L'Italia, le banche e la crisi del 1931
Il racconto di Marcello De Cecco sull'Italia degli anni Trenta. È possibile che si ripetano le stesse condizioni di allora?
Va premesso che la crisi del 1931 è
giunta in Europa per il tramite di Austria e Germania, paesi messi
in ginocchio dalle clausole imposte cecamente dagli stati usciti
vittoriosi dalla Grande Guerra.
Dagli ex Imperi Centrali si è poi trasferita nel resto dell'Europa,
e quindi anche in Italia.
Mussolini, pochi sono a saperlo e meno ancora a volerlo ricordare,
ha salvato la situazione con decisioni che hanno portato benefici
che sono giunti all'Italia della Seconda Repubblica.
Ed ora passiamo all'incontro.
«È possibile che si ripeta un nuovo 1931? Le manovre che l'Italia
oppose alla crisi del 1931 sono ancora valide a tutt'oggi?»
Sono state queste le domande che hanno animato l'incontro fra il
professor Marcello De Cecco e il pubblico del festival, moderato
dal direttore de L'Adige Pierangelo Giovanetti.
La risposta alla prima domanda è stata il pretesto per
ripercorrere, in un lungo racconto, la vicenda politico-economica
dell'Italia negli anni Trenta, fra due guerre mondiali, fra regime
plebiscitario e democrazia liberale.
«I parallelismi - dice De Cecco - funzionano per quello che sono:
l'Italia di oggi e quella del 1930 sono troppo diverse per proporre
un'analogia biunivoca fra le due situazioni. Più facile è invece
individuare gli elementi che già all'epoca portarono alla
realizzazione di riforme drastiche solo in seguito alle crisi
vissute dal nostro paese.»
Il racconto di De Cecco infatti parte da lontano, dalla vigilia
della prima guerra mondiale, cesura sia storico-pratica che
socioeconomica: alla fine della guerra l'Italia uscì massificata e
priva della generazione dei giovani che avrebbero potuto apportare
un contributo significativo alla circolazione delle idee.
Al momento dello scoppio della guerra, con la chiusura alle
importazioni imposta dalle varie potenze europee e con il ritiro
dei produttori stranieri dal mercato italiano, l'Italia notabile,
consolidatasi su una forte varietà e apertura ai mercati esteri, si
trovò nella condizione di dover riempire un il vuoto che si era
venuto a creare per soddisfare il mercato interno.
La nascita di nuove industrie e l'aumento della produzione
portarono alla creazione di una grande produzione interna e ad una
economia centralizzata di mobilitazione, che garantì i mezzi per
resistere (per lo più sul piano militare) fino alla fine del
conflitto.
Al termine della guerra, con il ripristino del mercato
internazionale, l'Italia si trovò a dover gestire la propria
produzione nazionale e la proposta di importazione straniera.
«In questo senso - sottolinea De Cecco - l'Italia sperimentò sia
una forma di mercato liberista che una forma di mercato fortemente
centralizzato: il problema giunse quando si trattò di stabilire il
passaggio dall'uno all'altro, per anticipare e non per subire
l'arrivo della crisi economica.»
Nel corso degli anni Venti si tentò di ricostruire la situazione
antecedente alla prima guerra mondiale, accantonando il modello
centralizzato alternativo (che tornerà in auge proprio in
concomitanza della crisi del 1929) e tornando all'economia
liberista.
Il passaggio si avrà con l'avvento dei «tecnocrati» o dei
cosiddetti «ingegneri manager» formatisi nella gestione pubblica
provenienti dal Sud Italia, che interverranno a salvare il nord
delle industrie e dei privati.
«Questi - secondo De Cecco - capirono l'importanza del settore
tessile italiano (che alla fine della Seconda guerra mondiale poté
riprendere prima di tutti e in piena competitività con gli stessi
mezzi dell'inizio degli anni Trenta) e videro nell'espansione della
domanda interna e degli investimenti infrastrutturali una possibile
salvezza dell'economia nazionale.
«Un modello che proseguirà - continua De Cecco - fino alla
creazione del mercato unico europeo e che quindi sopravvisse a
lungo dopo la fine del regime fascista e che ha mostrato la propria
validità in anni più recenti con l'ascesa della Spagna.»
Il passaggio iniziò però in concomitanza con l'arrivo della crisi
americana sui mercati europei.
L'impatto fu minore nel nostro Paese rispetto ad altri stati
europei: il contemporaneo crollo della Germania di Weimar fu molto
più forte per via della maggiore industrializzazione dell'economia
tedesca.
