Rosa Maria Grillo: «Cinquecento anni di civiltà e barbarie»

Un testo che può avvicinarci con maggiore consapevolezza a letterature che fino ad oggi abbiamo frequentato poco

Titolo: Cinquecento anni di civiltà e barbarie Condividi
Autrice: Rosa Maria Grillo
 
Introduzione: Saggio introduttivo di Romolo Santoni
Editore: Oedipus 2021
 
Pagine: 248, Brossura
Prezzo di copertina: € 12
 
Questo testo, ricco di informazioni, riflessioni, citazioni che si dilatano nel tempo e nello spazio, tende a chiarire la storia e i rapporti fra Vecchio e Nuovo Mondo e quindi analizza culture diverse, esiti della colonizzazione, interventi del Vaticano, produzione letteraria che parte dai Diari di Cristoforo Colombo e arriva – dopo un cenno all’Indianismo, all’Indigenismo, alla Letteratura indigena e alla Letteratura fantastica – alla Letteratura testimoniale che racconta drammi dei nostri tempi, forse dimenticati o semplicemente sottovalutati, come quello dei desaparecidos, vittime di dittature degli anni ’70 / ’80.
 
Intervista a Santoni e Grillo
Romolo Santoni è Presidente del Centro Studi Americanistici «Circolo Amerindiano», Perugia.
Rosa Maria Grillo è ordinaria di Letteratura Ispanoamericana e Direttrice del Dipartimento di Studi Umanistici all’Università di Salerno.
L’ampio saggio introduttivo di Santoni ci porta ad interpretare in chiave storico-antropologica i rapporti che intercorrevano fra Europa e Nuovo mondo al tempo della conquista, con un’approfondita indagine sulle culture del periodo precolombiano.
 
Prof. Santoni, se l’Antropologia nasce dall’incontro con culture non europee, è in stretto rapporto con il Colonialismo?
«Senza dubbio c’è un rapporto preciso fra antropologia ed espansione europea, anche se non proprio direttamente fra questa disciplina umana e il colonialismo.
«L’espansione colonialista, infatti, mise direttamente a contatto le società europee con realtà umane altre dalle loro e ne sollecitò l’interesse. Fra l’altro da una prospettiva che, per potenza militare ed economica, favoriva l’idea di superiorità delle prime sulle seconde.
«Va da sé che il trionfalismo dei conquistatori influenzò l’approccio della prima antropologia. Ne nacque un connubio dagli esiti spesso perversi, con l’idea, da una parte, che l’intera evoluzione umana potesse essere riassunta dentro un’unica scala evolutiva, fatta di gradi differenti di sviluppo e la conseguente interpretazione delle culture altre come espressioni di momenti arretrati della evoluzione umana rispetto al modello europeo; dall’altra parte, queste conclusioni offrirono al colonialismo la giustificazione scientifica (e morale) alla propria espansione.
«Questo meccanismo sarà tale per decenni, anche se la riflessione antropologica cercherà di liberarsene. E ci riuscirà in gran parte soltanto dopo il secondo dopoguerra.»
 
Quanto conta il fatto che si consideri comunemente la storia sinonimo di realtà e il mito sinonimo di leggenda?
«La questione gira a mio avviso intorno alla concezione della nostra maniera di raccontare la storia come l’identificazione di questo modo con la storia stessa, concedendo al massimo margini più o meno grandi di errore al racconto. In realtà quello che ciascun gruppo umano narra degli eventi, è come li vede sotto il filtro della cultura e con le delimitazioni date dal contesto storico-ambientale in cui è inserito.
«La convinzione di esprimere la visione reale degli eventi, ha portato a riesumare il concetto greco di mito, ovvero racconto basato su ricostruzioni legate alle credenze religiose e comunque a tradizioni prive di fondamento e scientificità.
«In realtà io credo che non sia così. La Storia è nel regno di ciò che non ci è accessibile (il noumeno di Kant, ovvero la cosa in sé), per cui dovremmo parlare di storiografia riferendoci al racconto, e quello che oggi chiamiamo mito è semplicemente una lettura degli eventi passati, che - scientificamente - non vale meno della nostra storiografia, perché entrambe sono uno sguardo da un punto nello spazio e nel tempo e, per di più, culturalmente condizionato, in sostanza un semplice punto di vista.»
 
