«Associazione Castelli del Trentino» – Di Daniela Larentis
A Mezzolombardo, giovedì 27 marzo l’archeologo Jacopo Scoz parlerà di una storia di emigrazione trentina letta attraverso l’archeologia del contemporaneo – L’intervista

L'archeologo Jacopo Scoz.
Prosegue il ciclo di incontri organizzato dall’Associazione Castelli del Trentino, edizione 2024-2025, con un interessante appuntamento dal titolo «Il caso di Eleousa-Campochiaro a Rodi», fissato per giovedì 27 marzo 2025 alle ore 20.00 a Mezzolombardo, presso la Sala Spaur in Piazza Erbe.
Ospite della serata sarà l’archeologo Jacopo Scoz, che porterà all’attenzione del pubblico una vicenda poco conosciuta ma molto significativa: la costruzione, durante il fascismo, di un villaggio agricolo a Rodi, nel Dodecaneso, abitato da coloni trentini specializzati nella lavorazione del legno.
Attraverso gli strumenti dell’archeologia del contemporaneo, Scoz proporrà una lettura originale della presenza italiana sull’isola, intrecciando fonti materiali, testimonianze e memorie.
Una riflessione che tocca temi universali come l’emigrazione, l’identità e la costruzione della memoria collettiva, offrendo uno sguardo sul modo in cui oggi interpretiamo il nostro recente passato.
Da 36 anni l’Associazione Castelli del Trentino è attiva nell’ambito culturale provinciale soprattutto attraverso pubblicazioni, convegni e cicli di conferenze su tematiche storiche e storico-artistiche che vengono seguiti con attenzione dal pubblico e dalla stampa.
Le iniziative proposte godono del patrocinio della PAT e della Regione, sono inoltre riconosciute valide ai fini dell’aggiornamento del personale docente da parte dell’Iprase.
Continua la collaborazione con l’Accademia roveretana degli Agiati e con la Società di Studi trentini di Scienze storiche.
Campochiaro in un fotomontaggio degli anni Trenta, foto tratta da Architettura Italiana.
Cenni biografici.
Archeologo nato e cresciuto in Trentino, Jacopo Scoz si è formato a Siena, dove ha conseguito laurea triennale e magistrale.
Nel biennio 2022-2023 è stato allievo della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene, in Grecia.
Nel corso di questa esperienza formativa ha partecipato a viaggi di studio in Grecia e in Turchia e in scavi e ricerche nell’Ellade.
Nell’occasione di un viaggio nelle isole dell’Egeo ha conosciuto Eleousa/Campochiaro, di cui poi ha approfondito lo studio da un punto di vista archeologico.
Attualmente è dottorando presso il Dottorato Nazionale in Heritage Science, con sede presso Sapienza Università di Roma.
Svolge il suo dottorato presso l’Università di Siena, prendendo parte a ricerche in Italia e in Grecia.
Il dottorato ha come argomento lo studio di un quartiere di abitazioni bizantine presso la città antica di Gortina, situata al centro di Creta, utilizzando programmi per la mappatura digitale GIS.
Il dottorato si inserisce in un progetto di ricerca dell’Università di Siena in collaborazione con la Scuola Archeologica Italiana di Atene e l’Eforia di Heraklion. È socio fondatore dell’Associazione Let's Dig Again.
Abbiamo avuto il piacere di porgergli alcune domande.
Ph. P. Jozas.
Il caso di Eleousa-Campochiaro a Rodi è un episodio poco conosciuto della storia dell’emigrazione trentina. Come è arrivato a occuparsi di questo tema e cosa l’ha affascinata di più nella sua ricerca?
«Mi sono avvicinato a questo tema nel 2022, durante la mia esperienza presso la Scuola di Specializzazione della Scuola Archeologica Italiana di Atene.
«Tra le attività previste vi erano viaggi di studio in Grecia e Anatolia. Durante una tappa nell’arcipelago del Dodecaneso, io e alcuni colleghi siamo giunti a Rodi, dove abbiamo scoperto l’esistenza del villaggio di Eleousa Campochiaro.
