Severino Postal, uno dei 2.500 trentini dimenticati dalla storia

Partito militare per l'Austria nel 1911, tornò a casa nel 1920, passando da Vladivostok. La Grande Guerra era finita da due anni

Severino Postal era nato a Romagnano il 1° febbraio 1891.
Nel 1911 era di leva e pertanto fu chiamato sotto le armi, che servì da Kaiserjäger in un una caserma vicina alla città di Trento.
Allora il servizio militare austro ungarico durava tre anni, per cui allo scoppio della Grande Guerra (28 luglio 1914) si trovava abile e arruolato, pronto per essere spedito al fronte.

Nel mese di agosto il suo contingente fu mandato sul fronte russo, sui monti Carpazi, in Galizia.
Il battesimo del fuoco fu per lui un tuffo nell'inferno, perché si trovò immediatamente coinvolto in furiosi combattimenti corpo a corpo, con trincee assaltate senza tregua dalle truppe zariste.
Da placido agricoltore qual era, trovarsi costretto a uccidere per non essere ucciso in continui feroci assalti, convivere fra strazianti sofferenze e tragedie umane inenarrabili, deve essere stato per lui qualcosa di spaventoso, come per tutti i suoi commilitoni.

La Galizia è una regione storica divisa tra la Polonia e l'Ucraina. Il Regno di Galizia e Lodomeria, o semplicemente Galizia, fu la più grande, la più popolata e la più settentrionale delle province dell'Impero Austro-Ungarico dal 1772 al 1918, con Leopoli come capitale.
Fu creata dai territori presi alla Confederazione Polacco-Lituana durante le Spartizioni della Polonia ed esistette fino alla dissoluzione dell'Austria-Ungheria, avvenuta alla fine della Prima guerra mondiale.

Durante la Grande Guerra la Galizia fu teatro di pesanti combattimenti tra le forze russe e quelle delle Potenze Centrali. I russi invasero gran parte della regione nel 1914, dopo aver sconfitto l'esercito austro-ungarico in una caotica battaglia nei mesi iniziali della guerra.
Essi vennero a loro volta ricacciati indietro nella primavera/estate del 1915, da un'offensiva combinata di tedeschi e austro-ungarici.

I Russi non erano né ben armati né equipaggiati, a volte erano perfino senza munizioni. Ma erano tanti, tantissimi. Per quanto in tutta la Grande Guerra i sistemi di difesa fossero assai più potenti dei mezzi di offesa, in Galizia (nella cartina dell'epoca qui sotto) la grande quantità di nemici raggiungeva spesso la supremazia sulle difese austro ungariche. Le migliaia di morti non impedivano ai comandanti di insistere, forti di un'immorale aritmetica che offriva un risultato positivo al termine di una reciproca ecatombe.

Fu così che il nostro Severino Postal, non molti giorni dopo la sua entrata in prima linea, si trovò a respingere un fottutissimo assalto dei Russi che, per quanti ne cadessero a terra, continuavano a venire.
D'un tratto i nemici sfondarono e lui si trovò coinvolto in un corpo a corpo con la baionetta.
Forse ne uccise qualcuno, certo è però che d'un tratto si trovò con la gola trafitta da una baionetta nemica.

Sapendo che cosa significhi una coltellata alla gola, la nostra storia potrebbe finire qua. Ma Severino era di una fibra eccezionale. A fine assalto, venne recuperato dai soccorritori e trasferito nell'ospedale di Budapest.

Guarito, venne mandato a Innsbruck in convalescenza. Nessuno del comando si pose il problema di mandarlo a casa, non diciamo in congedo, ma almeno a recuperare lo stato di salute dopo una brutta lacerazione alla gola.
Dopo alcuni mesi fu rispedito al fronte, in Galizia, a riprendere l'assurda vita di trincea, con attacchi e contrattacchi sanguinosissimi, del tutto inutili.

E fu in un contrattacco che si trovò nuovamente a terra, da solo, in mezzo a decine di feriti e cadaveri di amici e nemici.
Lui rimase a terra, spossato dalla stanchezza, provato dall'orrore, in attesa di essere scoperto e finito dai Russi. Meglio così, pensò, che sia finita una volta per tutte.
Ma quando i soccorritori i Russi lo scoprirono, capirono che l'uomo a terra era vivo sì, ma ormai non più pericoloso, annientato dentro.
Senza difficoltà si lascia curare e consegnare al servizio prigionieri di guerra nemico.