Lei scrive di culture precolombiane, spesso assai diverse l’una dall’altra, che si sovrappongono e si eliminano a vicenda. Quale crede che sia quella che ha maggiormente influenzato la vita dei popoli?
«Difficile dirlo. Forse impossibile. Quando parliamo di Civiltà precolombiane, in realtà quasi sempre ci limitiamo a quegli spazi che abbiamo chiamato Mesoamerica e Area Andina, dove si svilupparono culture urbane.
«In realtà, le Americhe sono molto più grandi e comprendono enormi spazi che furono abitati da genti dalle molte forme culturali e diversi sistemi di sussistenza (dalla caccia e raccolto all’ agricoltura), di insediamento (da ripari naturali a vere e proprie città) e di organizzazione sociale (da strutture basate sulla parentela a forme di quasi democrazia).
«Ma se volessimo considerare solo le aree già citate, potremmo sintetizzare col dire che la Olmeca inventò quella area che oggi chiamiamo Mesoamerica e che la Teotihuacana le diede una forma complessa e articolata, lasciando poi alla Mixteca e Azteca il compito di darle l’assetto che gli spagnoli conobbero al loro arrivo. A sud est però c’era la sub-area Maya e i Maya furono per secoli prima sotto l’egida olmeca, poi sotto quella teotihuacana e infine sotto la mixteca-tolteca, ma senz’altro furono determinanti per tutto l’arco della storia precolombiana per le tante culture mesoamericane. Poi non possiamo ignorare che anche Zapoteca, Totonaca, Huaxteca e tante altre parteciparono a questo processo.
«Nella regione Andina i dati sono meno noti, ma sappiamo che Chavín fu determinante quanto la Olmeca in Mesoamerica, realizzando il primo Orizzonte panandino. A questo Orizzonte ne successe uno di culture regionali che proseguirono reinterpretando la cultura Chavín e preparando le forme culturali del nuovo orizzonte panandino, quello di Tihuanaco-Huari. Altra fase regionale e poi ultimo Orizzonte, quello Inka. In tutto ciò culture come Mochica, Nazca, Paracas, Chimú, ecc. interpretarono la costruzione di un processo culturale unitario nella diversità.
«In sostanza, se vogliamo, sia la Mesoamericana sia l’Andina furono il risultato di una costruzione corale delle culture che li si svilupparono.»
 
