Intervista a Maria Romana, figlia prediletta di Alcide De Gasperi
«Mussolini sapeva che solo De Gasperi avrebbe potuto succedergli» «Non era irredentista perché vedeva l'Europa» «Io mi sento Trentina, per la semplice ragione che sono nata a Trento» «L'auto di Stato? Se proprio era necessario, gliela passava il partito» «Solo Dulles comprese il dramma di mio padre a Parigi»
«Ne ho trovati pochi, signora, e non sono proprio belli…»
«Ma no, invece! Sono bellissimi…»
Un vicino di casa aveva portato alla signora Maria Romana De Gasperi un cestello contenente dei porcini davvero invitanti e lei ne era grata. Si usava così una volta, ma oggi in Val di Sella succede ancora. Perlomeno quando la signora De Gasperi c'è in casa. Casa che era di sua madre.
Anche io le avevo chiesto di poterla intervistare, approfittando della sua presenza in zona. Ed è stata gentilissima, pur senza nascondermi che le interviste non l'hanno mai entusiasmata in passato, come non la entusiasmano oggi.
«Non vedo mai riportato quello che dico…» si giustifica con una certa delusione.
«Le farò rileggere l'intervista prima di metterla in rete.»
E così ho fatto.
«Signora… Ogni volta che leggo qualcosa su suo padre, io mi sento emozionare. E devo dirle che è una sensazione che provo anche adesso che sono davanti a lei.»
Siamo seduti nel suo bel salotto, rimasto probabilmente così da sempre, semplice ed elegante. Dei libri di altra epoca sullo sfondo. Dei grandi piatti alla parete. Il bosco solenne e riservato che fa capolino dalle finestre.
Sorride. «Cos'è che voleva sapere, che non si sappia già?»
«Premetto che sono un giornalista e non uno storico. Ci sono dei buchi nella mia conoscenza e la mia curiosità mi ha spinto a chiedere a lei.»
Si rasserena e sta ad ascoltarmi. Non le spiace parlare di suo padre Alcide.
«La prima cosa che le chiedo è questa. Suo padre è arrivato al… diciamo, successo, all'età di 65 anni.»
«Infatti.»
«Fino a quel momento aveva avuto più sofferenze che soddisfazioni. Quello che vorrei sapere è se secondo lei suo padre aveva sempre saputo che sarebbe diventato un personaggio di levatura mondiale.»
«Sicuramente era modesto. Non è mai vissuto per diventare qualcuno, ma quando è stato il momento sembrava che fosse una cosa del tutto naturale. Era quello il suo destino. Lui sapeva.»
«Come avvenne che i suoi colleghi di partito giunsero alla decisione di porre Alcide alla guida del partito e del paese?»
«Nulla di particolare. Era come se tutti dessero per scontato che dovesse essere lui il presidente. Qualcuno racconta che perfino Mussolini, nei giorni di Salò, avrebbe detto che solo De Gasperi avrebbe potuto prendere in mano le sorti del Paese.»
«Per voi la vita cambiò sensibilmente…»
«Beh, avremmo vissuto dignitosamente comunque. - Palesa una certa ironia. - Però adesso sapevamo che, se necessario, nostra madre avrebbe avuto a disposizione l'auto del partito…»
Sorrido.
«Niente scorta? Auto di Stato?»
Sorride anche lei.
«Non ci avevamo proprio mai pensato. Mio padre, da Presidente, aveva diritto all'auto di stato, ma usava andare a piedi o in bicicletta.»
«L'auto del partito mi fa venire in mente la seconda domanda. Suo padre non doveva essere considerato così importante dal Paese e dai suoi concittadini, se il monumento di Piazza Venezia a Trento gli è stato donato dalla Democrazia Cristiana.»
«Non la vedrei così… Il partito lo conosceva meglio di chiunque altro e forse ha un po' anticipato i tempi.»
«E' molto gentile, - osservo. - Però io c'ero, anche se piccolo, e ricordo che non era ben considerato.»
«Perché questa è la politica. Vede, allora era cronaca, oggi è storia. Allora faceva parte del dibattito, oggi la storia gli ha dato profondamente ragione. Oggi lo amano.»
«Com'è che prendeva le decisioni? Cos'è che lo ispirava?»
«Niente di particolare. Egli era solo il frutto della sua esperienza, della sua vita, della sua fede. Ha sempre e semplicemente fatto quello che secondo lui andava fatto.»
«Torniamo indietro nel tempo. C'è stato un periodo in cui nel Trentino hanno vissuto tre personaggi destinati ad entrare nella storia. Cesare Battisti, Benito Mussolini e Alcide De Gasperi. Lei sa se si sono mai incontrati?»
Non ha dubbi.
«Mussolini? No, lo incontrò solo a Roma. Sostenne contro di lui la polemica politica.»
«Perché suo padre non fu un irredentista?»
«Anzitutto perché era abituato a vivere secondo le regole del gioco. Non aveva neanche mai pensato che un giorno il Trentino sarebbe passato all'Italia. Era un problema a livello dei due stati, Italia e Austria, che facevano parte della medesima Triplice Intesa. Passò dal parlamento viennese a quello romano dopo la guerra.»
«Forse in questo c'è anche la sua grande vocazione europea?»
«Io ho sempre pensato che l'avere avuto per compagno di banco un ragazzo che parlava ungherese, poi uno che parlava croato, tedesco, o altro ancora, sia stato determinante per superare il problema della nazionalità. Guardi che in questo fu così anche Schumann. Viveva in una terra, l'Alsazia, che era stata sia francese che tedesca. Anche Schumann, che era una persona eccezionale, non aveva il senso di appartenenza… Era semplicemente europeo.»
