per nulla). Ma fu scritta la parola Fine sull'era fascista

La sera del 25 aprile 1945, inizia il percorso degli ultimi giorni di Benito Mussolini. Un percorso a momenti patetico, a tratti surreale, certamente confuso e disperato.
Bisogna dire che aveva sempre rifiutato soluzioni che potevano portarlo in salvo in Spagna, a volte in treno, poi in aereo e perfino in sommergibile. Semplicemente non era un vigliacco.
Ma quando il 25 aprile venne proclamata l’insurrezione generale dell’Alta Italia contro il fascismo e seppe del tradimento dei tedeschi che si erano arresi abbandonandolo alla sua sorte, cominciò a capire che era finita. Il punto era «come» scrivere la parola fine alla sua incredibile avventura.
 
Pavolini gli aveva garantito la presenza di 100mila camice nere pronte a morire per lui. Magari all’inizio c’erano, ma si stavano assottigliando come neve al sole.
Si ricordò l’armistizio firmato a Cassibile da Badoglio con Eisenhower, che prevedeva la consegna del duce agli alleati. Sì, quella era la soluzione migliore. Ma come evitare i partigiani, che avevano decretato la sua morte insieme ai suoi gerarchi?
In effetti i contatti c’erano stati con i servizi segreti anglo americani, i quali organizzarono più volte un incontro con lui. In effetti erano già riusciti a salvare Graziani relegandolo all’Hotel de Milan.
 
Eppure tutti gli appuntamenti andarono a buca. Perfino Pavolini con la sua colonna di arditi, ormai ridotta a 15.000 unità, non riuscì a raccordarsi col duce. Secondo alcuni storici, Mussolini aveva voluto evitare la colonna di Pavolini perché avrebbe complicato la sua consegna agli alleati.
La mattina del 27 aprile, una colonna di 2.300 camice nere (le ultime rimaste) con 153 automezzi, con in testa una vettura con la bandiera bianca e quella a stelle e strisce si era mossa per recuperare il Duce e consegnarlo come d’accordo agli alleati.
Ma, arrivati a Cernobbio, giunse la notizia che il duce era stato fatto prigioniero dai partigiani a Dongo. Era la fine. Le camice nere si arresero.
 
Ma cosa era accaduto al Duce?
Sapendo che la Svizzera non lo avrebbe accolto (avevano perfino respinto la moglie Rachele e i figli), cercò l’unica soluzione che gli si presentò.
Alle 5.30 del 27 aprile lasciò Menaggio per partire con una colonna di 174 tedeschi e alcune autoblindo che trasportavano gerarchi e camice nere.
La colonna si dovette fermare nei pressi di Dongo perché i partigiani avevano sbarrato la strada con un tronco d’albero. I tedeschi, più desiderosi di tornare a casa che di combattere, trattarono con i partigiani.  
Sarebbero passati solo loro e gli italiani dovettero tornare indietro.
 
Tutti tornarono indietro tranne Mussolini, al quale fecero indossare una divisa della Luftwaffe e lo misero a sedere in fondo a un camion.
Ad un controllo dei partigiani, però, qualcuno si accorse che quel militare in fondo aveva, sotto il cappotto della Luftwaffe, una divisa certamente italiana. E il duce fu fatto scendere.
Secondo alcuni storici, i tedeschi vendettero il duce ai partigiani, facendo sapere loro dove e come si nascondeva.
Comunque siano andate le cose, Mussolini era stato fatto prigioniero dai partigiani. E i tedeschi proseguirono verso la Germania senza di lui.
 
Con il duce vennero scaricate anche due valige dalle quali non si separava mai. Contenevano documenti preziosi per il futuro dell’Italia e valute e titoli proprietà dello Stato.
Entrambi i contenuti avrebbero dovuto essere consegnati al governo provvisorio, ma invece conobbero strade diverse. I documenti, a quanto pare, furono sequestrati dagli inglesi su preciso incarico di Churchill.
I quattrini, a quanto pare accertato, vennero portati in Svizzera a disposizione del Partito Comunista Italiano. Il PCI avrebbe così costruito la propria sede a Roma.
Non sfugge però il particolare per cui gli svizzeri avevano respinto la famiglia Mussolini, ma accettato ben volentieri i soldi consegnati.
 
Dopo l’arresto, Mussolini venne condotto al municipio di Dongo. Secondo i testimoni era (comprensibilmente) emaciato, impaurito, rassegnato di essere ucciso da lì a poco.
Fu poi portato alla vicina caserma della Guardia di Finanza, dove gli furono messi a disposizione un letto e perfino uno scendiletto. Qui desideriamo precisare che la Guardia di Finanza non si era mai allineata al fascismo.
A quel punto Mussolini commise l’errore chi chiedere di inviare un messaggio a Claretta Petacci, che lo aveva seguito a distanza insieme con con il fratello.
Claretta infatti fu portata da lui, costringendola di fatto a fare la stessa fine del duce.
 
