Omaggio ad Alighieri: Dante e le donne – Di Luciana Grillo

Oggi l'iInizio ufficiale delle celebrazioni del Sommo Poeta perché il 25 marzo 1300 è il giorno in cui Dante decise di cominciare il suo viaggio ultraterreno

Nello scorso 2020, con discreto anticipo, Enti e Istituzioni decisero di organizzare, in occasione dei 700 anni dalla morte del poeta, il Dantedì, scegliendo come data di inizio ufficiale delle celebrazioni il 25 marzo 2021 perché, secondo gli studiosi più accreditati, il 25 marzo 1300 è il giorno in cui Dante decise di cominciare il suo viaggio ultraterreno.
E non è un giorno scelto a caso, perché è quello in cui la Chiesa ricorda l’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele a Maria. Dunque, il 25 marzo per Dante peccatore è l’annuncio di una nuova vita.
 
Se la pandemia non ci costringesse ormai da un anno all’isolamento, certamente di Dante si sarebbe parlato a lungo, ci sarebbero state Mostre, grandi eventi, pubblicazioni, eccetera eccetera.
Ma se la pandemia ci impedisce una normale vita sociale, non possiamo lasciar passare inosservato né il settecentenario, né il Dantedì, dunque proviamo a parlare del sommo poeta e delle donne (poche, in verità) che popolano la Commedia, trascurando la madre Bella degli Abati, la matrigna Lapa, la moglie Gemma e la figlia Antonia.
 
Dante, nella Commedia, costruisce un piccolo universo abitato dalle donne, figure significative, sottratte all’oblio dalla sua poesia. Ciascuna di esse ha una precisa identità, una storia, una individualità inalterabile, eppure tutte diventano quasi dei prototipi, assumono una dimensione universale: ci sono regine e borghesi, nobildonne adultere e fanciulle che si rifugiano in convento, vedove dalla memoria corta e persino arrampicatrici sociali.
Tutte sono donne del loro tempo, obbedienti e dedite al marito che onorano da vivo e piangono da morto.
 
Guai a quelle vedove che si risposano o alle donne insoddisfatte che intrattengono relazioni extraconiugali!
Grande rispetto e devozione meritano le sante sulle quali si eleva Maria, donna per eccellenza e madre di Gesù.
Dante è un uomo del suo tempo, intelligente e buon osservatore, e quindi non gli sfugge la violenza che spesso le donne subiscono, all’interno e all’esterno delle mura domestiche.
 
Ma procediamo con ordine e partiamo dall’Inferno, cantica del dolore e del fuoco eterni: tra le anime lussuriose (canto V), insieme a Semiramide, Cleopatra, Elena e Didone, è relegata Francesca da Polenta che si innamorò del cognato Paolo, e tradì il marito Gianciotto Malatesta, gobbo e deforme, a cui la famiglia aveva voluto unirla in un matrimonio combinato, in segno di riconoscenza per l’aiuto militare ricevuto, dopo averle mostrato (così si dice) un ritratto del bel Paolo, fratello minore del promesso sposo.
Anche questa è una forma di violenza, un matrimonio forzato, un consenso ottenuto con l’inganno…
 
Francesca racconta la sua storia a Dante, rivelando un animo sensibile e gentile, per dimostrare l’impossibilità di sfuggire alla forza dell’amore.
Nei confronti del marito, che dopo averli sorpresi li uccide, prova sentimenti di odio e ne predice la sorte di dannato nella Caina, dove si trovano le anime dei traditori dei parenti: Caina attende chi a vita ci spense…
 
In Purgatorio (canto V) incontriamo un’altra donna, uccisa dal marito Nello della Pietra che la scaraventa giù dalla torre del suo castello in Maremma: è Pia de’ Tolomei che accusa il marito di non averla protetta, come promesso nel contratto matrimoniale.
Non lo odia, vive il tempo dell’espiazione in attesa di ascendere al Paradiso e raccomanda maternamente a Dante di parlare di lei quando sarà tornato nel mondo dei vivi e si sarà riposato.
Bonconte da Montefeltro, nello stesso canto, ricorda la moglie Giovanna accusandola di non pregare per lui, mentre poco dopo, nel canto VIII, Nino Visconti, pisano, chiede a Dante di ricordarlo a sua figlia, dato che la moglie, Beatrice d’Este, si è consolata velocemente risposandosi con un altro Visconti, ma milanese e ghibellino.
 