«E Adenauer?»
«Lui aveva problemi ben più grandi dei nostri… La Germania alla fine della guerra era lacerata in due parti e lui tendeva con tutte le sue forze all'unità. Per i Tedeschi l'Europa Unita era l'unica via per...»
«Suo padre parlava il tedesco come l'italiano, vero?»
«Anche il francese e l'inglese. Per tenersi in allenamento con l'inglese, con il suo segretario, che aveva un genitore britannico, parlava inglese.»
«Infatti, ha vissuto molto di traduzioni...»
«Sì, i soldi non bastavano mai. Sa cosa avevano dovuto fare per poterlo far studiare? I nonni avevano chiesto la carta di povertà, perché solo così potevano ricevere aiuti per la scuola.»
«Come aveva fatto a mantenersi all'università di Vienna?»
«Lavorando. Facendo traduzioni, come sempre. Ma faceva la fame davvero. Una volta ha scritto a casa dicendo che era sera, aveva la bronchite, non aveva trovato cassette per la legna da ardere, non aveva nulla da mangiare. Ma non importa, aveva concluso nella lettera, mi giro dall'altra e prenderò sonno.»
«In cosa si era laureato?»
«Il filologia.»
«Lo studio delle origini della lingua…»
«Delle lingue…»
«Ricorda qualcosa di quando tolse la terra ai latifondisti per darla ai contadini? L'iniziativa era partita già da Mussolini, ma poi venne definita di sinistra.»
Sorride ancora.
«Ricordo che un ricco latifondista andò da mio padre per chiedergli come avrebbe fatto a vivere adesso che gli avevano espropriato qualche migliaio di ettari. Mio padre sfilò il portafoglio dalla tasca e gli disse se le serve qualcosa, posso aiutarla di tasca mia… he he.»
«Io di tanto in tanto vado in Maremma, - le racconto, - dove le grandi società di assicurazioni avevano immense proprietà fondiarie. De Gasperi le aveva espropriate e cedute a particolari condizioni ai contadini. Cento ettari per famiglia. Pensi che adesso quei 100 ettari rendono come gli interi 2.000 ettari prima dell'esproprio.»
Già che mi aveva ascoltato con interesse, aggiunsi un aneddoto.
«Sa quanto ha pagato la terra ai latifondisti? Secondo il valore dichiarato nella denuncia dei redditi… Sottile, vero?»
«Ricorda qualcosa del suo viaggio in America?»
«Altroché! Eravamo andati con un quadrimotore che ha dovuto fare scali in più isole a fare rifornimento. Impiegammo 24 ore.»
«Era stato invitato da Eisenhower? Da Dulles?»
«No, volle sfruttare il viaggio il più possibile. Al senato lo applaudirono al punto che riuscì a dimenticare le amarezze delle sue trattative per la pace. Il segretario di stato americano lo aveva conosciuto a Parigi, quando De Gasperi pronunciò il suo famoso discorso. Dulles era stato l'unico ad avvicinarlo per scusarsi per l'eccessiva crudeltà dell'assemblea. Divennero amici, e forse fu grazie a lui che il viaggio in USA si rivelò fondamentale per il futuro dell'Italia.»
«Il Piano Marshall lo portò a casa lui. Lei c'era al Senato quando suo padre prese la parola?»
«Sì sì… Ma c'ero anche a New York, quando vedemmo per la prima volta i grandi supermercati americani. Fu lì che mio padre capì che quello era il futuro che voleva riservare all'Italia.»
«Immagino che lei abbia letto i libri di Pansa, come Il sangue dei vinti.»
«Infatti, sì.»
«Sapevate di queste sanguinose rappresaglie?»
«No.»
«Non era per questo che Togliatti aveva voluto l'amnistia?»
«L'amnistia la vollero sia Togliatti che De Gasperi.»
«Io credo che Togliatti l'abbia voluta per troncare le rappresaglie. Dopo l'amnistia quei reati sarebbero stati perseguiti, e quindi…»
«Io posso dire solo quello che so con certezza o quello che ricordo…»
«Mi dice qualcosa sull'ipotesi di canonizzare suo padre?»
«Noi non l'abbiamo chiesto di sicuro. L'idea è partita dal vescovo di Trento, ed è stata bloccata in parte dal vescovo di Bressanone che risentiva delle opinioni contrarie della sua popolazione.»
«E è bastata quell'opposizione per arrestare il processo?»
«Vede, anzitutto non può essere la famiglia ad interessarsi di queste cose.»
«E la Fondazione?»
«La Fondazione potrebbe darsi da fare, ma ci vogliono soldi e la Fondazione non ne ha. Ma non è un problema, mi creda.»
Mi accompagna fuori casa e mi mostra il balcone dal quale suo padre la chiamava quando era piccola. Lo guardo, immaginandomi la scena. Poi mi giro verso di lei.
«Lei… Lei è sempre in contatto intimo con sua padre, vero?»
Non risponde, è emozionata, commossa.
Guido de Mozzi
[email protected]
(Nelle foto, dall'alto in basso: la famiglia De Gasperi a Sella; la biblioteca di casa De Gasperi; la signora Maria Romana; De Gasperi con Eisenower nel suo viaggio in USA; De Gasperi e la figlia Maria Romana; la signora Maria Romana nel suo salotto; il balcone più amato da De Gasperi; la signora Maria Romana al nostro commiato.)