Dal lutto alla speranza – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

A Capodanno la voglia di cambiamento traspariva in ogni messaggio augurale con il bisogno di lasciare alle spalle il prima possibile la sofferenza

Mai come in questi ultimi giorni di fine anno, il tradizionale scambio di auguri conteneva parole come attesa, desiderio, speranza.
La voglia di cambiamento traspariva in ogni messaggio augurale e intrecciava verbalmente il bisogno di lasciare alle spalle, il prima possibile, il lungo tempo della sofferenza.
Comune reazione ai tanti mesi di angoscia, si dirà, o necessità di dimenticare in fretta le immagini choccanti di camion e bare.
Oppure bisogno di un oblio riparatore che ci faccia scomparire dalla memoria le cronache continuate del contagio e della morte in replica infinita su telegiornali e social.
 
La pandemia con il suo carico di emozioni pesanti, all’improvviso ci ha messo di fronte alla vulnerabilità umana che da tempo ci sembrava sconfitta.
Ha colpito tutti la morte diffusa dal contagio inarrestabile e ci ha toccato personalmente la perdita di tante vite umane facendoci precipitare nell’angoscia collettiva per il distacco definitivo vissuto o possibile.
Ma più ancora quello che è mancato a tutti è stata la possibilità di elaborare il lutto e ridefinire la propria esistenza per trovare un nuovo equilibrio.
 
Le severe misure di isolamento ci hanno tolto i gesti necessari alla trasformazione della sofferenza che si accompagnano di solito la separazione.
Immersi in uno sconfinato silenzio non abbiamo potuto dar voce al dolore e condividerlo.
Il distanziamento ci ha impedito l’ultimo saluto e l’accompagnamento alla sepoltura.
Ritualità del commiato perdute in parte, oppure già povere e fortemente svuotate di significato dalla società individualista che ha esorcizzato la morte spettacolarizzandola e allontanandola sempre di più dalla vita quotidiana.
 
Eventi catastrofici come quello che abbiamo vissuto, avrebbero avuto bisogno di riti individuali e collettivi di trasformazione. Invece non ce ne sono stati.
In mancanza di queste opportunità necessarie alla psiche, il processo di ri-adattamento di oggi è quanto mai lento e parziale. Lascia vagante un fisiologico cumulo di emozioni negative che andrebbero rielaborate.
È allora che la speranza diventa uno strumento magico per il cambiamento.
A quel punto ci affidiamo a un sentimento che per qualcuno è un dono ricevuto e per altri una energia positiva da costruire.
 
In effetti la speranza è qualcosa che sostiene il nostro sguardo sul mondo e ci aiuta a tollerare le prove della vita.
Definirla è difficile. Solo parzialmente può essere un’emozione o una dotazione del nostro Dna.
Credo piuttosto che sia un percorso individuale di sviluppo che rimanda alla fiducia di base che sorregge se abbiamo avuto la possibilità di alimentarla e mantenerla.
È quello che ci serve per costruire un progetto, magari mentale e sostenuto dalla ragione, ma fatto di strategie del pensiero e del comportamento flessibili, nuove o rinnovate.
In questo momento, per esempio, credo che la speranza si debba basare sul sentimento di reciprocità che ci porta a curare noi stessi e gli altri. Proteggerci e proteggere è quello che stiamo sperimentando e che va coltivato.
 
Si educa alla speranza perché è energia che ti serve quando ti assale la percezione fastidiosa dell’impotenza per la mancanza di risposte collettive di aiuto o di spiegazioni e rassicurazioni scientifiche.
È questa però la speranza da recuperare, come allenamento alla resistenza o, si dice in continuazione, alla resilienza.
Che è insieme ottimismo e visione prospettica di fiducia e richiede un’adeguata percezione del rischio.
 
Ci riguarda individualmente ma interessa fortemente quel tessuto di relazioni sociali che va rammendato o ricostruito non con nostalgia del passato, quanto con la voglia di mettere in comune le forze per un rinnovamento collettivo.
Altrimenti la speranza rimane un pensiero magico, che ci fa attendere soluzioni dall’alto.
 
Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento - www.officina-benessere.it