Senza colpa né grazia: le prove di esistenza di Claudia Zironi
I versi di Claudia Zironi si nutrono di memoria – Di Massimo Parolini
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«Ma non è sufficiente pensare per vedere: la visione è un pensiero condizionato, nasce in occasione di ciò che accade nel corpo, e dal corpo è stimolata a pensare».
Sono parole del filosofo fenomenologista francese Merleau-Ponty tratte dal saggio L’occhio e lo spirito, dedicato all’atto del vedere, nella sua complessità.
«Il corpo è per l’anima lo spazio natio e la matrice di ogni altro spazio esistente. Così la visione si sdoppia: c’è la visione sulla quale rifletto, e che non posso pensare se non come pensiero […] e c’è la visione che ha luogo, pensiero onorario o istituito, schiacciato in un corpo proprio di cui non possiamo avere idea se non esercitandolo […] L’enigma della visione non è eliminato, ma rinviato dal “pensiero di vedere” alla visone in atto»:
e se fossero i pensieri delle pietre
a fare il vento?
se una vela, un riflesso, uno specchio
fossero il lago, se avesse moto proprio
una statua sommersa, lentissimo
fuori dalla nostra percezione? e
se fosse davvero la Morte ciò che serve.
I versi di Claudia Zironi (Not bad, Arcipelago Itaca, pg. 132, 2020) si nutrono di memoria, ma la memoria vive nello spazio della visione, che parte dalla corporeità che accade: il primo verso della raccolta Not bad si nutre infatti di un lessico legato al campo semantico della fisicità: «mi trovavo sopra … respirare… bocca… senza toccarmi».
Con Nietzsche la poetessa bolognese lascia intendere, lungo tutta la raccolta, che il corpo conosce delle ragioni che la Ragione non conosce:
sarà d’estate che le nostre mani
per caso si sfioreranno, le iridi
senza intenzione brilleranno e senza intenzione
ci guarderemo.
Esigenza di corporeità continuamente espressa anche nei versi seguenti:
se ci fosse un tempo in cui i sogni e le poesie
– ogni ossessione – si facessero di carne e baci.
O ancora
se tu fossi il vento io
starei ferma
tra le lavande di giugno, immobile
con abiti ampi, bianchi di bucati antichi
ti lascerei passare, aperta e sorridente
come scampata
alla storia, agli anni, alla fossilizzazione
degli ammoniti, ti lascerei entrare
sotto i cotoni nascosti, tra le pieghe della gonna
ti lascerei rubare ogni profumo – terra della terra
fiore di ogni fiore – vento mio, mio sole – ti donerei
questo nostro nuovo tempo passato.
E infine:
questa notte sognerò di partire verso sud
vestita di rosso, non avrò sesso e non avrò
labbra – con il sapore della tua saliva
non avrò voce – per dirti l’amore, né porterò
i capelli – che hai accarezzato. sarò nuda vita
sotto la stoffa leggera, un sangue acceso
un dolore di terra. partirò per l’isola
su una barca silenziosa e tu sognerai
che non mi vedrai tornare.
La visione che avviene dentro la propria memoire involontaire nell’atto della recherche che riavvolge il nastro del tempo esprime primariamente il desiderio d’Amore, aspirazione costante di senso nel proprio vissuto esistenziale
mi si prenda così, senza esimermi
dal compiere atti avventati e sciocchi
nella mia impulsività, con le vive debolezze
e le frustrazioni, con tutte le insicurezze
dell’eterna adolescente, mi si prenda
per come vi vedono belli i miei occhi e
si commuovono leggendo i vostri versi
per la gratitudine del giorno, per la pace
negata dei sogni, per la morbidezza della pelle.
per ogni capello bianco e ogni nuovo segno
mi si prenda, cura e palliativo del dolore
come scampata all’estinzione, come predestinata
alla morte. mi si prenda e basta, senza incertezze
dandomi temporaneo, incondizionato Amore […]
Forse ti ho detto ti amo come un dono […]
tu forse sarai ancora apatico quel giorno
e neppure il solletico dei vermi ti farà sorridere. io invece, pure da morta
mentre un vento umido batterà la terra desolata, penserò all’amore e
scenderà una lacrima.
