«Maschere e mascherine nell’arte trentina» dal 2 febbraio
In mostra da Foto Rensi: Berlanda, Bonacina, Castelli, Fracalossi, Lome, Perghem-Gelmi, Guido Polo, Rensi (Rodolfo, Claudio, Matteo), Tartarotti e Verdini

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La mostra «Maschere e mascherine nell'arte trentina», che si inaugura venerdì 2 febbraio alle ore 17 presso lo Studio Rensi di via Marchetti a Trento, rappresenta senza alcuna pretesa di completezza una panoramica sull’interesse dimostrato da alcuni significativi artisti trentini del Novecento nella raffigurazione della Maschera, nelle sue varie accezioni allegoriche, rituali, teatrali, carnevalesche.
Dopo «I segni del sacro», «Paesaggi nell’arte trentina», «Carlo e Gios Bernardi», «Il realismo magico di Gino Castelli», questa esposizione aggiunge un ulteriore tassello nell’attenzione dimostrata dallo studio fotografico gestito da Claudio e Matteo Rensi di porsi come luogo d'incontro tra la ricerca pittorica, fotografica e plastica nella città di Trento, in dialogo con le mostre curate dalle gallerie e dai musei d'arte pubblici nel nostro territorio provinciale.
Dodici gli artisti coinvolti, una trentina di opere prestate da collezionisti privati (in alcuni casi familiari o dagli stessi artisti viventi): da Guido Polo a Gino Castelli, da Carlo Bonacina a Mariano Fracalossi, da Michelangelo Perghem-Gelmi a Pietro Verdini, da Marco Berlanda a Lome a Paolo Tartarotti, ai fotografi Rensi.
La maschera è una forma artigianale che si indossa per ricoprire l'intero viso (o una sua parte). Usata fin dalla preistoria per rituali religiosi, a scopo magico, rituale o funerario (entrare in contatto con gli dei, i demoni, gli spiriti dei defunti, esorcizzare gli spiriti cattivi, uscendo dalla dimensione spazio-temporale, per proiettarsi all'interno di un mondo divino, rituale, mistico), per fini bellici o propiziatori (incutere terrore al nemico, assicurarsi la buona riuscita della caccia), scenici-teatrali (evidenziare il carattere e la funzione di un personaggio), di divertimento (come quelli per lo più grotteschi che si usano per il carnevale).
Nell’arte trentina non troviamo fino al Novecento una particolare attenzione al tema iconografico della maschera eccetto per la fortuna dei mascheroni barocchi in vari palazzi nobiliari a Trento (primo fra tutti per pregio di decorazione architettonica Palazzo Trautmannsdorf di Via Suffragio-Piazza Sanzio) ma anche in via della Terra o in via Tartarotti a Rovereto o ad Ala; un fiorire legato al ritrovamento a fine Quattrocento nella Domus Aurea di ibridi antropo-zoomorfi (le grottesche) che affascineranno artisti e committenti già lungo il Rinascimento, come negli stucchi dei pennacchi nella Camera del Camin nero, cornice degli affreschi di Dosso Dossi, nel Castello del Buonconsiglio.
Nella pittura trentina bisogna però attendere il Novecento perché il tema, attingendo spesso alle influenze europee, incontri l’interesse di artisti e committenti: Fortunato Depero (1892-1960), condividendo le teorie del Teatro Plastico di Gilbert Clavel realizza i famosi Balli Plastici e il suo Teatro Magico giungendo alla propria teorizzazione dell’Automa nel manifesto «Lo splendore geometrico e meccanico».
In tale direzione la Maschera, con la quale l’uomo - nel suo significato rituale - diventa altro da sé o, nel suo significato ludico carnevalesco o teatrale, finge nel divertimento di assumere tale diversa identità, viene superato da macchine androidi automatiche che simulano nel proprio aspetto e in alcune azioni l’identità umana.
Ma Depero dipinse anche Mascheroni, come quelli nella sala che prende il suo nome nel Palazzo della Provincia Autonoma di Trento in Piazza Dante (allora sede del Consiglio Provinciale) raffiguranti l’allegoria della risorse idroelettriche.
Guido Polo (1898- 1988) ha rappresentato in molte sue opere la figura del clown, dei pagliacci, di Pierrot: l’espressionismo austriaco, tedesco e nordico, da Schiele a Kokoschka, da Nolde a Munch diventa in lui un punto di riferimento nello scavo dell’animo umano, riducendo il volto ad una sorta di maschera mesta, privata di ogni speranza e di ogni sorriso vitale.
Tristezza e spleen baudelairiano che predilige le figure femminili, con mani nervose di matrice espressionista, che talora tengono in mano delle maschere neutre.
Clown e Pierrot, come ricordato, sono invece le maschere maschili predilette dall’artista, spettri ieratici portatori di messaggi ermetici e sibillini.
A quei Pierrot e, più in generali, all’ascendenza del belga James Ensor, si rifà Gino Castelli (1929) nella sua vasta produzione di maschere e mascherine: spesso proprio ai piedi del Crocifisso, le quali, come nell’ensoriano dipinto «Masks confronting death» si confrontano con la Morte, rappresentata come uno scheletro, allegorie di un’umanità col ghigno, che riappende quotidianamente il proprio Dio al palo, senza pietà, continuando a divertirsi, grottescamente, ai piedi del «povero Cristo», immagine del pittore, deriso, ignorato, sbeffeggiato, da un’umanità affarista, cinica, fatta di mercanti d’arte, approfittatori, meretrici, politici interessati, critici mercenari di cui si sente vittima predestinata: in una parola, «la trama dei reprobi», che si consuma tra miriadi di figure mascherate o di maschere direttamente appese alla croce. E il pittore, oltre che «povero Cristo» si raffigura spesso come «Pierrot poreto», condividendo la figura con Polo, Watteau e tanti altri.