Lei parla dell’Europa come di una micidiale macchina da guerra, delle ricchezze dei popoli che si trasformano in opulenza per le città europee e in miseria per i nativi. Qual è stato il ruolo della Chiesa, a partire dalla Bolla di Papa Farnese del 1537?
«I popoli di quella parte del continente euroasiatico che oggi chiamiamo Europa si sono evoluti per millenni in una specie di imbuto geografico, schiacciati dalla costante pressione di ondate invasive, la cui origine si collocava nelle ampie pianure del centro dell’Asia e queste ondate provocavano ulteriori ondate sui popoli limitrofi e questi sugli altri, con un effetto domino che si schiantava regolarmente sui lati estremi, fra cui quello europeo.
«In qualche modo la nascita dell’impero romano e dei suoi successori e del loro carattere bellicoso ne furono una conseguenza. Così nacque la micidiale macchina da guerra europea e la convinzione, non soltanto europea, ma prettamente tale, che la guerra sia la soluzione a tutti i problemi politici ed economici del genere umano.
«Da ciò venne fuori quel meccanismo per cui Karl Marx ebbe a parlare della Religione come oppio dei popoli. La Religione, per sua natura, ha bisogno di accettazione fideistica e può diventare uno strumento di manipolazione delle masse, quindi strumento di potere. Anche nel mondo cristiano - in pieno contrasto con il più puro pensiero cristiano - la Religione divenne strumento di manipolazione, potere, coercizione. La Chiesa, in quanto istituzione, ha un progetto spirituale, ma per realizzarlo ha bisogno di mantenersi. Così, come istituzione, se da una parte con diverse voci potenti e autorevoli condannò la politica vessatoria e di sterminio delle popolazioni, dall’altra, più attenta ufficialmente alla salvezza delle anime che a quella dei corpi, e, soprattutto molto di più attenta (nei suoi apparati di potere) ad assicurarsi spazi di dominio, si affiancò al dominio politico militare per la conquista e l’asservimento, a tutti i costi, dei popoli americani. E questo implicava incidere sul piano culturale, a livello di base della cosmovisione di individui e collettività.
«La conquista vera e profonda non poteva fare a meno infatti di profondi cambiamenti con pesanti processi di contemporanea deculturazione (dalle tradizioni indigene) e acculturazione (alla cosmovisione religiosa e sociale europea). L’asservimento degli indigeni era il prodotto finale auspicato. Il più noto mezzo per questa finalità fu l’Encomienda, il posto dove gli indigeni venivano rieducati a credere nell’unico Dio e nell’unico imperatore. Ma in realtà era solo un altro modo per schiavizzarli.
«Questo schema di interazione fra Chiesa e potere politico si ripeté ovunque e tutt’ora prosegue attraverso l’azione delle sette protestanti al servizio della espansione globale anglosassone.

Per concludere, come valuta i rapporti fra i «nuovi americani», i circa tre milioni di africani importati e i nativi?
«È scritto nel profondo della nostra genetica che dobbiamo evolverci ripetendo pedissequamente i nostri caratteri fisici e culturali nelle generazioni future ed è su questi caratteri che fondiamo le certezze base che ci danno equilibrio e sicurezza nel Mondo pervaso dal cambiamento globale. Per cui noi reifichiamo e assolutizziamo questi caratteri: il nostro è l’unico Dio, come e cosa mangiamo noi è come e cosa si mangia, la nostra è la lingua e gli altri balbettano, i nostri sono i vestiti e quelli degli altri strani costumi, ecc.
«La diversità invece ci pone di fronte a soluzioni genetiche e culturali che cozzano con le nostre certezze, ingenerando angosce e paure. Il razzismo è il prodotto di tali angosce e tali paure: più sono forti, più violenta è la reazione.
«L’America è il posto dove le varie rappresentanze etniche della nostra umanità sono andate a confluire. Il risultato è stato sempre drammatico: sterminio degli indigeni, tratta e schiavizzazione degli africani, emarginazione e violenze di ogni genere.
«Oggi, però, a dispetto di qualsiasi nostro meccanismo profondo, stanno emergendo in maniera sempre più vistosa altri meccanismi, nati subito dopo il primo contatto, quelli della mescolanza fra le etnie. La Religione delle genti e non del potere è sicuramente stato un potente motore di questo processo, attraverso sincretismi che non solo hanno permesso di superare le ataviche diffidenze, ma di rendere partecipi di neonati processi le differenti componenti etniche. La mescolanza ha poi coinvolto ogni ambito del vissuto dei popoli americani.
«Così, se l’America anglosassone, profondamente intrisa di razzismo, è rimasta con le sue divisioni profonde e i legami con le radici africane, europee, indigene e asiatiche non si sono sciolti nella nuova americanità, la cosiddetta America Latina oggi esprime una nuova umanità fatta di inediti contenuti, genetici e culturali, in cui ogni componente diventa qualcosa di nuovo partecipando alla costruzione di un’ America latina, in parte, certo, anche latina, quanto africana, asiatica e amerindia, ma, soprattutto, americana. E i riflessi si vedono nella letteratura, nella musica, nei percorsi filosofici, in quelli politici. In tutti i colori che caratterizzano una umanità.»
 
