Il ministro Guerini: «L’Italia lascia l’Afghanistan a testa alta»
«Nessun sistema d’arma o mezzo militare italiano è stato ceduto alle forze afgane al momento del rientro del nostro contingente»
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Gli eventi che si sono succeduti negli ultimi giorni hanno certamente sorpreso l’intera Comunità Internazionale per la rapidità con cui è mutato il contesto politico-militare e per i conseguenti drammatici risvolti umanitari.
Fin da quando fu presa la decisione del ritiro definitivo delle truppe NATO dal paese, si conosceva il rischio di una ripresa dell’offensiva talebana, volta ad acquisire un vantaggio militare sul terreno in vista del riavvio dei dialoghi intra afgani, sospesi da tempo a Doha.
Ciò nonostante, sia la NATO che la maggior parte degli analisti internazionali stimavano che la campagna militare talebana sarebbe stata contrastata con una certa efficacia dalle forze di sicurezza afgane, numericamente superiori, certamente ben equipaggiate e che avevano dimostrato a più riprese negli ultimi anni la loro capacità operativa di contrastare i Talebani.
I fatti avvenuti ci dicono che le cose sul campo sono andate in maniera radicalmente diversa.
Da un lato abbiamo assistito ad una rapida avanzata talebana, frutto di una campagna militare certamente pianificata in dettaglio, con obiettivi intermedi di alta valenza militare, come il controllo delle frontiere, la conquista dei principali capoluoghi di provincia e l’interdizione delle vie di comunicazione verso la capitale Kabul, raggiunta infine lo scorso 14 agosto.
Dall’altro, inaspettata o quanto meno non prevedibile nei modi in cui si è determinata, è stata la scarsa, se non nulla, resistenza posta delle forze di difesa e sicurezza afgane che in alcuni casi non hanno neanche impegnato in combattimento gli avversari, scegliendo di fuggire oltre confine o di arrendersi ai Talebani abbandonando, alla mercè di questi ultimi, mezzi ed equipaggiamenti.
Analoga, a parte alcune eccezioni, è stata la condotta delle milizie guidate dai nomi storici della resistenza afgana (Dostum, Al Noon, Khan) che, anche in relazione all’andamento delle attività talebane, hanno preferito siglare accordi, evitando lo scontro militare, a volte anche con lo scopo di proteggere la popolazione civile.
Sullo sfondo di questi evidenti insuccessi militari, è emersa in tutta la sua drammaticità la mancanza di coesione e di una leadership credibile da parte delle istituzioni repubblicane afgane che, già frammentate dalle lunghe diatribe politiche interne seguite alle elezioni del 2019, non solo non sono state in grado di mobilitare un fronte comune, indispensabile a fronteggiare l’avanzata talebana, ma hanno certamente alimentato nel personale delle forze armate una sfiducia e una incertezza che, accompagnate dal senso di abbandono seguito alla partenza delle forze NATO, sono risultate determinanti nel mancato contrasto all’avanzata talebana.
Col precipitare delle condizioni di sicurezza nella città di Kabul, la Difesa, in sinergia con la Presidenza del Consiglio ed il Ministero degli Esteri, si è attivata per assicurare il necessario supporto all’attività di evacuazione dei connazionali e del personale diplomatico, nonché degli afgani, che hanno collaborato con le istituzioni italiane in questi anni, e dei loro familiari.
Chi ha lavorato con l’Italia non doveva essere abbandonato ed era già stata predisposta una pianificazione, articolata in tre fasi, per il trasferimento dei nostri collaboratori afgani.
L’operazione «Aquila 1», avviata in concomitanza delle operazioni di ripiegamento del nostro contingente, ha quindi visto l’arrivo in Italia di un primo gruppo di 228 nostri collaboratori afgani e dei loro familiari.
Questa pianificazione prevedeva inoltre che si sarebbe concretizzato il trasferimento di ulteriori 390 collaboratori afgani e rispettivi familiari, utilizzando aerei civili, da Herat a Kabul e, successivamente, dalla capitale afgana alla volta di Roma Fiumicino con l’operazione Aquila 2.
A questa sarebbe infine dovuta seguire nel mese di settembre Aquila 3 per il rimpatrio di ulteriori 1.500 persone.
