«La democrazia aiuta sempre lo sviluppo?»
Questo il provocante titolo della lecture del Professor Raghuran Rajan sul rapporto tra sottosviluppo e forme di governo, tema cardine del Festival
Va diritto al sodo Raghuran Rajan
nell'affrontare il tema cardine di quest'anno al Festival
dell'Economia e lo fa con il provocante titolo della sua lecture
«La democrazia aiuta sempre lo sviluppo».
Nell'introdurre la conferenza e il relatore, la giornalista Laura
Strada - caporedattore Rai della sede di Trento - ha elencato i due
ostacoli allo sviluppo sostenuta da una forma di governo
democratico che poi il professor Rajan ha approfondito e cioè: il
potere delle élites economiche e i diversi bisogni delle altre
classi sociali.
Classe 1963, autore con l'italiano Luigi Zingales di «Salviamo il
capitalismo dai capitalisti», professore a Chicago, Rajan ha la sua
opinione e la sua ricetta per compenetrare libertà ed efficienza. E
l'ha spiegata in modo chiaro ed esaustivo al folto pubblico che ha
gremito la sala di rappresentanza a Palazzo Geremia ed anche le
salette videocollegate.
Rajan ha subito fatto una premessa arguta e ironica conquistandosi
le simpatie del pubblico.
«Premetto che da quello che ho studiato qualsiasi sia la forma di
governo, la gente quando le cose vanno male se la prende sempre con
il potere politico, sia esso democratico o totalitario.»
È, in pratica, la versione indiana del nostro «Piove, governo
ladro!»
Subito serio, il professore ha esplicitato il modello economico che
avrebbe utilizzato per far passare i concetti di questa sua
lecture.
«Ma niente lettere greche difficili - ha rincuorato il pubblico. -
Ci sono stati grossi cambiamenti socio-politici in molti regimi
negli ultimi anni. Molte nuove democrazie sono nate. Ma c'è
delusione perché spesso lo sviluppo socio-economico che si sperava
collegato al cambiamento politico ha disilluso le masse. Con questo
non voglio dire la democrazia sia opposta allo sviluppo. Però
servono anche altri fattori tra cui l'accessibilità alle dotazioni
di base.»
«Poniamo di avere - ed ecco il modello per spiegare il concetto -
tre gruppi di interesse: un potere economico monopolistico, una
classe media istruita e una classe povera non istruita. Ogni gruppo
ha un voto. Due sono le riforme possibili - spiega il professore -
migliorare l'accesso ai fattori di dotazione, per esempio
l'istruzione universale, oppure aumentare la competizione con
minori barriere all'industria.»
Analizzando i possibili scenari Rajan fa capire che c'è anche la
possibilità di uno status quo.
«Se non ci sono vantaggi per nessuno la paralisi è invitabile Anche
perché ciascun gruppo vorrà novità diverse: la classe media, solo
per fare un esempio, non vuole più istruzione perché questo
significherebbe che gli ex poveri diventerebbero competitors sul
mercato.»
Perché il problema - e chi era alla conferenza lo ha capito
(«Nessuna domanda? Allora vi ho convinti tutti!» Ha detto
scherzando alla fine del suo intervento) - è che se è vero, come è
vero, che di solito in un Paese c'è l'élite e il resto, è anche
vero che questo «resto» è maggioranza, ma è una maggioranza solo
numerica non coesa, perché in realtà è formata da gruppi di
interesse con bisogni anche molto differenti!
Quarantacinquenne, autore di una produzione scientifica
straordinaria in rapporto alla giovane età, (è stato anche
direttore dell'Ufficio studi del Fondo monetario internazionale),
Rajan parla anche di quel Drago rosso, la Cina, che tutti temono ma
che pochi conoscono: «Quello cinese è un sistema produttivo in
piena ascesa ma ci sono forti disegualianze tra le zone costiere,
molto ricche, e quelle dell'interno che stanno patendo il nuovo
supersviluppo del colosso asiatico che è tutto fuorché omogeneo.
Questi ultimi si chiedono perché cambiare se stiamo peggio?»
Ma al di là dello strapotere delle élite, il professore indiano
sottolinea - quasi a stemperare i toni della sua provocazione
intellettuale iniziale - che il problema non è la democrazia ma la
disparità di dotazioni iniziali, quando per dotazioni intendo
soprattutto l'accesso all'istruzione ma anche una sanità di buon
livello per tutti e una distribuzione delle ricchezza che non sia
iniqua.
«Le diseguaglianze nei Paesi poveri sono il retaggio dei vari
colonialismi. La disuguaglianza è rimasta ed ha favorito politiche
che hanno ulteriormente consolidato le disuguaglianze.»
«Del resto - ha proseguito il professore - certe volte sono gli
stessi poveri che non vogliono cambiare. Pensiamo a Cuba . C'è
malcontento ma la gente è anche soddisfatta e orgogliosa di avere
un servizio sanitario tra i migliori al mondo.»
Docente di Finanza presso la Graduate School of Business
dell'Università di Chicago Rajan, è Consigliere economico e
Direttore di ricerca presso il Fondo Monetario Internazionale. Ha
collaborato con le maggiori riviste internazionali di finanza e ha
svolto attività di consulenza per la Banca Mondiale, il Federal
Reserve Board, la Reserve Bank of India e il Parlamento svedese. La
sua attività di ricerca concerne soprattutto la teoria
dell'impresa, le cause e gli effetti dello sviluppo finanziario e
le strutture di governo societarie.
Dopo la lecture, spazio è stato dato agli interventi molti dei
quali sono stati fatti in inglese, segno che anche in economia la
lingua anglo-americana è ormai la lingua madre degli addetti ai
lavori, studenti compresi.
«Non trova che spesso le riforme siano eccessivamente costose? -
chiede una giovane studentessa.
- Ha ragione ma (e penso alla mia India) i vantaggi poi sono enormi
se queste prendono una strada virtuosa.»
«In Italia c'è un'economia duale, divisa tra nord e sud. Questo
può essere un ostacolo alla realizzazione di una piena
democrazia?»
«Per rispondere a questa domanda vorrei qui con me l'amico Zingales
- ha detto scherzando l'economista indiano - Non conosco così bene
la situazione e la storia italiana. Ma c'è una costante del mio
credo che ho maturato studiando le varie situazioni: non è vero che
la mentalità, la cultura stessa di un popolo, o di una parte di
esso, non possa cambiare. Dell'India per esempio erano famosa la
nostra lentezza, i nostri ritardi. Adesso, soprattutto alcune zone,
si è scoperto l'efficienza. Una volta c'era l'indian standard time,
e cioè le due ore di ritardo. Adesso se arrivo ad un appuntamento
dieci minuti dopo sento il bisogno di scusarmi.»
Ed infine gli è stato chiesto «Che rapporto c'è tra religione e
sviluppo economico, può la prima rallentarlo?»
«Non credo molto all'etica protestante - ha replicato Rajan in
chiusura - Nessuna religione, neanche il Buddismo, predica il
fatalismo tout court, anzi tutte dicono al credente che deve
impegnarsi nella sua vita per fare bene.»