E dall’istanza della visione che accade a partire dalla corporeità si esprime un’esigenza di rinnovamento, di ricominciamento, di rinascita (Quando si spegne il cielo, sarebbe bello ricominciare, è il titolo della prima sezione):
Sarebbe bello ricominciare, io e te
ma proprio dall’inizio, da prima che
da prima dei se da prima che dal caos
emergesse la luce. sarebbe bello ricominciare
immaginarci differenti, sorridere al pensiero
di vederci, di nulla chiedere e insieme andare
verso un quieto viale del parco a cercare
le nate margherite.
Nel dolore dell’anima e dello spirito, l’uomo ha bisogno di rinominare le cose, il mondo. Partendo da ciò che semplicemente lo circonda, per ricollocarsi in esso.
«Siamo qui forse per dire: casa,/ ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta, finestra» (Rilke, nona Elegia duinese).
E Zironi, nel suo dialogo in visione, esprime il proprio bisogno di rinascita, di recupero del fanciullino che scopre, novello Adamo, le cose per la prima volta, fra brividi, lacrime e tumulti, fino a giungere all’esperienza dell’innamoramento:
di cosa hai bisogno – mi chiedevi. forse di un’intera
vita? una vita splendida e giusta. forse di un corpo
nuovo, appena nato, di una mente brillante, di un talento
che lasci tutti senza fiato. di cosa hai bisogno? – mi dicevi.
di dimenticare? di tanto futuro, di un altro padre o
della vista bella del mare. di riempire gli occhi
di sorrisi e di bambini, di parlare, di scoprire
un riccio timido tra l’erba, una margherita colorata.
o forse hai bisogno di un mio sguardo, di una carezza?
di uno di quei baci che fermano la pioggia, intenso
come una caduta, lungo come una guerra, improvviso
come il momento in cui ci si innamora.
Emerge nitida la sofferenza della mancanza, della latitanza che rinvia spesso all’assenza:
non ci ameremo e
non ci odieremo, solo resterà questo senso
del condizionale passato, tempo andato
in un viaggio estivo di cicogne barocche e luci
impermanenti.
Impermanenza e assenza che dialetticamente, in profondità, devono però prevedere la notizia della permanenza e della presenza: la parola poetica esprime questo continuo slittamento.
L’uomo per Zironi vive di sogni in cui crede e sa dell’esistenza del lato oscuro della luna: altrimenti non si può riconoscere più come uomo ma diviene macchina, automa, calcolatore.
La corporeità si riconosce nella materia eterna, la greca hyle, si fa roccia, calcare, sedimento che rimane, dove l’impermanenza della carne può metamorfizzarsi in pietra durevole:
Non saprei dire esattamente
cosa manca ancora, forse
il tuo essere corallo
vivido e in estinzione, il mio
sedimentarmi in te, renderti opaco
roccia anelastica, prossima
alla disgregazione, paziente calcare, rifugio
di perfetti animali elementari.
ci veglieranno insieme, nelle notti
già stellate e silenziose, dai calanchi
del nostro nuovo mondo
in formazione - in absentia.
Non manca, tuttavia, anche uno sguardo verso l’altro, partendo dall’esperienza personale del dolore, della frustrazione d’amore: l’afflato civile e l’attenzione per i soccombenti, gli invisibili, i naufraganti, amplificata anche dal corredo fotografico di Emiliano Medardo Barbieri:
se non ci fosse un luogo dove sfuggire
le costellazioni di morti deportati e di bambini in strada
se arrivasse il momento della resa delle merci
in irresponsabili scambi di libri, di fiori e
di sorrisi, potremmo tanto ringraziare e lievi
prenderci per mano
verso la prossima nuova, inutile, bellissima
Storia
insieme […]
Ai caduti d’oltremare dedicammo
i più grandi monumenti che la storia
ricordi: stele alte fino al cielo in bianco marmo
sgretolato, fiamme perpetue
dalle foreste pluviali, deserti nuovi e
migrazioni, la fame, le estinzioni, feroci guerre
per l’acqua e per i minerali della terra.
ai caduti d’oltremare dedicammo
il grande spettacolo della vergogna.