L’offensiva talebana, che ha portato alla rapida chiusura di tutti gli aeroporti afgani eccetto Kabul, ha tuttavia impedito l’attuazione di questo piano, a cui si è risposto con il rapido adattamento della pianificazione al nuovo scenario e l’immediato avvio dell’operazione di evacuazione «Aquila Omnia», a guida del Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI) con un ponte aereo assicurato dall'Aeronautica Militare, per il trasporto degli afgani che, a vario titolo, hanno supportato le istituzioni italiane.
Già il 15 agosto, insieme agli alleati americani, il nostro primo velivolo atterrava sull’aeroporto di Kabul in una situazione di sicurezza decisamente deteriorata, quasi caotica, e imbarcava la quasi totalità del personale della missione diplomatica italiana a Kabul, di 17 afgani e di due dipendenti stranieri evacuandoli in sicurezza in Italia.
La rapidità del nostro intervento è stata realizzata grazie al pre-posizionamento su Kabul di una Joint Evacuation Task Force (JETF), generata dal COVI e coadiuvata dal personale diplomatico e militare della nostra Ambasciata, con personale per la Force Protection, un nucleo sanità e un nucleo di Comando e Controllo con capacità di comunicazioni strategiche, per un totale di 70 unità, successivamente incrementate a 119, che sono incessantemente impegnate nelle operazioni di evacuazione con 8 velivoli dell’Aeronautica Militare, 5 C130 e 3 aerei KC 767, che operano verso l’Italia attraverso scali tecnici regionali.
Questa articolata operazione, che, al momento, in assenza di nuove decisioni alleate, si protrarrà ancora per alcuni giorni in relazione alla nota scadenza del 31 agosto, vede impegnate oltre 1.500 unità a cui va il mio personale apprezzamento e la mia riconoscenza.
Ad oggi, sono stati messi in sicurezza 3.741 afgani di cui, attraverso l’esecuzione di 44 voli, sono stati già trasferiti in Italia 2.659 afgani (di questi il 38% sono uomini, il 30% donne e il 32% bambini) mentre i restanti 1.082 sono stati successivamente imbarcati e portati in Italia.
Si tratta di nuclei familiari, provenienti da Herat e Kabul, costituiti da persone esposte quali collaboratori a vario titolo delle istituzioni italiane, attivisti dei diritti umani e dei diritti delle donne, giornalisti, membri delle istituzioni e collaboratori delle organizzazioni non governative italiane presenti sul territorio in questi anni, individuati con criteri analoghi e condivisi con gli altri paesi Alleati.
Le capacità messe in campo sull’aeroporto di Kabul sono state inoltre rese disponibili anche a supporto delle richieste di trasporto presentate dai paesi Alleati, dall’Unione Europea e dalla Svizzera su base di reciprocità all’interno della collaborazione in atto.
Infine l’Italia ha reso disponibili le basi di Aviano e Sigonella per il trasferimento dei civili afgani in transito verso gli Stati Uniti.
E nell’ambito dell’Alleanza Atlantica abbiamo reso disponibili assetti specializzati nella cooperazione civile-militare pronti a rischierarsi sul territorio NATO per ogni evenienza di ulteriore accoglienza.
L’epilogo drammatico dei giorni che abbiamo vissuto ci interroga sul contributo di grandissimo rilievo ed importanza profuso in Afghanistan negli ultimi 20 anni, in quello che è stato il più importante impegno militare delle nostre Forze Armate fuori dai confini nazionali dalla seconda guerra mondiale, e che si è concluso con il simbolico ultimo ammaina bandiera del nostro contingente ad Herat, lo scorso 8 giugno.
Già all’indomani del tragico attacco alle Torri Gemelle nel 2001, a seguito dell’invocazione dell’art. 5 della Trattato nord-atlantico, siamo intervenuti con i nostri Alleati per combattere il terrorismo globale, che aveva trovato proprio in Afghanistan un rifugio sicuro.
È stata quella una scelta corretta, per dare il nostro contributo concreto nella lotta contro una minaccia imminente, diretta a tutto l’Occidente ed ai suoi valori.
L’11 settembre ha rappresentato un cambio epocale, modificando il nostro modo di vivere, di pensare alla nostra sicurezza e di guardare al mondo.
L’aver scelto di agire, di fare la nostra parte per contribuire alla sicurezza globale e per sconfiggere il terrorismo, è stata una scelta non solo doverosa, ma soprattutto giusta.