Beatrice in questo caso diventa un cattivo esempio, «per lei assai di lieve si comprende/quanto in femmina foco d’amor dura, / se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende».
Forese Donati, invece, nel XXIII canto ricorda con tenerezza la vedovella mia che tanto amai, la cara Nella. Piange e prega per la sua anima, per lei così diversa – sempre secondo Forese – da tante sfacciate donne fiorentine.
Nel Paradiso terrestre, Dante vede Matelda, espressione di una femminilità spiritualizzata (Purgatorio, canto XXVII), che accompagna le anime verso i fiumi Lete ed Eunoè perché bevano le acque e completino il processo di purificazione, prima di ascendere al Paradiso. Matelda è una figura eterea, rarefatta, raccoglie fiori, canta e si muove con gesti pieni di grazia.
È il vero ideale di donna angelicata secondo gli Stilnovisti.
 
Ben diversa la vicenda di Piccarda Donati, vittima della violenza del fratello Corso, capo arrogante dei Guelfi neri di Firenze, che la fa rapire dal convento di Santa Chiara dove la fanciulla (che dicono bellissima) si era reclusa volontariamente per evitare il matrimonio, a tredici anni di età.
Costretta a sposare Rossellino della Tosa, muore poco dopo le nozze.
Dante la incontra in Paradiso (canto III), l’anima ha occhi ridenti, e invita il poeta a ricordare gli anni passati e a riconoscerla, anche se trasfigurata: «e se la mente tua ben sé riguarda, / non mi ti celerà l’esser più bella…».
 
Le è accanto Costanza d’Altavilla, - «altro splendor…che s’accende / di tutto il lume de la spera nostra» - ultima erede normanna, costretta anche lei a rinunciare ai voti per sposare Enrico VI di Svevia.
Costanza, moglie infelice di un uomo grossolano, diventa madre (dicono che sia stata una primipara attempata) di Federico II, «stupor mundi».
La violenza non ha risparmiato neanche una regina.
 
Naturalmente, non si può non parlare di Beatrice, che ha operato per la salvezza di Dante. Compare in Purgatorio e lo accompagna lungo tutto il Paradiso con atteggiamento materno e sapiente, come simbolo della fede, consapevole della sua missione, per sedere infine nel terzo giro, insieme all’antica Rachele, nel posto che Dio le ha assegnato per i suoi meriti.
Nel canto XXXI Dante le riconosce il merito di averlo «di servo tratto a libertate… / La tua magnificenza in me custodi, / sì che l’anima mia, che fatta hai sana, / piacente a te dal corpo si disnodi,» ma non dimentica di presentarcela anche come donna di scienza che sa spiegare le macchie lunari (II canto: «Certo assai vedrai sommerso / nel falso il creder tuo, se bene ascolti / l’argomentar ch’io li farò avverso»).
 
Infine, nell’ultimo canto del Paradiso, il XXXIII, Dante giunge a Maria, la donna che ha messo la sua femminilità al servizio del Signore per la salvezza dell’umanità.
San Bernardo le rivolge una preghiera che nessun lettore o lettrice dimentica, e così il ruolo di una donna si trasferisce su un piano più alto, escludendola dalle vicende terrene e facendone oggetto di venerazione, dunque rendendola signora, santa, domina che nel Paradiso ha la più adeguata cornice: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’eterno consiglio, / tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ‘l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura».

Nota: La bella biografia di Costanza d’Altavilla, scritta da Carla Russo, è stata recensita nella mia rubrica (vedi).