In quel periodo ci saranno stati un migliaio di campi di prigionia in Russia, sparsi in tutto quell'enorme territorio. E lui venne trasferito più volte, secondo un preciso disegno che voleva raggruppare tutti coloro che parlavano la stessa lingua. L'idea era che le sorgenti nazionalità avrebbero potuto costituire un valido agente rivoluzionario per disgregare l'impero Austro Ungarico.
A un certo punto furono 2.500 gli Italiani (Trentini, Friulani e Giuliani) raggruppati in un unico campo di concentramento in Ucraina, vicino a Kiev, chiamato Kirsanov. E qui cominciarono le trattative volte a convincere i prigionieri a passare dalla parte italiana.

Kirsanov è una città della Russia sudoccidentale, situata sulla sponda sinistra del fiume Vorona, 95 km a est del capoluogo Tambov. È capoluogo del rajon (distretto) Kirsanovskij, dal quale è però amministrativamente separata.
La città venne fondata nella prima metà del XVII secolo con il nome di Kirsanovo, a sua volta derivato dal nome del primo colonizzatore della zona Kirsan Zubakin.
Ottenne lo status di città nel 1779, durante il regno di Caterina II.
Si sviluppò nel XIX secolo come centro agricolo e commerciale.
Nel 1875 venne raggiunta dalla ferrovia, lungo la linea che collegava Tambov e Saratov.
A fine '800 contava 11.000 abitanti, oggi 20.000.

La scelta era se restare prigionieri o diventare alleati dell'Intesa, ma non è che la decisione avrebbe modificato di molto lo status degli Italiani. Infatti, vivevano in un regime di semilibertà, potevano uscire e lavorare in pace, tanto sarebbe stato un suicidio tentare la via della fuga per tornare a casa, magari per poi essere rispediti al fronte.
A quanto pare, invece, tutti si diedero da fare per raggranellare qualche soldo.
Il nostro Severino Postal di Romagnano non fumava, per cui scambiava le sigarette che gli davano in cambio di tè. E dato che non beveva il tè, lo vendeva agli amici o ai russi stessi, facendo quattrini che poi, come vedremo, gli sarebbero stati utili.

Nel 1916 il Governo Italiano inviò degli emissari per convincere gli italiani di stanza a Kirsanov a passare dalla parte italiana.
Non fu una cosa semplice, dato che ci vollero mesi e mesi prima di convincerli a fare una scelta.
Quando furono certi che non sarebbero stati portati nuovamente a combattere, presero una decisione. La maggior parte scelse per l'Italia.
Non furono tuttavia pochi coloro che rimasero fedeli all'Austria Ungheria.

A quel punto, per gli optanti non restò che tornare a casa.
Una parola. Da che parte passare? L'Europa era in guerra dalla Turchia ad Arcangelo…
L'Italia ricorse allora all'aiuto dell'Inghilterra. Chiese e ottenne da Londra che una nave britannica si recasse ad Arcangelo, dove sarebbero giunti a più riprese gli Italiani da rimpatriare.

Un primo contingente di malati e vecchi (la leva era stata estesa in Austria ai 50 anni) venne trasferito ad Arcangelo. Poi venne inviato un secondo contingente, sempre con precedenza ai più bisognosi, che pure raggiunse la nave della speranza. Il terzo contingente invece era stato fatto tornare indietro perché la nave era dovuta partire prima che i ghiacci riprendessero a coprire il Mar Artico.
Come si vede dalla cartina dell'epoca che segue, si tratta di operazioni che richiedevano tempi lunghissimi per via degli spazi sconfinati da percorrere.
Nessun'altra nave sarebbe più ripartita con i reduci, per cui è bene raccontare come andò a coloro che erano riusciti a imbarcarsi e partire.



In una decina di giorni la nave, carica di qualche centinaio di italiani, era riuscita a passare il Mare del Nord, evitando l'agguato dei sommergibili tedeschi, fino a passare le isole Shetland, le Orcadi, le Ebridi e poi giù per il Canale fino a raggiungere Liverpool.
Qui vennero sbarcati e poi fatti salire in un treno che li portò a Dover e da lì fino a Calais. Sempre in treno, attraversarono la Francia nord-sud e raggiunsero Torino, dove rimasero fino alla fine della guerra (casa loro era sempre oltre le linee nemiche).