«Lo abbiamo visitato inizialmente per semplice curiosità, l’impatto visivo dell’architettura razionalista, imponente e tipica del periodo fascista, mi ha subito colpito.
«Un dettaglio in particolare ha suscitato il mio interesse: un QR code, affisso su uno degli edifici, rimandava a un sito internet essenziale ma informativo, che rivelava il legame del villaggio con una vicenda migratoria trentina.
«Essendo trentino, ma vivendo da anni fuori regione per motivi di studio, mi ha profondamente colpito ritrovare una traccia della mia terra in un contesto così lontano, a testimonianza di una storia ancora poco esplorata.
«Il volume di Renzo Maria Grosselli ha fornito un importante contributo sulla vicenda.»
In che modo il libro di Grosselli si inserisce nel solco di questi studi?
«Il volume di Renzo Maria Grosselli è senza dubbio un’opera fondamentale. Commissionato dal Comitato dei familiari degli emigranti fiemmesi a Rodi, raccoglie un patrimonio di testimonianze, fotografie e documenti che ricostruiscono con grande dettaglio la vicenda di Campochiaro. In quanto archeologo, ho scelto di avvicinarmi a questo tema attraverso l’archeologia del contemporaneo, disciplina che si sta affermando anche in Italia e che mira a studiare resti materiali legati a eventi del Novecento, spesso con risvolti sociali e politici rilevanti.
«Il libro di Grosselli è l’unico che parla così nel dettaglio dell’esperienza dei coloni trentini. Il mio lavoro si è concentrato sull’analisi del paesaggio attuale di Eleousa, cercando di interpretare le tracce visibili con gli strumenti propri dell’archeologia: osservazione, mappatura, confronto con fonti storiche.»
Quindi, questi coloni trentini, questa comunità che si sposta nel Novecento, dal Trentino si trasferisce a Rodi…
«Esattamente. L’insediamento di Campochiaro fu avviato negli anni Trenta, nel contesto delle politiche migratorie del regime fascista. In Italia era attivo il Commissariato per le Migrazioni Interne, che promuoveva il popolamento di territori bonificati, come l’Agro Pontino, la Libia e l’Africa Orientale Italiana.
«Nel Dodecaneso, il governatore Mario Lago – in carica dal 1923 al 1935 – elaborò un progetto di miglioramento ambientale e agricolo dell’isola di Rodi.
«Per avviare un insediamento di boscaioli specializzati, si mise in contatto con il funzionario forestale Valkanover, che aveva lavorato tra la Valle di Fiemme e l’Alto Adige.
«Questi fece da tramite tra l’amministrazione coloniale e le comunità locali del Trentino e dell’Alto Adige, favorendo la selezione di famiglie con competenze nella lavorazione del legno.
«Il risultato fu un villaggio abitato da emigranti provenienti da diverse aree montane del Nord Italia, con una forte presenza fiemmese, documentata in modo particolare dal volume di Grosselli.»
L’archeologia del contemporaneo è una disciplina forse meno nota rispetto all’archeologia classica. Può spiegarci cosa la distingue e quale metodologia applica per studiare eventi relativamente recenti?
«L’archeologia del contemporaneo si concentra su epoche molto vicine a noi, spesso a partire dal XX secolo, anche se il periodo preso in esame può essere inteso in modo vario.
«Può occuparsi di fenomeni storici di rilievo recente – guerre, migrazioni, cambiamenti politici – e lo fa attraverso lo studio dei resti materiali che questi eventi hanno lasciato nel paesaggio.
«La metodologia non richiede necessariamente lo scavo: si lavora spesso con l’osservazione diretta di edifici, oggetti, strutture, integrando fonti fotografiche, orali e scritte. In alcuni casi, come quello di Campochiaro, si applicano tecnologie come i GIS (sistemi informativi geografici) per mappare e analizzare i cambiamenti nel tempo.
«Questa disciplina ha spesso una forte valenza sociale: permette di far emergere storie marginali o trascurate, come quelle legate alle migrazioni contemporanee.
