Importanza del progetto «In-Dipendenza» – Di Nadia Clementi
Ne parliamo con le psicologhe Silvia Quaranta e Beatrice Vervelacis, perché il progetto sta dando una risposta al problema del consumo di cannabis tra i giovani
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Il consumo di cannabis tra i giovani italiani rappresenta una crescente emergenza sociale e sanitaria.
I dati provenienti dall'indagine ESPAD Italia (2014-2021) sono allarmanti: il 25% degli studenti nella fascia d'età 15-19 anni ha fumato cannabis almeno una volta nell'ultimo anno, con una prevalenza maggiore tra i maschi (29%) rispetto alle femmine (22%).
Ancora più preoccupante è il fatto che circa 75.000 studenti in questa fascia d'età fumano cannabis abitualmente, ossia 10 o più volte al mese, esponendosi a un rischio concreto di sviluppare disturbi psichiatrici.
In questo contesto, il progetto «In-Dipendenza», sviluppato dall’Osservatorio sulle Dipendenze e sui disturbi psichici sotto soglia in collaborazione con l’ordine dei medici di Roma e Provincia, si configura come un intervento essenziale per contrastare il fenomeno delle dipendenze, sia comportamentali sia da sostanze psicoattive, con particolare riguardo al consumo di cannabis tra i giovani per prevenire le sue gravi conseguenze.
Le ricerche rilevano che nella cultura giovanile, il consumo di cannabinoidi viene spesso percepito con superficialità o addirittura normalizzato.
Tuttavia, l’uso frequente, soprattutto durante l’adolescenza, è associato a un aumento significativo del rischio di sviluppare disturbi psichiatrici come ansia, depressione e psicosi.
Questi rischi risultano particolarmente elevati in una fase della vita in cui il cervello è ancora in pieno sviluppo, rendendo i giovani particolarmente vulnerabili.
La cannabis, inoltre, è una sostanza che ha subito cambiamenti importanti negli anni.
La percentuale in peso di THC, principio attivo psicotropo contenuto in essa, presente nella cannabis di strada oggi è fino a dieci volte maggiore rispetto a quello degli anni ‘80, rendendo quindi la cannabis una droga pesante a tutti gli effetti.
Se la cannabis degli anni ‘80, infatti, conteneva circa il 3% di THC, ora la media è del 30%, questo significa che le conseguenze sul sistema nervoso centrale sono molto più pericolose e che crea molto più dipendenza.
Il progetto «In-Dipendenza» si propone di affrontare questo problema attraverso un'azione di prevenzione capillare e innovativa, che mira a mettere in luce i rischi legati all'uso di sostanze psicoattive e a fornire un'informazione corretta e scientificamente fondata.
L'iniziativa si concretizza in una serie di incontri educativi rivolti a studenti, genitori e insegnanti nelle scuole e nei centri sportivi con l'obiettivo di contrastare la disinformazione e promuovere stili di vita sani.
Per approfondire l'importanza di questo progetto, abbiamo intervistato due delle professioniste del team dell'Osservatorio coinvolte in questa importante iniziativa: la psicologa clinica Silvia Quaranta, e la psicologa Beatrice Vervelacis,
La dottoressa Silvia Quaranta.
Quali sono le sostanze psicotrope più diffuse oltre alla cannabis, e quali gruppi di giovani risultano maggiormente coinvolti nel loro consumo, secondo la vostra indagine?
≪Dunque, innanzitutto è necessario definire cosa siano le sostanze psicotrope. Queste sono note anche come sostanze psicoattive e sono composti chimici che agiscono sul nostro sistema nervoso centrale, modificandone lo stato mentale, l'umore, la percezione e il comportamento dell'individuo. Il loro consumo può portare a cambiamenti temporanei o duraturi nelle funzioni cognitive e psichiche.
«Nei giovani e giovanissimi, tra le sostanze psicotrope più diffuse, oltre alla cannabis, troviamo senza dubbio il caffè (caffeina), l'alcol e i prodotti a base di nicotina. Un fenomeno esploso recentemente è l 'epidemia di cocaina crack, ormai diffusissima in tutte le piazze di Roma. è una sostanza che purtroppo è erroneamente associata alla classica cocaina in polvere (cocaina cloridrato), ma che ha in realtà effetti 100 volte più potenti.
«Lo studio ESPAD e la nostra esperienza nelle scuole ci dicono che circa uno studente su tre ha consumato cannabis nell'ultimo anno e che il primo utilizzo sia avvenuto molto precocemente, anche a 11-12 anni. Ad indurre questo comportamento sono le componenti biologiche e sociali tipiche dell’adolescenza che possono influire fortemente sulle scelte del ragazzo: il cervello in sviluppo è particolarmente vulnerabile agli effetti delle sostanze psicotrope ed è contemporaneamente molto attratto dal rischio, dalla ricerca della novità e dal fare esperienze.
