«Diario di un’Invasione» – Racconto di Beatrice Carraro

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Prosegue la nostra iniziativa di pubblicare racconti inviati dai nostri lettori. Il primo racconto ci è stato inviato da Daniela Larentis, che ci ha fatto venire l’idea di invitare i nostri lettori a inviarci dei loro scritti. 
Oggi è la volta di Beatrice Carraro. È nata a Trento e ha 20 anni. Finito il liceo scientifico, sta frequentando il secondo anno di Odontoiatria e Protesi Dentaria a Padova. Amo leggere molto, il che l’ha portata inevitabilmente a scrivere e disegnare quello che sente e immagina.
Quanto segue è solo il prologo di un libro che sta scrivendo, ma l’autrice crede che possa vivere anche da solo.

 Diario di un'invasione  
 
Avremmo dovuto portare loro la civiltà.
Così ci avevano detto. Ma tutto quello che avevamo fatto fino ad ora in realtà era stato ben diverso.
Si trattava di un pianeta antico e giovane allo stesso tempo. I suoi attuali abitanti non erano poi tanto diversi da noi. Si preoccupavano di loro stessi e delle loro famiglie. Nascevano, crescevano, invecchiavano e poi morivano.
Un ciclo vitale non poi tanto strano. Erano la specie dominante, ma su quella terra non vivevano da soli: erano circondati da tante altre creature. Alcune grandi come palazzi, altre piccole come un’unghia. Era un piccolo paradiso verde e blu, dove si era creato un instabile equilibrio che il nostro arrivo aveva stravolto.
 
Il mio plotone era appena arrivato. La nostra astronave stava attraversando l’orbita del pianeta. Una piccola luna argentata ci accoglieva riflettendo i raggi del loro sole.
Spostai lo sguardo sul nuovo mondo su cui avrei presto dovuto mettere piede. Era per metà in ombra.
Un’infinità di piccole luci gialle e arancioni si riflettevano sulla sua superficie. Sembravano tanti piccoli falò visti da lontano.
Ogni tanto però si vedevano anche le nostre postazioni. Come fredde lame brillavano i nostri campi base. Luci bianche e azzurre in contrasto con l’oscurità della notte.
 
Ancora una volta mi domandai sul perché avessi accettato di partecipare a quella missione.
Sarei dovuta restare a casa. Magari sposarmi, avere dei figli e comprarmi casa, come voleva mia madre. Ma sapevo che quello non era il mio destino.
Ancora mi ricordavo del mio primo giorno in caserma e di quando mi ero arruolata. Erano passati quasi nove anni. Un tempo lungo certo, ma almeno ero riuscita a fare carriera. Ora ero un sergente e avevo le mie responsabilità.
 
Non volendo ricordare il passato riportai la mia attenzione sul pianeta. La parte illuminata era piena di colori.
Per di più notavo un immenso oceano disseminato di nubi bianche. Verso ovest si osservava però un continente. Era cosparso di neve a nord, o a sud, dipendeva dal punto di vista dell’osservatore.
Poi diventava sempre più verde, un colore scuro e profondo che dava sicurezza. Fino all’equatore dove assumeva una tonalità dorata, per poi ripetere a specchio le sfumature al di là di esso. Una sottile catena montuosa punteggiata di bianco e rame lo attraversava in verticale come una lunga spina dorsale.
 
Scossi la testa sconsolata. Saremmo riusciti a fare quello che i nostri politici decantavano da qualche tempo o avremmo semplicemente prosciugato l’ennesimo mondo?
Spostai lo sguardo dall’oblò dell’astronave verso l’interno. I miei compagni sedevano con me. Le mani in grembo, il volto scuro.
Quasi tutti erano più giovani della mia età. Ricordavo solo che Alex fosse del mio anno. Li avevo conosciuti qualche mese prima, quando ci eravamo imbarcati in quella folle impresa.
Qualche ora per apprenderne i nomi, e poi 126 giorni in una bara criogenica per mantenerci  in vita senza spendere troppo in cibo.
Quanto odiavo quelle modalità di trasporto. Soltanto una volta avevo provato quella sensazione, per un viaggio offertomi dall’università militare per i miei alti risultati sostenuti in un esame.
Se soltanto avessero scoperto che avevo copiato…
 
Con una mano mi sistemai stizzita una medaglia sul petto. L’avevo appuntata un’ora prima, ma non mi soddisfaceva ancora il suo aspetto. Sentii qualcuno sospirare.
Quando saremmo atterrati avremmo dovuto sfilare davanti agli ufficiali stanziati sul pianeta. Loro ci avrebbero guardato e commentato come ad una fiera di animali.
Per loro eravamo solo nuovi pezzi di carne da immolare nella prossima guerriglia. Quanto odiavo la mia società.
 
Una turbolenza annunciò, pochi secondi prima di un altoparlante, che eravamo entrati nell’atmosfera. Guardai ancora una volta fuori dal finestrino. Le fiamme divorarono lo spazio e le stelle che brillavano in esso. Rosso nel buio.
Qualche minuto di silenzio. Luci spente per mantenere l’energia focalizzata sugli scudi di prua per evitare una pericolosa collisione con i satelliti artificiali che orbitavano attorno al piccolo mondo.
Un mio commilitone singhiozzò nell’oscurità. Il nostro viaggio stava per incominciare. Sapevamo che non tutti sarebbero poi tornati a casa sani e salvi.
Chiusi gli occhi e attesi la fine.
 
Una miriade di bagliori luminosi saettavano sotto le mie palpebre, senza permettermi di rilassarmi. Sembrava volessero avvertirmi di qualcosa.
Una spirale blu elettrico, un arco d’argento, delle linee dorate e svariati cerchi concentrici verdi come le foreste di quel pianeta. Sarebbe bruciato e noi con lui.
La stessa voce metallica che ci aveva avvisato dell’impatto con l’atmosfera ci avvertì che mancavano 60 secondi all’ammaraggio. La nave sarebbe atterrata in uno dei tanti laghi presenti sul continente più grande.
 
Riaprii gli occhi seccata. Non riuscivo più a pensare. Una luce rossa soffusa brillava ad intermittenza illuminando l’abitacolo dove noi eravamo seduti ad aspettare.
Potevo vedere i volti dei miei compagni ogni due secondi. Ognuno di loro affrontava il momento in un modo diverso.
Certi erano spaventati, forse più per l’ammaraggio che per ciò che ci aspettava. Altri sembravano spenti, come se nulla più fosse importante. Altri ancora mostravano disperazione, gli occhi serrati, la bocca chiusa: un espressione ferina dipinta sul viso.
Mi domandai quale fosse l’aspetto attuale della mia faccia. Come mi vedevano gli altri? Ero arrabbiata? Triste? Nemmeno io sapevo quello che provavo.
 
Concentrai la mia attenzione sul conto alla rovescia. A che numero eravamo arrivati? 31, 30, 29… Non ce l’avrei mai fatta ad aspettare ancora così tanto.
Assaporai gli ultimi respiri d’aria della mia casa. Aveva un sapore metallico, forse dovuto all’astronave. D’ora in avanti sarei stata costretta a respirare l’aria di quel pianeta.
Era simile alla nostra: una concentrazione di ossigeno leggermente minore, ma comunque respirabile. Quale odore avrebbe avuto? Il vento sulla mia pelle avrebbe avuto lo stesso tocco di quello di casa? 
 
5,4,3,2,1...
 
Beatrice Carraro