L'Italia degli anni Venti era ancora fortemente agricola, con una
concentrazione industriale limitata al triangolo produttivo del
Nord. E difatti l'effetto macroscopico della crisi fu limitato al
Nord mentre il resto del paese fu sferzato da Mussolini che
affermò, come è noto, che «gli Italiani son abituati a mangiar
poco: non sono il popolo dei cinque pasti» (gli Inglesi - NdR).
Le cause che portarono all'aumento progressivo dell'aiuto statale
nell'economia italiana risalgono all'inizio degli anni Venti.
De Cecco esemplifica con due esempi
Il primo è il caso della BIS, la Banca Italiana di Sconto,
liquidata nel 1921.
Il secondo è il salvataggio del Banco di Roma del 1922.
Nel primo caso il governo democratico non concesse alcun prestito;
nel secondo caso il governo autoritario fascista trattò il
salvataggio della banca imponendo agli azionisti un preciso carico
di oneri.
Dal momento che si trattava prevalentemente di industrie che
avevano scalato le banche nei tardi anni Dieci con i capitali
ricavati dall'economia bellica e che si erano arricchiti producendo
forzatamente negli anni di guerra, il governo fascista impose
grandi quote di produzione industriale per risanare il
prestito.
L'aumento esponenziale della produzione provocò tuttavia una forte
sovrapproduzione, al punto che il ministro De Stefani fu costretto
a imporre la nominalità dei titoli di borsa e l'adozione di manovre
deflazionistiche volte al contenimento della spesa pubblica e alla
riduzione del debito interno nel 1926.
Nella seconda metà degli anni Venti si diffonde in Europa la
volontà di ricercare la stabilità monetaria.
Alla riforma monetaria tedesca seguì quella britannica, con la
rinegoziazione del debito pubblico e il ritorno al «gold standard»
(la parità con l'oro).
Di conseguenza anche la Francia rivide la propria posizione e
costrinse l'Italia all'adozione della famigerata «quota 90», ossia
la parità lira-sterlina del 1922.
Con la «Battaglia della Lira» il governo fascista cercò di limitare
il più possibile la speculazione monetaria: nell'inseguimento della
quota 90, salari e valore del denaro furono drasticamente ridotti.
Quanto alla risoluzione del malcontento per il taglio del 10% dei
salari «ci pensò l'olio di ricino» (parole di Marcello De Cecco -
NdR).
Comunque sua, le politiche deflazionistiche frustrarono
ulteriormente l'economia; la crescita diminuì.
«È in questa situazione che l'Italia viene investita dalla crisi
del 1931. Il crollo fu limitato semplicemente perché eravamo già
per terra - semplifica De Cecco. - In sostanza da noi "piovve sul
bagnato", mentre da altre parti era ancora sereno.»
«È in questi anni che i manager-tecnocrati tentarono l'adozione di
un nuovo modello di sviluppo, di stampo non tedesco ma americano,
scontrandosi però con una condizione salariale nettamente inferiore
a quella americana. Questo sistema, che come detto sopravvisse fino
agli anni Cinquanta, si attuerà infatti solo nel secondo
dopoguerra: come si poteva vendere automobili ai contadini?»
Alla crisi del credito, lo Stato rispose acquistando le banche in
crisi, entrando nel mercato.
Infrastrutture e (in misura minore, a vedere i risultati bellici)
riarmo, unica alternativa per far ripartire la produzione
industriale (per di più giustificato dal discorso fascista stesso)
fornirono la direzione per la ripresa.
Al termine della ricostruzione storica, De Cecco ha quindi tratto
alcune conclusioni, lasciando al pubblico in sala la costruzione
dell'altro lato dell'analogia.
«I modelli degli anni Trenta funzionano, e funzionano quando le
cose vanno male. Ma sono manovre di cartellizzazione, di monopolio
e (benché da noi non ci fosse stato) di controllo dei cambi. QTutto
questo è mobilitazione, - precisa De Cecco, - non
stabilizzazione.»
È dunque una costante storica che le riforme abbiano sempre seguito
e mai preceduto le crisi, specialmente in Italia. Anche perché non
è possibile dimostrare quando accada il contrario.
«Non possiamo ridurci ogni volta in questa maniera - Conclude De
Cecco. - Anche se c'è da dire che gli economisti, come portatori
del nuovo, non sono proprio sempre in prima linea.»