«Dal punto di vista sociale, la pressione dei pari, la disponibilità delle sostanze e la percezione di rischio ridotta, così come la familiarità con la sostanza, sono tutti fattori che possono concorrere al consumo. «Abbiamo notato che non ci sono grandi differenze nell'uso di sostanze psicotrope tra giovani di diverse estrazioni sociali, soprattutto perché ormai le sostanze, inclusa la cocaina, sono diventate molto più economiche e quindi accessibili per i ragazzi.≫
Qual è l'importanza della prevenzione delle dipendenze nelle scuole e quali sono i segnali precoci che insegnanti e genitori dovrebbero riconoscere?
≪La prevenzione delle dipendenze nelle scuole è fondamentale perché consente di diffondere consapevolezza fin dalla giovane età, evitando l'adozione di comportamenti a rischio. Educare i ragazzi sin da subito significa aiutarli a sviluppare uno stile di vita sano e prepararli a diventare adulti consapevoli e responsabili. Non possiamo negare che i giovani, prima o poi, si troveranno a confrontarsi con le sostanze, ma se informati correttamente, saranno più capaci di fare scelte autonome e ponderate, senza essere influenzati da pressioni esterne.
«L'informazione li rende liberi di decidere con la propria testa, anziché seguire ciecamente comportamenti dannosi. Per quanto riguarda i segnali precoci, è importante che insegnanti e genitori siano in grado di riconoscere alcuni cambiamenti nel comportamento e nelle abitudini dei ragazzi, che potrebbero indicare un rischio legato all'uso di sostanze: cambiamenti improvvisi di umore (sbalzi d'umore frequenti o comportamenti più irritabili o aggressivi); declino nel rendimento scolastico; cambiamenti nelle abitudini di sonno o alimentazione; isolamento sociale (ritiro o evitamento di relazioni con amici e familiari); aspetto trascurato; richieste frequenti di denaro, senza una spiegazione chiara, o la scomparsa di oggetti di valore da casa; disinteresse generalizzato verso attività che prima entusiasmavano il ragazzo, come sport, hobby o amicizie; distraibilità costante, accompagnata dalla difficoltà a mantenere l'attenzione o a rimanere concentrati su compiti semplici o conversazioni; difficoltà a tenere il filo del discorso e vuoti di memoria. Di fronte a questi segnali, è fondamentale non creare un clima di attacco o giudizio.
«Affrontare il problema in modo costruttivo è la chiave: è importante non minimizzare o ignorare il problema, ma esprimere la propria preoccupazione in modo aperto e comprensivo, senza usare etichette stigmatizzanti o umilianti come "sei un drogato". Questi termini non fanno altro che allontanare il giovane, aumentando il senso di isolamento.
«È essenziale ascoltare attivamente il ragazzo, dimostrando fiducia nelle sue capacità di affrontare la situazione. Gli adulti devono essere informati e basarsi su fonti scientifiche e affidabili per comprendere il fenomeno delle dipendenze. In caso di necessità, non bisogna esitare a comunicare con il ragazzo e sollecitare l’interazione fra gli adulti di riferimento, avvalendosi anche di professionisti specializzati, come medici, psicologi o operatori sanitari, che possano offrire supporto sia al giovane che alla famiglia.»
Può spiegarci in che modo la metodologia della «peer-education» (educazione tra pari) contribuisce alla prevenzione delle dipendenze tra i giovani?
«La peer-education o educazione tra pari è una metodologia educativa in cui i giovani stessi assumono il ruolo di educatori verso i loro coetanei, promuovendo un apprendimento reciproco e un dialogo tra pari. Questo approccio si rivela particolarmente efficace nella prevenzione delle dipendenze, poiché tiene conto delle dinamiche sociali e relazionali tipiche dei giovani.
«Uno dei punti centrali di questa metodologia è che il ragazzo si trova al centro del processo educativo, sentendosi più autonomo e libero di esprimersi e porre domande senza timore di giudizi. Questo senso di libertà favorisce un coinvolgimento attivo e personale, rendendo il messaggio educativo più significativo. Inoltre, la peer-education stimola l'autostima e incoraggia la cooperazione tra i giovani, rafforzando la loro capacità di prendere decisioni responsabili e di confrontarsi con i pari in modo positivo.
«Attraverso il confronto aperto e il lavoro di gruppo, si promuove un clima di rispetto reciproco, che contribuisce anche alla prevenzione di atti di bullismo, creando spazi in cui tutti si sentono ascoltati e rispettati.
«Con la peer education, il messaggio comunicato tra pari risulta più efficace rispetto a quello trasmesso da un adulto. Infatti, i giovani tendono a interiorizzare meglio informazioni provenienti da compagni di età simile, percependo tali indicazioni come meno autoritarie e più vicine alla loro realtà. Quando un ragazzo riceve un'informazione scientifica o un consiglio da un suo coetaneo, è più incline ad accoglierli in quanto si identifica con l'altro, piuttosto che a percepirli come una "regole calate dall'alto".