La presenza di Al Qaeda nel paese è stata resa inefficace: di questo dobbiamo riconoscere il merito, senza alcun dubbio, alla NATO ed ai nostri 50.000 militari che si sono avvicendati in questi vent’anni e tra questi voglio ricordare, ancora una volta, il sacrificio dei 54 caduti e dei 723 feriti.
L’Italia ricorderà sempre il loro tributo alla difesa dei diritti fondamentali del popolo afgano e dei valori che incarnano la nostra Repubblica.
Ancora una volta esprimo la nostra vicinanza ai loro familiari, il cui dolore riemerge in questi giorni con prepotenza, ed ai quali voglio ribadire che il sacrificio dei nostri caduti non è stato vano.
Desidero ripercorrere brevemente le tappe del nostro impegno in Afghanistan.
Dopo l’iniziale contributo all’operazione Enduring Freedom, l’Italia ha preso parte dal 2005 alla missione ISAF assumendo il ruolo di lead nation nella provincia occidentale del Paese, quella di Herat, e facendosi carico anche della gestione del locale PRT (Provincial Reconstruction Team).
Dal 1° gennaio 2015, abbiamo infine continuato il nostro impegno nel paese nell’ambito della missione NATO Resolute Support (RS), incentrata sull’addestramento, la consulenza e l’assistenza alle forze di sicurezza afghane, nella prospettiva di consentire loro di poter agire sempre più in autonomia, con l’obiettivo di creare le condizioni affinché sostituissero le forze internazionali nell’architettura di sicurezza del paese.
Un’attività molto intensa che ci ha visto condurre, come Italia, oltre 53.000 attività con l’addestramento, diretto o indiretto, di più di 20.000 militari afgani di cui abbiamo seguito l’operato negli anni scorsi verificando sul piano operativo e tattico i risultati del nostro impegno.
Quanto avvenuto in questi ultimi giorni e l’atteggiamento assunto da una gran parte delle forze di sicurezza afgane, non può e non deve mettere in discussione l’operato dei nostri militari in questi lunghi 20 anni nei quali hanno lavorato fianco a fianco con i loro colleghi afgani e che, attraverso le numerosissime attività di cooperazione civile-militare, hanno realizzato anche importanti opere a favore della popolazione quali scuole, pozzi, strutture ospedaliere.
Sono certo, anzi, che i primi ad essere stati colpiti profondamente da ciò che sta avvenendo siano proprio i nostri militari che, in più di 50.000, si sono alternati in Afghanistan e che si sono certamente legati con intensità a quel paese e a quel popolo.
Da molti è stato sollevato il tema della decisione sui tempi e sulla modalità di conclusione della missione.
Già in occasione della scorsa Ministeriale di febbraio, avevo rappresentato la necessità di valutare la possibilità di confermare la presenza della NATO anche oltre la scadenza del 1° maggio - prevista dagli accordi stipulati dall’amministrazione Trump - in quanto il raggiungimento delle condizioni sia politiche che di sicurezza previste da tale accordo, appariva lontano dell’essere soddisfatto.
Nei mesi successivi l’Amministrazione americana decideva però un cambio di paradigma, nell’ambito di una più ampia revisione della propria postura strategica globale, passando da un approccio condition-based, basato sul raggiungimento di precise condizioni per l’avvio del ripiegamento, ad uno vincolato al tempo, time-based, fissando la conclusione della missione RS al 1° maggio e articolando il rientro delle forze entro la data, fortemente simbolica, dell’11 settembre.
Tutto ciò, nelle valutazioni americane, avendo preso atto dell’oggettiva difficoltà di riuscire a raggiungere le condizioni auspicate, soprattutto in relazione agli scarsi risultati dei colloqui di pace intra-afgana che dallo scorso anno si svolgono a Doha con la supervisione degli stessi Stati Uniti.
Evidenzio, in particolare, che tra queste i Talebani avevano posto, quale condizione essenziale, il ritiro degli stranieri per proseguire sia il negoziato con gli americani che il dialogo intra-afgano.
Il paventato mancato rispetto della già citata scadenza del 1° maggio scorso aveva quindi causato una forte battuta di arresto di quel processo, con un significativo aumento della violenza in territorio afgano, perpetrata con numerosi attacchi alle forze di sicurezza afgane e con una campagna sempre più aggressiva di assassini mirati di rappresentanti delle istituzioni, dei media e della società civile.