Gli altri erano rimasti a Kirsanov, nella morsa del grande freddo russo.
Al trascorrere dell'inverno, tuttavia, fu drammaticamente certo che nessun'altra nave sarebbe più arrivata ad Arcangelo, anche perché la Russa stava affrontando la sanguinosa Rivoluzione di ottobre e i rapporti con l'Intesa si fecero di altra natura.
I nostri connazionali, tuttavia, non si persero d'animo e decisero, d'accordo con le autorità russe, di partire per Vladivostok e da lì tornare a casa.
Si provi un attimo a fare mente locale. Accettare di intraprendere un secolo fa un viaggio del genere, che farebbe paura anche oggi, significava che proprio era forte la voglia di casa. In aggiunta si pensi alle condizioni dei nostri e all'inverno siberiano.
Sì, perché iniziarono a prendere la Transiberiana, a partire dal mese di dicembre 1917 e sempre a scaglioni.

Dopo aver riempito gli zaini di viveri acquistati in città e aver preso le proprie armi e munizioni (i Russi gliele avevano restituite al momento dell'adesione all'Intesa), partirono per Vladivostok in gruppi di 40 persone per volta.
Dopo numerosi viaggi che duravano mediamente 20-30 giorni ciascuno, arrivarono sulla sponda russa del Pacifico in 600, dove vennero accolti in tre campi di concentramento gestiti da Giapponesi, Francesi e Inglesi.
Il problema adesso era di trovare una nave che li portasse in Europa.



Un primo contingente di 300 persone riuscì a trovare una nave disposta a trasportarli negli Stati Uniti. A pagamento, sia ben chiaro. Anche stavolta venne data la precedenza agli ammalati e ai più vecchi.
La nave attraversò il Pacifico e li sbarcò sulla costa occidentale americana. Da lì presero più treni per arrivare fino alla costa orientale, dove riuscirono a imbarcarsi e attraversare l'Atlantico.
Furono fatti sbarcare in Inghilterra e anche loro da lì vennero trasferiti, via Francia, a Torino, dove rimasero fino alla fine della guerra.
Avevano impiegato più di due mesi.

Per coloro che erano rimasti a Vladivostok, si stava invece preparando un'altra sorpresa. Non piacevole.
Le nazioni appartenenti all'Intesa avevano deciso di intervenire contro i Bolscevichi, per ripristinare a San Pietrogrado (con lo scoppio della guerra gli Zar avevano cambiato il nome tedesco di Pietroburgo nel russo Pietrogrado) la dinastia degli Zar.
Al contingente formato da Inghilterra, Francia e Usa, decise di aggiungersi anche l'Italia. Tanto, non doveva mandare neanche un uomo, per la semplice ragione che li aveva già lì.
Degli ufficiali organizzarono i nostri uomini che, pazientemente, tornarono a indossare la divisa da «volontari». E dato che avevano le mostrine nere, passarono alla storia come «Battaglioni Neri».

Nel marzo 1918 le truppe anglo-francesi invasero alcune regioni del nord della Russia Europea. Il 5 aprile diverse navi da guerra giapponesi, comandate dall'ammiraglio Kato, sbarcarono truppe nella baia di Vladivostok.
I governi degli Stati imperialisti, persino quelli ch'erano stati alleati della Russia, volevano assolutamente la fine della Repubblica sovietica, o comunque il suo coinvolgimento nella guerra mondiale, per indebolirla e successivamente suddividerla in varie colonie. I britannici erano già penetrati ad Arcangelo e a Murmansk, e nell'agosto 1918 occuparono Baku. I nipponici entrarono a Vladivostok nell'aprile dello stesso anno. In novembre reparti francesi e greci, sotto la protezione della marina anglo-francese, scarcarono a Odessa.
Alla fine i paesi che cercarono d'invadere la Russia furono ben 14.
Nell'estate del 1918, praticamente 3/4 del territorio russo era nelle mani degli interventisti stranieri e dei controrivoluzionari interni e nella primavera del 1919 queste forze disponevano di circa un milione di soldati e ufficiali.

Il contingente italiano venne fatto scorazzare in lungo e in largo per la sterminata pianura siberiana, alla caccia di bolscevichi.
Dalla parte opposta, i bolscevichi seppero destreggiarsi piuttosto bene, evitando accuratamente scontri armati aperti.
Tra i «Rossi», non mancarono i combattenti trentini che per una ragione o per l'altra non avevano aderito a nessuna delle proposte e alla fine avevano deciso di mettersi dalla parte dei bolscevichi.
I «Bianchi» erano sostenuti dalle potenze dell'Intesa, e si erano messi al comando dell'ammiraglio russo Kolchak, che aveva fatto base a Kazan (al di qua degli Urali).
Il risultato positivo di quel contingente italiano fu che pochi morirono in battaglia, proprio per via della guerriglia di movimento che caratterizzò la fase seguente alla rivoluzione.
Il lato negativo venne dalle sofferenze patite dalla nostra gente in quel clima freddo e in quello sterminato territorio. E il vedersi ancora rinviato il giorno del ritorno a casa.

