Mosca: il nemico è al di là della strada – Di Cesare Scotoni
Se dall’Ovest si può scommettere sul Niente di Nuovo ad Est qualcosa si è rotto
Ve lo ricordate quel Consigliere di Stato effettivo di prima classe e capo del SVR dott. Sergej Naryškin, nella allucinante riunione in diretta televisiva del 23 febbraio 2022, che precedette l’accettazione della richiesta di aiuto da parte delle neo costituite repubbliche del Donbass?
Quella in cui Putin, a fronte delle esitazioni di quel signore lo sfidò di fronte alle manifeste perplessità con un «parli, parli più chiaramente!» e lui replicò con un balbettante assenso?
Io lo conobbi nel 2003, quando era Presidente del Comitato per le Relazioni Economiche Esterne e Internazionali del governo della Regione di Leningrado e lo rividi con piacere al Forum Economico di San Pietroburgo, da Capo dell’Amministrazione Presidenziale nel giugno 2010.
Una persona corretta, gentile, uno sportivo ed un funzionario attento e fedele al proprio compito.
Fino al 23 febbraio 2022 lo distinguevano una carriera in ascesa e prospettive ancora più importanti.
Quando vidi quella scena ne fui addolorato. Era evidente che i rapporti SVR e quelli di FSB e del Ministero della Difesa divergevano e che quei rapporti su Contesto e Prospettive dell’eventuale «Operazione Speciale» erano già tutti in mano a Putin.
E lì Vladimir Vladimirovic aveva già scelto e lo aveva sfidato ad affrontare l’apparato e, se avesse voluto difendere quella posizione, a perdere pubblicamente la partita.
La prospettiva di decapitare l’SVR alla vigilia di un’azione militare non sembrava un problema per Putin e, da funzionario fedele all’Istituzione l’uomo ingoiò l’umiliazione e arretrò.
Io il 20 ero appena rientrato da Mosca, in cui un amico che lavorava alla Commissione Difesa alla Duma mi aveva chiarito che i mezzi appena impiegati nelle esercitazioni al confine con il Donbass erano pronti e solo in attesa di una provocazione dell’esercito ucraino su Donetsk per intervenire ed occupare le due repubbliche in mezza giornata.
Poi la provocazione ucraina del 22 febbraio con il bombardamento di obiettivi civili su Donetsk fu puntualissima nell’anniversario dell’invasione nazista del 1941 e la sceneggiata del 23 febbraio che sopra richiamavo, fu quindi assai più di una conferma.
In una intervista a Paolo Piffer del Corriere il 24 febbraio spiegai quello scontro tra cleptocrazie e l’interesse di tanti per dare ad un’Unione Europea incapace di garantire gli accordi che patrocinava un colpo ferale.
E all’interesse della Polonia ad un conflitto che ponesse in discussione lo stato internazionale delle terre perse nel secondo conflitto mondiale.
Dopo un’avanzata assai rapida e l’avvio di colloqui, con una successiva ritirata unilaterale russa che doveva “accorciare” le linee e permettere un primo accordo, i servizi segreti ucraini (forse) uccisero uno dei negoziatori di Kiev accusato di tradimento per aver concluso la bozza di quella tregua e le operazioni ripresero con il supporto sempre più evidente di London e Warszava, fino all’attacco al Gasdotto Northstream 2 ed al coinvolgimento della NATO.
Cosa sta ora dunque succedendo tra Rostov sul Don e Mosca in queste ore?
Un «redde rationem» (resa dei conti) tra le oligarchie che sul budget federale e la ricostruzione dell’apparato militare della Federazione Russa hanno proliferato all’ombra di Vladimir Vladimirovic.
Come ovunque nel mondo le marginalità offerte dal mercato delle armi permettono l’accumulo di grandi ricchezze e la concorrenza in quel campo può portare a molti gradi di scontro, come le tante inchieste per corruzione internazionale hanno insegnato all’Italia e la guerra a Belgrado insegnò al mondo.
Come aveva tentato di segnalare l’SVR con Sergej Naryškin, gli apparati del ministero della difesa avevano la tendenza ad “adattare” i rapporti alla Presidenza, come un qualunque ISS o un AIFA nel periodo del Conte II, solo per ottenere più risorse da attingere (e spartire) dal budget federale.
L’impiego dei mercenari della Wagner, piuttosto ben equipaggiati in confronto alle truppe che provenivano dalle diverse repubbliche e regioni, avevano provocato non pochi mal di pancia a chi, a guerra in corso, si era sentito dire da Mosca di arrangiarsi perché Mosca non forniva gli equipaggiamenti al personale che affluiva al fronte.
Il capo di Wagner e beniamino fino a ieri di Putin, Prigozhin, aveva più volte segnalato dal fronte, tutti i limiti della macchina mal guidata negli anni “dall’affarista” Sergej Šojgu ed in realtà, da circa due mesi, si sapeva che il Ministro della Difesa “stava per lasciare la sua stanza” al Ministero.
Nei giorni scorsi, formalmente per errore, l’Esercito Russo bombardò i mercenari di Wagner.
Poi ieri il bombardamento è stato duro ed intenzionale.
L’ammutinamento attorno a Rostov sul Don e la minaccia dei mercenari di marciare su Mosca per prendere Šojgu e denunciarne poi gli intrallazzi, ha offerto a Vladimir Vladimirovic Putin il destro per proclamare da subito in una serie di regioni l’allarme antiterrorismo e relativi poteri speciali, denunciare il tentativo esterno di un’interferenza, condannare l’ammutinamento e promettere clemenza nel caso quello rientri ed al contempo riconoscere il losco malaffare che sarebbe proliferato con la gestione Šojgu.
Resta da capire da quanto tempo la “pietanza” sia in forno poiché appare evidente che il tentativo di “sfilarsi” dalle accuse che ha lanciato nel suo breve discorso alla Nazione e rifarsi una verginità sia tutto fuorché facile. In ogni caso il suo cuoco dovrebbe sapere che il Potere ha dei Riti e che alla fine chi li infrange paga a prescindere.
E che oggi è il tramonto per più d’uno, Prigozhin compreso.
Se dall’Ovest si può scommettere sul Niente di Nuovo ad Est qualcosa si è rotto.
E la stabilizzazione in Donbass è più vicina.
Cesare Scotoni