Emergenza baby gang – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista
Minori che seminano terrore: il più delle volte, per loro stessa ammissione, lo fanno perché non riescono a gestire il loro dolore interno
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Sembra un bollettino di guerra quello che emerge dalle cronache di questi primi mesi dell’anno, relativo alle cosiddette baby gang.
Aggressioni, accoltellamenti, atti vandalici, risse e pestaggi sono dappertutto e fanno pensare alla criminalità minorile diffusa oltreoceano.
Ma, per fortuna, non è così in Italia. Non si tratta di microcriminalità, quanto piuttosto di ragazzini che non conoscono il senso del limite, violenti senza premeditazione, affetti caso mai da una noia sconfinata e da un vuoto pneumatico reso possibile dal silenzio familiare.
Ragioni, a mio avviso, ancora valide per i millennials che hanno attraversato il Covid. A questi ragazzi credo però si debba riconoscere anche dell’altro.
Penso ad esempio alle relazioni di gruppo sospese in questi due anni di pandemia, azzerate da una sequela di lockdown che hanno soppresso il bisogno, fondamentale in adolescenza, della dimensione gruppale e fisica con cui è possibile uscire dall’infanzia, affrancarsi dalla famiglia e diventare adulti.
Invece quel protratto «distanziamento sociale» ha alterato i piani della crescita e temo che la definizione scelta per realizzare la sicurezza sanitaria, abbia influenzato non poco la dimensione sociale e il processo di individuazione.
A rifletterci bene, forse sarebbe stato meglio chiamarlo «distanziamento fisico» invece che «sociale» in quanto le parole agiscono su di noi e le espressioni possono condizionare gli atteggiamenti.
Di certo la violenza delle gang di minori che semina terrore, non è nuova.
C’era anche prima del Covid. Ma sorprende l’ampiezza del fenomeno e la sua diffusione su tutto il territorio.
Un recente report della Polizia ha rilevato come nell’ultimo anno siano 20mila le denunce a carico di minori.
Spesso sono ragazzi e ragazzini uniti in «bande» multietniche e non necessariamente provenienti da ambienti degradati, che s’incontrano e si organizzano sul web e poi scendono in strada armati di coltelli con cui aggrediscono senza motivo compagni sconosciuti e inoffensivi.
Un fenomeno che fa pensare a una nuova emergenza da affrontare.
Del resto il bilancio di due anni di pandemia sta mostrando un incremento del disagio psichico e mentale nei giovani, testimoniato peraltro dalla crescita delle loro richieste di aiuto.
Anche se c’è chi sta male e si gestisce da solo la sofferenza.
Un sondaggio coordinato da Ilvo Diamanti per la Demos e diffuso in questi giorni, evidenzia la diminuzione della paura tra gli adulti, ma la crescita tra i giovani nella fascia 18-29 anni.
È la perdita del futuro e quell’orizzonte stretto a mettere paura e non a non far sognare.
Viceversa i ragazzi tra i 12 e i 18 anni sono arrabbiati.
Vivono la vita con un’emozione difficile da controllare perché la rabbia, come gas compresso e alimentato da competizione e individualismo, nasce oggi dalla delusione verso la società degli adulti che non ha mantenuto la promessa di felicità e successo.
È nei confronti di questa realtà che i nuovi adolescenti si armano fanno esplodere tutta la loro aggressività violenta che può essere diretta agli altri o verso se stessi.
Nei miei interventi di consultazione incontro sovente il loro dolore interno che per loro stessa ammissione, non riescono a gestire.
È allora che la rabbia diventa panico o si trasforma in autolesionismo e aggressione verso il proprio corpo.
Che poi è lo stesso tessuto sul quale si scrivono anche le fughe dal mondo, purtroppo in aumento, che chiamiamo «ritiro sociale».
Giuseppe Maiolo – psicoanalista
Università di Trento - www.iovivobene.it