«Esistono progetti attivi, ad esempio, sulle tracce lasciate dai migranti nelle rotte balcaniche o a Lampedusa.
«Tra le pubblicazioni significative sul tema, cito i volumi di un professore dell’Università di Bari, Giuliano De Felice, intitolati “Archeologie del contemporaneo” e “L’archeologia del contemporaneo in dieci oggetti”, che offrono una panoramica ampia.»
Ph. P. Jozas.
Quale metodologia ha seguito per la ricerca?
«Ho adottato un approccio integrato. Da un lato ho consultato materiali editi, in particolare il volume di Grosselli, ricco di testimonianze e immagini che documentano la vita quotidiana dei coloni.
«Dall’altro, ho realizzato una mappatura digitale di Eleousa-Campochiaro utilizzando immagini satellitari e software GIS, per confrontare l’assetto attuale con le planimetrie originali e ricostruire l’organizzazione del villaggio negli anni Trenta.
«Questa analisi ha permesso di individuare elementi ancora visibili, come le piccole strutture annesse alle abitazioni, che secondo le testimonianze orali erano utilizzate come legnaie.
«Il confronto tra tracce materiali e fonti storiche ha rivelato trasformazioni avvenute dopo la fine della presenza italiana, e ha contribuito a comprendere meglio l’evoluzione del sito fino all’integrazione del Dodecaneso nella Grecia nel 1947.»
Questo caso specifico apre anche una riflessione più ampia sull'immigrazione italiana nel periodo fascista. Che tipo di narrazione emerge attraverso la sua ricerca?
«La mia ricerca evidenzia un aspetto ancora poco indagato: il rapporto tra l’amministrazione coloniale italiana e le comunità locali.
«Dai racconti dei coloni emerge spesso un’immagine positiva dell’esperienza a Campochiaro. Molti provenivano da condizioni di estrema povertà e, per la prima volta, ebbero accesso a case dotate di servizi come l’acqua corrente.
«Il libro di Grosselli ci informa sul ricordo da parte trentina di questo insediamento, ma al momento non sono state fatte ricerche sul ricordo da parte dei discendenti locali della convivenza con gli italiani.
«Sarebbe auspicabile, in futuro, approfondire il punto di vista dei discendenti greci che vissero a fianco degli italiani, per arricchire il quadro con una narrazione più completa e plurale.»
In che modo la memoria di queste vicende può aiutarci a riflettere sulla nostra storia e sulle dinamiche migratorie di ieri e di oggi?
«Credo che casi come quello di Campochiaro ci aiutino a comprendere la varietà delle esperienze migratorie, sia nelle motivazioni che nelle condizioni di accoglienza. I coloni trentini trovarono un ambiente strutturato e favorevole, cosa che non era scontata per altri emigranti dello stesso periodo.
«Questo confronto può essere utile per riflettere, con le dovute cautele, sulle dinamiche attuali: ci sono contesti che offrono possibilità di integrazione, altri che ostacolano l’inserimento.
«La memoria di vicende come questa può certamente contribuire a uno sguardo più consapevole sulle migrazioni contemporanee.»
Di che cosa si sta occupando attualmente/progetti futuri?
«Il mio campo principale di ricerca è l’archeologia bizantina, con un focus sulla mappatura digitale dei siti archeologici attraverso strumenti GIS.
«Tuttavia, il progetto su Campochiaro continua a suscitare il mio interesse. Mi piacerebbe entrare in contatto diretto con Renzo Maria Grosselli e il Comitato degli emigranti fiemmesi, e magari organizzare un sopralluogo a Rodi con i dovuti permessi, per mappare direttamente sul campo i resti del villaggio e le sue trasformazioni.
«In prospettiva, vorrei anche raccogliere testimonianze della popolazione locale greca, per intrecciare la memoria trentina con quella degli abitanti originari e contribuire alla costruzione di una memoria condivisa, capace di superare le barriere nazionali e storiche.»
Daniela Larentis – [email protected]