Dieci anni di smartphone – Di Giuseppe Maiolo, psicanalista
Dobbiamo chiederci quanta forza c’è dentro di noi per contenere lo strapotere di un oggetto a cui non possiamo più rinunciare
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Sono dieci anni che lo smartphone è entrato nella nostra vita.
Non è cambiato solo il nome del cellulare, il nuovo telefonino ha radicalmente influenzato la nostra esistenza. Una vera e propria rivoluzione della comunicazione globale e non unicamente del modo di telefonare, come pensava il suo inventore Steve Jobs.
Anzi lo smartphone che ti fa fare di tutto e di più, ha ormai decisamente cambiato i rapporti tra le persone.
Prolungamento digitale della nostro esistere in un mondo sempre più iperconnesso, lo smartphone ha modificato il modo di agire, muoverci, guardarci e trovarci.
Secondo alcuni sociologi siamo arrivati all’«homo smartphonensis» che torna a camminare curvo, perché impegnato a guardare continuamente il suo display, attratto dalle continue notifiche che gli segnalano messaggi, email e quant'altro.
Quella posizione del corpo così comune oggi e che ricorda un po’ l’Homo sapiens che, ricurvo, stava faticosamente raggiungendo la postura eretta, potrebbe essere il completamento del cerchio nell’evoluzione di primati, oppure rappresentare una sorta di ritorno indietro, quanto meno a livello posturale.
Allora: progressione o regressione? C’è da domandarsi che cosa ci ha portato quel piccolo e potente strumento, ormai feticcio nelle mani di tutti e che cosa ci offre quella connessione continua con il mondo a cui non possiamo più rinunciare. Domande aperte.
Di certo questo magico oggetto ha aperto spazi di interazione totalmente nuovi e modalità di relazione che prima non si immaginavano.
Le infinite App ci fanno fare cose che solo pochi anni fa non erano possibili. Grazie a questo dispositivo mobile abbiamo cancellato l’idea dell’ozio mentale e della noia, abbiamo cambiato radicalmente il modo di informarci e, almeno in parte, pensato di colmare le nostre ignoranze.
In certi momenti ci aiuta a sostenere lo smarrimento e ci serve per tamponare l’angoscia del vuoto e della solitudine.
La distanza è diventata una categoria minore che intimorisce solo quando viene a mancare il campo e la connessione.
Iperconnessi lo siamo tutti. Non solo i giovani. Così si è dilatato il concetto di possibilità che appartiene ormai alla coscienza comune di miliardi di uomini in tutto il globo.
Con questo ci stiamo sentendo più capaci di realizzare i nostri desideri, a volte onnipotenti, perché più in grado di dare visibilità immediata e parole ai nostri pensieri e alle nostre passioni, anche le più nascoste.
I vantaggi sono tanti, sicuramente. Innegabili. Ma ci sarà un prezzo da pagare che non riguarda solo il costo del device?
Forse potrebbe essere che il prezzo più alto venga dal non saper governare bene questo totem tecnologico stracolmo di sensori, che ci permette di fare velocemente una miriade di cose importanti, ma che spesso, senza rendercene conto, ci fa consegnare al mondo informazioni di noi sempre più intime e personali.
E poi proviamo a pensare se non abbiamo collocato nel palmo della nostra mano una specie di divinità che pretende attenzione costante e ci fa piegare in avanti riverenti, spesso a discapito dell’altro che ci sta di fronte e aspetta il nostro sguardo.
Non a caso mi vien da pensare che stanno comparendo nuove forme di trascuratezza sostenute dalla dittatura di quel display così pervasivo che si impone e sopravanza ovunque.
Quanto siamo social lo sappiamo. Chiediamoci quanto siamo ancora socievoli. E soprattutto quanta resilienza abbiamo, ovvero quanta forza c’è dentro di noi per contenere lo strapotere di un oggetto a cui non possiamo più rinunciare.
Giuseppe Maiolo
www.officina-benessere.it