Nella consapevolezza che ascoltare la voce dei morti sia l’unico modo per ritrovare la sacralità della vita al di fuori della personale disperazione, memore della lezione ungarettiana de Non gridate più:
(Necropoli di Fiumicino, 28 Settembre 2019)
andremo alle case dei morti, le desolate case
della necropoli del Porto, andremo portando loro
le cose dei vivi: i suoni, le memorie storiche
il dolore, tutto l’amore di cui non siamo capaci.
confesseremo loro di avere il cuore duro
troppo piccolo per accogliere bambini vestiti a festa
che vengono dal mare, racconteremo ai morti
di quanto siano state vane le loro vite, dimenticate.
diremo loro della plastica e delle luci, del calore
dei mari artici, dei tifoni e degli uragani, di quanto
siano poveri ancora i più poveri del mondo.
poi distoglieremo lo sguardo e li lasceremo di nuovo
soli, sotto il pudore freddo della luna.
O ancora:
Non chiedere perdono a dio
per le tue colpe – incoscienza
d’un ennesimo atto di egotismo –
chiedilo piuttosto ai morti
davanti alla loro tomba
immaginandoli presenti, cercando
le giuste parole per blandirli.
chiedilo ai vivi che hai offeso
guardandoli negli occhi
con coraggio e pentimento.
chiedilo al pianeta, a nome
dell’intera tua razza.
ai morti e ai vivi dedica
un poco di rispetto
mettiti nei loro panni
prova con l’amore.
e se non hai fatto del male
ad alcun essere vivente
non chiedere a dio
- con superstizione -
ciò che non ti serve.
Al di fuori della confessione coi silenziosi morti (novelli psicoanalisti capaci di ascoltare) resta la disperazione e lo sfogo della maledizione rabbiosa e della nemesi riparatrice:
Maledetto sia novembre con i suoi lutti
con l’acqua offesa del cielo e la punizione
dei crolli, la vendetta delle nebbie, questo sentore
d’impotenza. maledetta la rabbia degli uccelli e
i loro nidi vuoti, maledetta la sera che cala troppo in fretta
inattesa, sulle nostre vite inutili. i fiori al cimitero maledico
e le magnolie senza fiori, e le guerre e i tribunali.
maledico il tuo silenzio, pure, di terrestre
tristo, impassibile, amatissimo, mio dio minore.
O ancora:
Il giorno della tua morte indosserò
abiti consoni, una faccia contrita
modi di circostanza. spero che non piova
per non rovinare la messa in piega
che non ci sia fango e non faccia troppo
freddo, che sia una giornata normale
senza sole né gloria, adatta
all’occasione. il giorno della tua morte
qualcuno mi avviserà, senza sapere
qualcun altro mi chiederà come mi sento
ma credo che non risponderò, non dirò
niente, tratterrò le lacrime e
mi darò un contegno. il giorno
della tua morte comprerò dei fiori
e li metterò in un vaso, sopra la finestra
racconterò a loro tutto quanto: tutto quello
che non sei mai stato.
Perché il dolore incede e incide il cuore,
piccolo e duro
come un sassolino di cava, opaco
un grumo immobile, nero.
Rimane il dubbio che il dolore renda il cuore «leggero e trasparente» lo faccia volar via «lasciandoci soli».
I ricordi, cuciture del cuore, possono svanire «per lasciare posto a memorie ininfluenti», di dati e parole. Quando il presente regala «ordinari pensieri d’amore» si desidera viverlo, anche nell’imminenza dell’acqua alta sempre in agguato e, immemori, non si sogna un altrove «dove ci fosse memoria».
La luna diviene, leopardianamente indifferente (vedi Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia) ma non leopardianamente consolatrice (vedi Alla luna), in quanto correlativo oggettivo del proprio stato d’essere, quello di esistenti di luce riflessa:
È lontana
la luna, splende senza intenzione
e non per noi, né per le querce nere, né
per gli angeli, né per l’amante nostro
abbandonato. è qualcosa di sfuggito
al progetto, la luna, una mancata sepoltura
un giardino senza fiori […]
è proprio della luna brillare
di luce riflessa - testimone per millenni
impotente e immacolata
degli eventi, per un nulla
calpestata. è proprio della luna
apparire all’improvviso
dietro una tenda, essere bella
d’amore non suo. […]
Ci sentiamo come lei
pietre fredde brillantissime, intoccabili
e sole, così lontane
da colui che manca […]
sono acida, lo sguardo basso
pingue e sterile come la luna.