Passiamo ora al testo che dà titolo all’intero libro, ovvero ai cinquecento anni che si dipanano tra civiltà e barbarie e chiediamo a Rosa Maria Grillo alcuni chiarimenti, utili ad avvicinarci a letterature comunque poco diffuse nel mondo occidentale, se si escludono i grandi autori che hanno catalizzato l’interesse dei lettori europei… e penso a Borges, García Márquez, Allende.
 
Dottoressa Grillo, la letteratura ispanoamericana nasce dai Diari di Colombo, quindi lei ritiene che l’imprinting europeo sia imprescindibile?
«In un processo colonizzatore così invasivo e duraturo nel tempo come quello latinoamericano, l’impronta europea si è radicata profondamente imponendo lingua, religione, cultura anche se con forme di meticciato e sincretismo diversi da regione a regione, in relazione anche al livello di costruzione identitaria delle diverse popolazioni autoctone, alcune ancora nomadi e altre in possesso di una cultura materiale e immateriale di grande spessore, come correttamente ha esposto Romolo Santoni.
«I Diari di Colombo e le cronache della Scoperta e della Conquista costituiscono una famiglia testuale che ha segnato profondamente sia la cultura e l’immaginario europei che ispanoamericani. In ogni processo colonizzatore si scontrano due mondi, e sempre un mondo reputa se stesso superiore all’altro (etnocentrismo)… La diversità è sempre stata sinonimo di inferiorità, ma lungo il corso del ‘900 studi antropologici e filosofici hanno combattuto questi pre-concetti e pre-giudizi, rivalutando la diversità come carattere precipuo di ogni cultura: cibo, abitudini, scrittura, generi letterari e artistici, riti, credenze/fedi, lingua… tutto è prodotto di cultura, e non ce n’ è una superiore a un’altra.»
 
Qual è il peso del Concilio di Trento e della Controriforma cattolica nella cristianizzazione del nuovo mondo?
«Enorme, e non per caso l’Inquisizione è stata potentissima alleata della Corona spagnola sia in Europa che nei territori conquistati.»
 
Quando nasce – se nasce – secondo lei, una cultura indipendente dalle influenze europee?
«Indipendente mai, perché se dopo l’indipendenza politica (prima metà dell’800) si è iniziato un processo di scoperta del territorio e delle popolazioni indigene sopravvissute al genocidio e alle epidemie, e testimoni della persistenza della loro cultura, l’impronta europea ha guidato anche questa nuova scoperta.
«Sempre lungo il corso del ‘900 progetti politici ed economici di restituzione di quanto tolto durante la colonizzazione sono naufragati (a partire dalla rivoluzione messicana degli inizi del 900: Pancho Villa, Zapata…) ma nelle ultime decadi è in corso in molti Paesi il processo di restituzione culturale con il recupero delle lingue indigene, di miti, manufatti, arte, modelli di organizzazione sociale ecc.
 
Gli europei del nord facevano il Grand tour…anche gli americani ispanofoni viaggiano in Europa (Sarmiento, Rodò, eccetera), spinti da curiosità, oppure sono alla ricerca dell’origine della cultura e della civiltà?
«È un fenomeno che si sviluppa dopo l’Indipendenza, già nell’800 e comprende il viaggio culturale, di ricerca delle proprie radici, di studio, di ricerca di modelli di governo da importare nel proprio Paese.»
 