Fra gli artisti trentini che hanno frequentato la raffigurazione della maschera troviamo Remo Wolf (1912-2009) attento, anche nel personalissimo segno xilografico, alla dimensione del grottesco (vedi molti ex-libris, le incisioni dedicate a VIllon, i Tarocchi, etc.) ma allo stesso tempo pittore di diversi oli a tema carnevalesco, clown o maschere neutre, allegorie di stati d’animo.
Con lui Mariano Fracalossi ( 1923-2004) che ha dedicato molte opere –sia pittoriche che incisorie- della sua raffinata e originale produzione alla raffigurazione dei teatrini, del mondo dei burattini e dei burattinai, regalandoci l’immagine di un Arlecchino stanco, poltrone, non intento alla sua irrefrenabile attività di saltimbanco ginnico.
In Perghem Gelmi ( 1911- 1992), ingegnere e pittore originale, legato al figurativo (primariamente) di stampo surrealista ed iperrealista, la maschera (come talora nel suo maestro Guido Polo o in Giuseppe Migneco o nel bellissimo quadro «Maschere» di Casorati di recente esposto al Mart di Rovereto) rientra, come inquieta presenza, nella possibilità di comunicare stati d’animo degli oggetti all’interno delle nature morte.
Possibilità che ritroviamo anche in Carlo Bonacina (1905-2001), pittore e incisore versatile e prolifico, presente in esposizione con una suggestiva natura morta con maschere.
Pietro Verdini (1936), vulcanico disegnatore e pittore originario toscano della Garfagnana, naturalizzato perginese da cinquant’anni, esprime nei suoi volti ieratici un eco delle maschere romaniche ed assiro babilonesi (di cui si sente discendente).
Nella tavola in mostra rappresenta un giovane travestito in occasione del Carnevale della Val dei Mocheni, la musiliana Valle incantata sul Fersina, sopra a Pergine.
La pittura di Marco Berlanda (1932) si ispira a sentimenti elementari, pulsionali, figure e paesaggi in lui rimandano all’antigrazioso; un naïfs di spessore, tra Rousseau il Doganiere e Pietro Ghizzardi, con un pizzico di Soutine.
Nei ritratti i volti sono spesso grotteschi, deformati, maschere d’espressione inquieta. In mostra troviamo invece maschere femminili carnevalizie, tema caro al pittore, molto legato al Carnevale di Venezia.
Lorenzo Menguzzato (1967), pittore, scultore, curatore del «Bosco dei poeti» di Dolcè, ideatore di Libri/Oggetto (con Luigi Serravalli e Alda Merini) e reduce dal recente «Dangelomelodies: Un libro, un tour, una mostra» assieme al famoso artista milanese Sergio Dangelo, è da sempre attratto dalla rappresentazione del volto umano, in una propria personale rivisitazione della sintesi deformante realizzata da Picasso e da Mirò: teste e visi che spesso si fanno maschere fantastiche, rituali o pierrottiane, abbozzate con gestualità fresca e rapida, su tele o fogli, su arazzi e stoffe, talora contornate da frasi poetiche.
In mostra una grande tela di volti anonimi e alcune sculture di varie dimensioni.
Paolo Tartarotti (1958) è un pittore affascinato dal forte espressionismo coloristico della pittura di impegno sociale di Renato Guttuso.
Il suo lavoro cromatico –negli ultimi anni parzialmente, ma non esclusivamente, informale- si sviluppa spesso seguendo un gioco dialettico espressionistico di colori contrapposti.
Una pittura libera da schematismi, ricca di simbologie arcaiche che spesso si fa tensione verso il sacro.
In mostra un «Medico della peste», maschera introdotta dal 1300 dai medici italiani con scopi profilattici (ben prima, quindi, della nascita della Commedia dell’arte), completata nel 1619 col vestito, i guanti, le scarpe e il cappello dal medico francese Charles de Lorme ai tempi di re Luigi XIII.
Oltre ai dipinti e alle sculture, sono esposti alcuni scatti della «dinastia» dei fotografi Rensi: Rodolfo, il fondatore, tra i grandi nomi della fotografia d’autore trentina del Novecento, Claudio, già fotografo dell’Ambasciata italiana a Bruxelles, fotografo d’arte e curatore di vari cataloghi di arte contemporanea, Matteo, fotografo del Corriere del Trentino, autore brillante di reportage fotografici (ricordiamo quello legato al Treno della Memoria o le foto di una rapina in diretta scattate nel 2015 a Trento).
A corollario delle opere, lo Studio accoglie alcune maschere fassane del Carnevale ladino, «facere» (da burt-brutto, da bel, da buffon) realizzate dagli studenti del Liceo artistico «Vittoria» di Trento della sezione Design del Legno e arredamento guidati dal prof. Gianluca Pasquali; di altra origine e natura, una Maschera da Krampus realizzata dal giovane scultore Luca Pojer: il Krampus è un diavolo travestito che accompagna, durante le feste natalizie, la figura di San Nicola da Bari nella tradizionale sfilata, essendo suo servo in quanto demone da lui sconfitto.
Una traduzione che dura da oltre cinque secoli nell’arco alpino, nell’area germanica e nei Balcani.