Ma di nuovo, mentre il tempo non dà risposta, gli elementi base della sopravvivenza sono presenti: «l’acqua, il pane: quasi nulla mancherà, anche domani».
Sartrianamente è possibile la dimensione della sopravvivenza, non della Vita:
Ho scritto al mio tempo passato
qualche giorno addietro, non avevo
grandi gesta da raccontare: qualche memoria
qualche dolore, un fatto buffo, un dargli ragione.
spero che tu stia bene, mio passato
sono qui se anche tu hai voglia di parlare
magari della pioggia violenta o degli autunni
che gli uccelli migratori non se ne sono andati
di un libro raro, di come sarebbe stato se tu
non te ne fossi andato. dal passato
non c’è stata risposta, il presente ha taciuto
dal futuro solo silenzio, dagli uccelli
nessuna notizia.
Perché il tempo, come la Natura Matrigna dell’Islandese leopardiano, è indifferente, non curabile, non riparabile:
/ non si chiede conto al tempo / di quanto non
viene dedicato, per ciò che di propria volontà si è
offerto e perso / non si chiede al tempo / di
restituire ore e parole, carezze, struggimenti,
preoccupazioni, piccole cellule epiteliali smorte
nell’attesa d’un segno / non si chiede nulla al tempo
passato / dei graniti e delle ceneri, delle vibrisse
cedute all’evoluzione in sacrificio / non si chiede
conto / dei grandi scheletri, delle armature
arrugginite nel cemento, dei crolli, degli amori della
carne decaduta e imputridita, rimasta attaccata a un
simulacro di vita, incapace di riparare al tempo / al
tempo
In altri frangenti, fra i buoni propositi di inizio anno, quello di «smettere di desiderare, smettere di rimpiangere», per essere noi ad annullare il tempo tiranno.
E finalmente la parola si rivela in Zironi per la sua funzione primaria: scrivere l’assenza e il desiderio d’amore, snidare e denudare, non risolvendola, la mancanza, la latenza che sfonda:
E qualcosa ci lascia –
la capacità di scrivere d’amore […]
ci vorrebbe una parola per aggiustare
per trasformare, per realizzare
una perfetta creazione, che fosse
rotonda e accesa, di giusta lunghezza
che assomigliasse un poco al nome
del mondo conosciuto e lasciasse intravedere
l’inimmaginato. ci vorrebbe una parola puro suono
un battito, una eco, un sentimento, un’ultima parola
che contenesse il senso
di tutto questo struggimento».
Funzione, dialetticamente, antiteticamente rovesciata:
mi hai insegnato l’impotenza, l’inutilità
della parola, quanto sia vana la poesia.
la mistica del segno, un risonare di mondi
inesistenti, dare il nome alla creazione
e chiamare ad alta voce ogni pensiero
non avvicinano al divino né all’amore».
Talvolta il dolore è non solo temuto ed esibito ma richiesto, amato:
«così infausto e bellissimo quel bianco
contiene il mio dolore. lo desidero
il mio dolore. lo amo
il mio dolore
E impedisce, velo di nebbia, di godere della bellezza:
il giorno che era scesa la nebbia sulla pianura
qualcuno non si accorgeva
di niente, non vedeva la bellezza, non sentiva
il respiro del mondo e ancora piangeva sconfitta […]
L’amore (quello razionale e quello che brucia trattenuto) sempre dialetticamente, non è solo luce solo piacere solo gioia, ma si rivela un meccanismo di produzione e distruzione (com’è nella natura del desiderio):
l’amore è
– di proposito innescando ordigni chimici
e smuovendo marchingegni primordiali
che ottenebrano la mente e rendono apprezzabile
qualsiasi superficie riflettente –
per le creature del cielo e della terra
e per quelle del mare
– anche per l’essere unicellulare –
: un prendere e un buttare, un consumare
: un soverchiare – in nome della vita
: il primato alla base
di ogni guerra e ingiustizia sociale
Oltre alla rabbia, che è comunque, come l’amore che brucia, testimonianza di vita, fa talvolta la sua apparizione il velo nero dello spleen, del tedio che tutto copre e annulla, senza barlumi di emozioni, speranze e disperazioni, con cruda e razionale nettezza razionale:
per noi che conosciamo il futuro
ogni futuro è uguale, fatto di piume
perse chissà dove che volano
nel vento, qualche calcinaccio
un vetro rotto coperto di polvere
amori, ponti e alberi crollati
che vagano per l’universo come luce
sempre più debole e lontana
la rovina della carne, il silenzio
l’assenza di tempo.