Dal nostro punto di vista, abbiamo sempre ritenuto che il dialogo intra-afgano e il mantenimento delle istituzioni repubblicane fossero delle condizioni necessarie per il futuro dell’Afghanistan.
È proprio per questo che, nell’ultimo anno, nell’ambito delle varie occasioni di confronto sia su base bilaterale che nell’ambito delle riunioni a livello Ministri della Difesa, abbiamo sempre sottolineato l’orientamento italiano, condiviso anche da altri partner europei, circa l’esigenza di tenere legate le decisioni sulla conclusione della missione all’avanzamento di queste condizioni.
Tuttavia, l’orientamento prevalente e il decisivo peso specifico delle capacità di force protection statunitensi hanno contribuito a plasmare la decisione alleata, formalizzata in occasione del dibattito che ha avuto luogo durante il meeting straordinario del 15 aprile, e a sostenerla in coerenza al valore fondante della coesione dell’Allenza, e non solo del principio “in together, out together”.
Oggi le tragiche immagini che giungono dall’Afghanistan suscitano in tutti noi profonde emozioni e la sensazione di una pesante sconfitta dopo due decenni di sforzi dell’intera Comunità internazionale.
La situazione del paese purtroppo è ben diversa da come era stata immaginata anche solo pochi mesi fa, e quest’oggettiva debacle dovrà essere analizzata nelle diverse sedi, a partire da quelle dell’Alleanza, al fine di valutarne le cause e i fattori.
Si possono comunque già scorgere alcuni elementi caratterizzanti, che hanno contribuito ad invalidare le ipotesi poste con l’avvio e lo sviluppo dei negoziati con i talebani ed i tentativi di far decollare il dialogo intra-afgano.
In primis c’è la scarsa credibilità, causata anche da fenomeni di diffusa corruzione, e la conseguente incapacità dimostrata dalle istituzioni repubblicane, con le inevitabili ricadute sull’operato delle forze di difesa e sicurezza le quali, senza la necessaria coesione e direzione politica, non hanno chiaramente saputo contrastare, o almeno ritardare, l’avanzata talebana.
E questo nonostante, in valore assoluto, le forze armate Afgane fossero certamente cresciute dal punto di vista professionale acquisendo già da tempo, come detto, la capacità di operare in attività di varia natura e complessità in autonomia, o con la sola consulenza operativa delle unità NATO, in tutto il paese.
Sicuramente hanno anche influito alcuni fattori di natura tattico-operativa, quali quelli legati ad una logistica non efficace ma sono stati prevalenti quelli di natura politica, sociale e culturale che hanno portato al totale sfaldamento delle forze armate, con numerosi episodi di abbandono di mezzi e materiali e di capitolazione ai Talebani.
Su quest’ultimo punto ribadisco che nessun sistema d’arma o mezzo militare italiano è stato ceduto alle forze afgane al momento del rientro del nostro contingente.
Tornando all’analisi degli avvenimenti che stavo descrivendo, si è trattato di una resa incondizionata, che denuncia chiaramente la totale mancanza di quei legami e di quei valori fondanti che permettono di reagire di fronte all'avanzare di una minaccia ritenuta esistenziale.
Qui si individua uno dei primi e forse più importanti ambiti di riflessione che dovremo condurre sia nei contesti internazionali sia a livello nazionale, cioè quello relativo ai nostri modelli di intervento, alla necessità di un approccio multidimensionale, coerente, efficace e condiviso, di cui chiaramente le Forze Armate sono solo una componente, in alcune fasi abilitante per il conseguimento degli obiettivi, ed in altre a supporto alle altre istituzioni coinvolte.
In Afghanistan l’azione di institution building svolta dalla Comunità Internazionale in questi lunghi anni è stata caratterizzata da un approccio frammentario e da una limitata efficacia.
La conseguenza più evidente è che il fronte repubblicano, già consumato da divisioni al proprio interno, non è stato in grado di agire coeso a tutela del popolo afgano e della sopravvivenza delle stesse istituzioni.
Ma questo epilogo porta con sé l’abiura di quanto fatto in questi 20 anni?