L'ammiraglio Kolchak, sospinto dalle armate bolsceviche, dovette poi ritirarsi a Irkusk (nella foto qui sotto) e i volontari trentini si stabilirono a Verkojansk, una cittadina di 1.400 abitanti situata nella Siberia nord orientale vicina al Circolo Polare Artico e nota al mondo per le sue temperature che d'inverno si aggirano sui 50 gradi sottozero.
Il compito dei Trentini a Verkojansk fu quello di tenere sotto controllo l'ordine pubblico.
Vi restarono per un anno.

Nel febbraio 1919, Washington, Londra e Parigi compresero di aver chiaramente sopravvalutato le possibilità delle guardie bianche di rovesciare il potere dei Soviet. Ciò che non avevano immaginato era la forte opposizione delle masse popolari ai paesi dell'Intesa che volevano rovesciare la Russia sovietica.
Anzi, la propaganda rivoluzionaria condotta nei luoghi di battaglia e i successi dell'Armata Rossa provocarono il rifiuto da parte dei soldati dell'Intesa a proseguire le ostilità.
Molti marinai della flotta francese nell'aprile 1919 si ribellarono espressamente ai loro comandanti.

I Battaglioni Neri dei Trentini vennero riportati a Vladivostok (nella foto sotto il titolo), stavolta proprio per essere mandati finalmente a casa.
Da Vladivostok vennero prima trasferiti a Pechino, non si sa perché. Forse per fargli fare un po' di strada in più o per conoscere il mondo… Poi vennero portati a Tientsin, dove l'Italia aveva una concessione coloniale che mantenne dal 1901 al 1943.
Stavolta i nostri ragazzi si imbarcarono tutti sui piroscafi Nippon, England Maru, il Texas e il French Maru, che salparono in rotta per il Pacifico meridionale, l'oceano Indiano, il Mar Rosso, il Canale di Suez, il Mediterraneo, l'Egeo, l'Adriatico e, infine, Trieste, ormai italiana da due anni.
Severino Postal vi giunse il 12 febbraio 1920.

Da Trieste partirono poi col treno e arrivarono a Trento, dove vennero accolti da eroi: la «Legione Trentina», loro malgrado, era diventata leggendaria.
Severino tornò a Romagnano nel lontano febbraio 1920, nove anni dopo la sua partenza.
Non si sa che cosa accadde quando si presentò a casa. L'emozione fu tale che nessuno riuscì mai a raccontare a figli e nipoti che cosa accadde quando si presentò alla porta di casa. Probabilmente solo la mamma sapeva che era ancora in vita.
Grazie all'esperienza fatta in giro per il mondo, decise di mettersi nel commercio e avviò una proficua attività di prodotti agricoli che dalla campagna trasportava in città per la vendita.

Morì a Romagnano il 16 giugno 1952.
Lasciò la moglie Anna e i figli Diego, Renzo, Vanda e il senatore Giorgio Postal.

Guido de Mozzi - [email protected] 

Epilogo.
I prigionieri trentini in Russia che non avevano optato per l'italianità tornarono a casa prima degli altri, nel 1918, con la fine della guerra.
Un professore trentino scrisse nel secondo dopoguerra un libro per dimostrare che anche i Trentini avevano combattuto a fianco dei bolscevichi. E così era stato, grazie ai prigionieri che si erano schierati dall'altra parte, anche se in minima parte. Non sappiamo che fine abbiano fatto, ma faremo una ricerca.
Il fascismo cavalcò le gesta epiche di quella eroica «Legione Trentina» di volontari imposti e i principali esponenti divennero leader del partito che fece la Marcia su Roma il 28 ottobre 1922. Severino Postal non vi partecipò.
Ma l'aver appartenuto alla Legione Trentina gli fu ugualmente d peso nel secondo dopoguerra, perché rappresentava quella parte eroica tanto elogiata dal Duce, e quindi da disperdere nell'oblio.
Per questo le disavventure di quei poveri 2.500 ragazzi non vennero più ricordate nella Repubblica Antifascista nata nel 1946.
Oggi abbiamo voluto raccontare la storia di uno di loro, perché non vogliamo che vengano ricordati solo i caduti della Grande Guerra, ma anche coloro che diedero tanti anni della propria vita per avere in cambio nulla. Proprio nulla. Assolutamente nulla.