Ed è l’uomo, come nell’apocalisse finale della Coscienza di Zeno, a portare l’apocalisse nel creato, a introdurre l’inferno:
gli antichi uomini che credevano in dio
dissero: e l’ottavo giorno sarà l’apocalisse.
accadde milioni di anni fa
che tremò la terra, forti venti
spazzarono le foreste, gli incendi
divamparono, il virus atterrì
sei miliardi di persone, nere
colonne di fumo si levarono
dalle ciminiere, dagli scarichi delle auto e
da ogni opera umana di riscaldamento.
gli animali, spaventati, annusarono nell’aria
l’odore del salnitro, poi guardarono al cielo:
secchi lampi si rincorrevano incessanti
tramonti accesi tra nuvole di pioggia
nessun uccello, le ultime stelle. i poveri
mantennero il loro sguardo scoraggiato.
non scesero gli angeli, non risorsero i morti
quasi nulla aveva il colore dello zolfo.
non si conosce di preciso cosa videro:
lo spettacolo dell’inferno non venne mai scritto.
La corporeità dà il titolo anche alla terza sezione (Nuda carne) che comprende poesie scritte durante la quarantena.
Lo sguardo dell’altro riaccende una parvenza di desiderio ma l’accoglienza del volto è ormai tramutata in pietra e crosta calcarica:
Perché mi guardi? se sono la pietra stessa
opaca, la mano poggiata su un morto corallo
aperto e reciso, il momento sfiorito, il cuore
vuoto da cui hai munto il latte, vorace, la magra
stagione immaginata delle voglie. perché
mi guardi, se sono uno dei tanti indivisi
tuoi gelidi avanzi. abbassa gli occhi
abbassali, quegli occhi tuoi, e guarda
le mie mani, di latte e corallo
aperte per te e come fiori recise. guarda
la pietra che hai poggiato sul cuore
o la stessa tua immagine, opaca: magro
e smunto avanzo del tuo gelo.
perché mi guardi? voglioso e vuoto
di tanti momenti incondivisi
in questa vorace stagione di morte.
Centrale e ripetuto si fa il dialogo col tempo, fuggitivo e aleatorio, richiesto e sprecato, tempo della propria storia, del proprio Amore fuggevole:
sull’impermanenza
dello stare nel mondo
del brillare senza scopo
in un comune tempo» […]
«sono per te i ricordi
e il silenzio dei giorni […]
sono un fragile miracolo di evoluzione, la mia fine
è scritta nel sangue, il mio bene più prezioso è il tempo
ho in me la piccola perfezione della vita
– un provvisorio esistere nel nulla
capace di toccare e consolare – sono bella
di moto e di calore, ho ricevuto un nome:
che altro vuoi? […]
«a tarda notte nel silenzio sembra
che giustizia sia stata resa
per ogni umano tempo
di spreco […]
scandisci in un respiro immemore
il giusto tempo della nostra storia. […]
custodirci, l’un l’altro, noi, piccoli
miracoli toccati dal tempo
E se l’amore è assente, nel tempo presente, la poetessa si fa novella frate Jacopone che demandava infermità per eccesso di carità nella sua lauda delle malattie:
amore mio, oggi
che non trovo consolazione
nei fiori rossi, nei tuoi versi, in nessuna
delle piccole cose che restano del vivere
oggi che non piove e non ci sei, oggi
che è primavera inoltrata, prego
il temporale che mi sommerga
il fulmine che mi fulmini
la malattia che mi ammali
la grandine che venga e che colpisca
ogni mio lembo di pelle
la neve che cada e copra
tutto questo mancare.