Mussolini chiese di essere consegnato agli alleati, come sottoscritto nell’armistizio firmato da Badoglio a Cassibile, ma gli risposero che sarebbe stata la giustizia italiana a giudicarlo.
Lo rassicurarono che non sarebbe stato fucilato…
Ma la notizia della sua cattura si era diffusa rapidamente ovunque e il Partito Comunista, l’ala radicale della resistenza, decise di ammazzarlo appena possibile.
Due partigiani comunisti furono incaricati di prelevare il duce dalla caserma della Guardia di Finanza e di trasferirlo in una base segreta del PCI.
La base segreta fu individuata a Bonanzigo, nei pressi di Como.

Vi arrivarono alle 3 di mattina del 28 aprile e perciò misero a disposizione di Mussolini e Claretta due letti affiancati. Sarebbe stata la loro ultima notte.
Si svegliarono alle 11 di mattina. Pranzarono con polenta, latte, pane e salame. L’ultimo pasto prima di morire.
La sera prima Luigi Longo aveva incaricato Walter Audisio di liquidare Mussolini. La mattina del 28, Audisio si presentò alla base segreta del PC per prelevare il Duce e Claretta Petacci.
Pier Luigi Bellini, che aveva catturato Mussolini, chiese perché anche Claretta Petacci.
«Non ha nessuna colpa».
«È responsabile quanto lui, – gli risponde Audisio. – È già stata condannata.»
In realtà gli alti esponenti del PC smentirono successivamente di aver disposto alcunché contro la Petacci,
 
Quando andarono a prelevare Mussolini e la Petacci, trovarono lui in piedi e lei sdraiata sul letto.
Li fecero uscire e li caricarono su un’auto. Dopo qualche centinaio di metri l’auto si fermò a Giulino di Mezzegra. Vennero fatti scendere nei pressi di una cancellata lamierata.
Secondo la versione ufficiale, Valerio annunciò loro la sentenza, poi aprì il fuoco. Ma il mitra s’inceppò.
Sapendo che comunque era finita, il duce apre il capotto e grida «Sparatemi al petto!»
A quel punto Claretta si getta tra lui e Valerio gridando «Non potete farlo!»
Ma Valerio cambiò arma e sparò con una Maschinen Pistole tedesca e stavolta la raffica parti uccidendo entrambi.
Lui scivola a terra lentamente, mentre Valerio prende una pistola e gli dà il colpo di grazia.
Qualcuno grida «Viva l’Italia!»
Erano le 16.10 del 28 aprile 1945.
Mussolini aveva 62 anni, Claretta 33.
 
Nessuno invece può dire che cosa successe dalle ore 15.15 di quel 28 aprile fino alle 16.10 quando vennero uccisi.
Qualcuno azzarda che in quel poco meno di un’ora mancante Claretta fosse stata violentata. Noi confidiamo che non sia vero, ma quando fu appesa in piazzale Loreto, non portava le mutandine.
E non fu il solo momento brutto di quella fine del fascismo.
Valerio tornò a Dongo e fece fucilare i gerarchi catturati, per un totale di 16 persone, tre delle quali non c’entravano per nulla. Uno era un pilota in licenza.
In questo caso il plotone d’esecuzione, formato sul posto da militari italiani, dovette sparare più volte perché i soldati non se la sentivano di uccidere a sangue freddo.
Morirono con dignità gridando «Viva l’Italia!».
 
I partigiani caricarono i corpi su un camion e li trasportarono a Milano. Giunti a piazzale Loreto, dove in passato i fascisti avevano ucciso dei partigiani, li appesero per i piedi alla pensilina.
Fu in quel momento che si accorsero che la povera Claretta Petacci non portava le mutandine e un sacerdote prese un ago da balia e andò a raccoglierle le gonne per coprirle le pudenda.
Winston Churchill commentò così quello sconcio finale: «Una porcata degna degli italiani».
In piazzale Loreto erano presenti due personaggi politici destinati ad avere un ruolo nell’Italia repubblicana: Giorgio Almirante e Sandro Pertini.
Il primo raccontò di aver raccolto in quel momento la fiamma tricolore per portare avanti il Movimento Sociale Italiano dalle ceneri del fascismo.
Sandro Pertini diventò presidente della Repubblica e fu il presidente più amato degli italiani.
 
Al termine di questa terribile cronaca, non si può evitare di esprimere un commento.
Ovviamente condanniamo l’esecuzione sommaria dei fascisti e ancora di più - inutile dirlo - la porcata di piazzale Loreto.
Però, anche se la storia non si fa con i se e i ma, dobbiamo dire che una sorta di Processo di Norimberga sarebbe stata più umiliante per l’Italia, anche se le persone coinvolte sarebbero state molto meno che a Norimberga e con delitti meno ripugnanti. Ma sarebbe andata sotto processo un po’ tutta l’Italia, che aveva amato e sostenuto il duce quando le cosa andavano bene.
Altro aspetto è la consegna di Mussolini agli alleati. Non è accettabile che un paese consegni il proprio capo ai vincitori di una guerra. Andava giudicato in Italia.
Ma allora cosa sarebbe stato meglio fare?
È triste dirlo, ma è stato meglio così. Mussolini doveva morire. Subito.
 
G. de Mozzi

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