La malvagità – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

Un tratto che non vorremmo trovare dentro di noi, ma che spesso vi alberga

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A rivedere oggi il «Processo di Norimberga», come mi è capitato nei giorni scorsi, si prova l’orrore per la malvagità dei protagonisti. Ma ci si domanda anche come sia possibile che chi mostra una tale efferatezza, spesso riesca a condurre la sua vita come se nulla fosse.
La parola «malvagità», secondo la Treccani (https://www.treccani.it/vocabolario/), indica un’indole perversa e un’inclinazione al male. Ma a vedere le scene originali delle fredde esecuzioni dei gerarchi nazisti, non possiamo evitare l’interrogativo più frequente che ci fa dire: «Da quali territori della psiche proviene tanta ferocia?».
 
E a guardare bene, anche le tante violenze che incontriamo nel nostro quotidiano e in quei feroci delitti accompagnati da torture inimmaginabili e da una impensabile distanza emotiva, ci accorgiamo che in quanto a ferocia, il male è sempre uguale, cambia la misura ma non muta la crudeltà e l’efferatezza.
Possiamo condividere con Carl Gustav Jung che il “malvagio” ci appartiene, che sta nella nostra “ombra”, e come lui diceva «deve avere la sua parte nella vita» perché se lo riconosciamo serve a togliergli «la forza di sopraffarci» (C. G. Jung – Libro Rosso).
Voleva dire che i nostri aspetti violenti ci appartengono e solo accettandone la loro esistenza riusciamo a contenerne potenza distruttiva.
 
Ma forse, oltre ad accettare le parti malefiche e tentare di contenere la distanza tra le polarità bene-male, riducendo quel muro che separa il buono dal cattivo, l’Io dal tu, il noi dagli altri, abbiamo bisogno di evidenziare anche altri potenti meccanismi difensivi che ci permettono, illusoriamente, di continuare a stare tranquilli ed essere sicuri che «dove sta il “malvagio”» non ci siamo noi.
Il che è lo stesso motivo rassicurante che ci spinge a desiderare di vedere «il mostro in prima pagina» perché così sappiamo che il male è stato catturato ed è lontano da noi.
 
Ma poi ce ne sono altri di meccanismi psicologici che nell’autoregolazione dei nostri comportamenti, servono a contenere le valutazioni negative di ha deciso di infliggere ad altri il male.
Perché anche quando sono numerosi i sistemi di controllo legali e sociali ed elevate le pene severe che rischia chi compie azioni inumane, spesso tutto questo è un deterrente insufficiente contro la malvagità.
Ci vuole dell’altro, scriveva Albert Bandura, il grande psicologo americano, e lo chiamava Disimpegno morale. (Il disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene. Ed. Erickson).
 
Secondo Bandura, ci sono le «giustificazioni morali» che servono a rendere nobili le azioni più feroci se si mettono in campo giuste cause. Oppure attiviamo lo «spostamento di responsabilità» che fa minimizzare il ruolo attivo dei malvagi perché, come è accaduto nei processi ai gerarchi nazisti, non poteva essere colpevole chi stava soltanto eseguendo ordini.
Ma anche la «diffusione della responsabilità» presente in tutti i gruppi è un meccanismo difensivo che porta a percepire meno la colpa individuale, se la violenza è compiuta da più persone, come accade nella violenza del branco.

Infine il meccanismo più potente è quello di «deumanizzare la vittima», ovvero a non riconoscerle la qualità di essere umano con cui, invece, si attiva una relazione empatica.

Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento - Docente di psicologia delle età della vita
www.iovivobene.it