È evidente che il nostro paese, così come anche l’Alleanza Atlantica, deve trarre numerosi insegnamenti dall'esperienza afgana per meglio identificare quali sono i suoi punti di forza, certamente la capacità militare, ma anche le sue debolezze, quale è appunto la difficoltà a supportare un processo multinazionale di nation building come quello che pretendeva lo scenario afgano.
Sono convinto che il processo di revisione strategica NATO 2030 attualmente in corso debba tenere in assoluta considerazione quanto avvenuto dal 2001 ad oggi, nello sviluppare il nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza ma soprattutto l’idea di NATO del futuro e delle sue relazioni con le altre grandi organizzazioni internazionali, prima fra tutte l’Unione Europea.
Unione chiamata ancora di più, dopo l’epilogo afgano, a definire coraggiosamente la propria autonomia strategica, in complementarietà con la NATO, valorizzando al massimo le peculiarità e gli strumenti che le sono propri, essendo l’organizzazione che, più di tutte, ha le capacità di intervenire con efficacia nella realizzazione di azioni proiettate allo sviluppo economico, culturale e sociale dei paesi in cui siamo chiamati o riteniamo di operare.
È certamente questo un punto di forte complementarietà con la NATO e che non solo può rafforzare ma può proiettare, anche alla luce degli accadimenti di questi giorni, un rinnovato e più forte legame transatlantico.
Questa sarebbe una risposta efficace ed ambiziosa alla domanda, che qualcuno ha avanzato, se l’Afghanistan sia la metafora del tramonto dell’Occidente.
Sono convinto, invece, che le democrazie liberali ed il loro patrimonio di valori e diritti siano un modello da difendere e, pur a valle dell’indispensabile processo di riflessione ed analisi sugli esiti dell’esperienza afgana, dovrà continuare ad essere l’archetipo di riferimento del nostro peculiare apporto allo scenario di cooperazione, e insieme di competizione, del nuovo contesto globale.
Voglio infine ribadire e rassicurare in merito all’elevata attenzione con la quale continueremo a seguire, congiuntamente alla Farnesina, l'evoluzione della situazione in Afghanistan.
Allo stesso tempo, alta dovrà essere l’attenzione in merito a possibili recrudescenze del fenomeno del terrorismo e all’impatto che la situazione in Afghanistan avrà sui futuri equilibri di quella Regione.
E valuteremo la coerenza tra i proclami e le intenzioni di questi giorni e i fatti concreti che seguiranno.
I militari italiani escono a testa alta dal loro impegno in Afghanistan.
Lo testimoniano il grande sforzo di questi giorni e ce lo dicono le cifre, i notevoli risultati conseguiti sul terreno, il sentimento di sincera amicizia della popolazione afgana e le innumerevoli testimonianze di apprezzamento che abbiamo raccolto dalle istituzioni a livello locale, con cui abbiamo operato lealmente e costruttivamente dando sempre massima priorità alle esigenze di sviluppo e di sicurezza delle comunità locali, per permettere loro di crescere così anche da rafforzare una comune base identitaria.
A questo si aggiungono le numerose attività di ricostruzione e sviluppo di capacità condotte a favore della popolazione afgana che ci ha visto contribuire, insieme alle varie realtà governative e non governative operanti in Afghanistan, alla costruzione di importanti infrastrutture come quelle citate prima come scuole, pozzi e vie di comunicazione.
Ma l’operato dei nostri militari, silenzioso e costante, merita il plauso e la gratitudine anche da parte di tutto il popolo italiano, per l’impegno al servizio dei valori della libertà e della democrazia in diverse regioni del pianeta, agendo con riconosciute professionalità e sacrificio.
Un sacrifico alle volte estremo come quello dei 54 militari che hanno perso la vita in Afghanistan e la cui memoria vive e vivrà per sempre nei cuori dei loro commilitoni e di tutti coloro che non dimenticheranno mai il loro servizio al nostro paese.
Anche oggi, mentre vi sto parlando, con la stessa abnegazione sta continuando senza sosta l’attività di evacuazione da Kabul.
Stiamo impiegando tutte le risorse disponibili e fino a quando le condizioni lo consentiranno faremo ogni sforzo, congiuntamente agli Alleati, per mettere in sicurezza ed evacuare più persone possibili.
È senz’altro un impegno politico ma è anche, innanzitutto, un convincimento morale condiviso da ogni uomo e donna delle Forze Armate così come, sono certo, da tutti gli Italiani.
Lorenzo Guerini
Ministro della Difesa