Nell’ultima sezione (Il ritorno degli uccelli) i volatili diventano correlativo oggettivo dell’umano (ma anche del tempo), con la loro gioia sonora e il loro volo, con l’aggressività verso gli altri uccelli e la cura per il proprio nido:
ho visto un gabbiano
prendere a pedate un piccione
un gesto molto umano cioè
come lo farebbe un uomo, non per fame
o per sopravvivenza o per un qualche
attaccamento, solo per difendere
uno status, un pezzo di molo
dove restare in attesa
dell’inesistenza. […]
gli uccelli neri sono tornati, lucidi
come il passato […]
il nostro tempo ha le ali grandi
vola rasente acqua e le batte con calma
con cadenza precisa. l’acqua che sfiora
non è mai la stessa: benedice il mutamento
santifica il gioco. solo una volta nella nostra vita
interrompe il volo. […]
l’usignolo si sveglia che è ancora buio
e riempie i nostri sogni con il suo canto. […]
E se l’amore verso l’altro, col quale si vuole mettersi a dimora, se il suo bisogno viscerale, è uno dei temi centrali della raccolta, e si conclude col mancato nido:
se lui venisse ora, oramai
non saprei che farmene – dal nido
viene un bisbiglio – non saprei più ritrovare
la leggerezza per volare insieme.
cosa potrei cantargli?
non basta provare un sentimento
bisogna anche sapere cosa farne
con grazia
come di un uovo, come di un seme
di un amore ricevuto
Rimane, nell'ultima poesia, il senso di sconfitta per un progetto di vita interrottosi drammaticamente, per un nido vuoto, nel tentativo umano, troppo umano, di ricostruire lo sguardo originario della madre sul figlio, nel mistero di una partenza senza preavviso: qui, forse, nella sua funzione di Consolazione, la poesia di Claudia Zironi esercita la sua funzione più alta..
A Francesca, a Lorenzo, agli amici
stavamo in stormo stretti, come attorno
a una rondine e al suo nido, rimasto vuoto
un sabato di luglio per un volo
scelto come ultimo, definitivo
senza colpa e senza grazia, con le piume
di prima della muta, con la fretta giovane
della sconfitta. stavamo in tanti
a proteggere la madre, a perpetuare
la sacralità del rito: aggiustare, abbracciare
porgere il cibo. stavamo immobili
ognuno cantando la sua parte di ricordo
intrecciando invano i ramoscelli
per ricomporre l’intero.
Notizia bio-bibliografica Claudia Zironi, bolognese, opera dal 2012 nel mondo della diffusione culturale con l’associazione Versante Ripido, della quale è uno dei fondatori e Presidente (www.versanteripido.it). Collabora anche con altre realtà rivolte alla promozione della cultura e dell’arte e all’attenzione sociale. Fa parte della redazione de Le Voci della Luna. Ha fatto e fa parte di giurie di premi nazionali di poesia. Ha pubblicato: Il tempo dell’esistenza (Marco Saya Edizioni 2012); Eros e polis (Terra d’ulivi Edizioni 2014), uscita nel 2016 anche in USA per Xenos Books / Chelsea Edizioni, nella traduzione di Emanuel Di Pasquale; Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni (Marco Saya Edizioni 2016). Nel 2018 ha corealizzato e coprodotto in KDP, con la poetessa Silvia Secco e con la pittrice Martina Dalla Stella, il libro d’arte e poesia Ursprüngliches Leben - Poesia e pittura in dialogo (Edizionifolli di Silvia Secco). Sempre del 2018 è la pubblicazione indipendente su KDP di Variazioni sul tema del tempo (collana di poesia Versante ripido). Del 2019 è la pubblicazione artigianale, in tiratura limitata di 40 esemplari, di Quando si spegne il cielo (Edizionifolli). Per i tipi di Marco Saya Edizioni è uscita, nel 2019, l’antologia a cura di Sonia Caporossi Claudia Zironi - Diradare l’ombra - Antologia di critica e testi - 2012/2019. Altre notizie si possono trovare nel sito: claudiazironi.wordpress.com. |