Solo verso la fine del 1800 nasce una letteratura indigena: quali sono le caratteristiche che la distinguono da quella tout court latinoamericana?
«Non possiamo prescindere dalle diverse tappe – letteratura indianista, indigenista, indigena – che ha attraversato la letteratura di tema indigeno: la letteratura è un artefatto che corrisponde alla cultura europea e si è evoluta al passo dell’evoluzione della cultura di appartenenza ma che, per un nostro peccato di eurocentrismo – pensare che ciò che vale per noi vale per tutto il mondo, che ciò che è bello per noi è bello per tutto il mondo – abbiamo utilizzato per capire, giudicare, valutare, prodotti linguistici non europei che vanno al di là dell’uso strumentale della lingua (questo per noi è la letteratura: dire qualcosa in più rispetto alla comunicazione utile).
«In America latina esistevano – e sono arrivate fino a noi – diverse forme di letteratura orale e scritta (non con il nostro alfabeto, naturalmente) non rientranti nei nostri canoni letterari e quindi da noi non riconosciute come letteratura.
«Per secoli il mondo indigeno è stato solo oggetto dello sguardo e della letteratura europea, poi scrittori meticci, antropologi, studiosi di varie tipologie, hanno iniziato a raccontare dal di dentro il mondo indigeno, ma solo sul finire del ’900 individui di cultura e linguamadre indigene si sono impossessati delle strutture letterarie occidentali (della cultura dominante latinoamericana, come dice la parola stessa) e, fondendole con la propria tradizione, hanno prodotto letteratura indigena in lingua indigena, spesso autotraducendosi in spagnolo.»
 
Perché «Cinquecento anni di Civiltà e Barbarie»?
«Secondo il principio che diversità uguale inferiorità, e sulla scia di quanto avvenuto in Europa con le invasioni (barbariche) che hanno sconfitto l’impero romano (civile), abbiamo considerato espressione di civiltà tutto quanto apparteneva alla nostra cultura ed espressione di barbarie tutto quanto le era estraneo e ci era incomprensibile (l’esotismo è il lato buono della barbarie).
«Si può leggere la storia dell’America Latina attraverso l’ evoluzione in letteratura di questi due concetti che, essendo espressioni di cultura e non di natura, variano nel tempo e nello spazio: la nostra fede è sinonimo di civiltà, la fede di altri è sinonimo di barbarie, le nostre abitudini alimentari sono civili, quelle degli altri sono barbare (noi mangiamo cozze, molluschi, lumache, capretti, lepri, come qualcosa di naturale, ma è barbaro chi mangia grilli, cavallette, cani…), gli inglesi nemici acerrimi dell’impero spagnolo diventano eroi positivi nella letteratura postindipendentista, gli immigrati sono ora portatori di civiltà europea ora barbari delinquenti…»
 
L’ultimo capitolo riguarda la letteratura testimoniale, che ha a che fare soprattutto con le dittature del secondo ’900: quali sono le autrici e gli autori che le sembrano particolarmente interessanti? E che rapporti intercorrono con gli autori e le autrici europei e soprattutto italiani?
«Le testimonianze di sopravvissuti alle dittature del secondo novecento rendono credibile l’in-credibile, hanno svelato la tragedia dei desaparecidos, dei vuelos de la muerte, dei niños apropiados su cui regnava un silenzio assoluto imposto dai governi di transizione che imponevano l’oblio e l’impunità. Per tutti, il modello di racconto e di riflessione sui centri di deportazione, detenzione e sterminio è costituito da Primo Levi che per primo ha parlato del diritto/dovere del sopravvissuto di raccontare e di essere ascoltato, dei sensi di colpa che assillano i salvati, della necessità della conoscenza di questi crimini per scongiurarne la ripetizione.
«Molte case editrici italiane hanno collane dedicate in traduzione italiana (Viento del Sur della romana Nova Delphi, la milanese Rayuela, la salernitana A Sud del Río Grande di Oèdipus) e i nomi possibili per avvicinarsi a questa letteratura in italiano sono Edda Fabbri, Carlos Liscano, Mirta Dillon, Fernando Reati, Nora Strejilevich, Diamela Eltit… e in ultimo l’italo-argentino Marco Bechis che con il suo La solitudine del sovversivo ha imposto alla cultura e alla intellettualità italiane un atto di riconoscimento dell’esistenza di un nuovo genere, la letteratura testimoniale italiana.»
 
Dopo la lettura di queste risposte, complesse ma chiarificatrici, possiamo avvicinarci con maggiore consapevolezza a letterature che fino ad oggi abbiamo frequentato poco.