«Da menzionare è anche il contributo della peer education nella promozione e nello sviluppo di competenze sociali e relazionali, come l'empatia e l'ascolto attivo, elementi fondamentali per creare un ambiente di supporto che riduce i fattori di rischio legati alle dipendenze. In questo modo, la peer-education non si limita alla semplice trasmissione di informazioni, ma favorisce anche una rete di sostegno tra pari, tale che possa supportare le sfide evolutive che l’adolescente deve affrontare.»
In che modo il progetto coinvolge le famiglie e gli altri adulti di riferimento nel processo di prevenzione?
«Il progetto coinvolge attivamente le famiglie e gli altri adulti di riferimento nel processo di prevenzione, poiché riconosciamo l'importanza di un approccio integrato e condiviso. Sappiamo che i ragazzi trascorrono gran parte del loro tempo a scuola, e gli adulti di riferimento, come insegnanti, genitori e allenatori sportivi, svolgono un ruolo cruciale nella loro crescita.
«Per questo motivo, offriamo corsi di formazione-informazione pomeridiani, rivolti proprio a queste figure, durante i quali forniamo le stesse informazioni scientifiche che condividiamo con i giovani. Spesso, infatti, gli adulti non sono sufficientemente informati sulle tematiche legate all'uso di sostanze, e si ritrovano impreparati a rispondere alle domande dei ragazzi o a gestire situazioni che richiedono attenzione o intervento.
«Questi incontri rappresentano un momento di condivisione e chiarimento, dove accogliamo le domande e cerchiamo di sciogliere i dubbi degli adulti, fornendo loro strategie pratiche per affrontare con serenità e competenza il rapporto con i giovani. L'obiettivo è anche quello di tranquillizzare le paure che spesso emergono di fronte a temi delicati come le dipendenze, aiutando i genitori e gli insegnanti a sentirsi più sicuri nel loro ruolo.
«Il coinvolgimento è aperto a tutti i genitori e insegnanti, anche a coloro che non sono direttamente coinvolti nel progetto o che non insegnano nelle classi dei peer educator. Allo stesso modo, ci rivolgiamo anche al personale scolastico che ha un contatto costante e diretto con gli alunni, come assistenti o collaboratori, e che spesso è un punto di riferimento importante per i ragazzi.
«Quando operiamo in ambito sportivo, ad esempio all'interno di circoli o associazioni sportive, coinvolgiamo anche gli allenatori, figure di fiducia che condividono momenti importanti della vita dei ragazzi e possono avere un impatto significativo nel rafforzare il messaggio di prevenzione. Tutto questo avviene in un clima di accoglienza e non giudizio, con l'obiettivo di creare una comunità consapevole e coesa, in cui tutti gli adulti che ruotano attorno ai giovani possano sentirsi parte attiva nella loro educazione e crescita.»
Come vengono selezionati e formati i giovani peer educators, e quali competenze acquisiscono attraverso questo ruolo?
«I giovani peer educators vengono scelti principalmente su base volontaria durante una plenaria organizzata all’inizio dell’anno, che coinvolge tutti gli studenti di una classe. In questo primo incontro introduttivo, presentiamo il progetto, le attività e iniziamo un dialogo con loro sui vari aspetti legati alle sostanze e alle dipendenze comportamentali. Al termine della riunione, chi è interessato si propone autonomamente come peer educator.
«Tuttavia, se notiamo particolari bisogni o segnali di rischio in alcuni studenti, siamo noi stessi a invitarli a far parte del gruppo. La selezione non si basa necessariamente sul rendimento scolastico o sui "più bravi", ma spesso ci rivolgiamo a coloro che, per esperienza personale, sono già considerati leader su questi temi, guadagnandosi la fiducia dei coetanei. Coinvolgere chi ha una maggiore influenza all'interno del gruppo consente di trasformare questa leadership in una risorsa positiva, capace di diffondersi più facilmente.
«Una volta scelti, i peer educators partecipano a laboratori formativi, dove sviluppano sia competenze tecniche legate al tema delle sostanze, sia abilità utili nella vita quotidiana. Non si limitano a comprendere i pericoli legati alle dipendenze, ma apprendono anche comportamenti sani e strategie preventive, che possono adottare personalmente o proporre ai propri coetanei come alternative ai comportamenti rischiosi.
«Questo percorso include anche l'apprendimento della gestione delle dinamiche di gruppo, l'impegno attivo e il supporto reciproco, aspetti essenziali nel loro ruolo di educatori tra pari. Inoltre, forniamo loro strumenti per individuare segnali di disagio, sia in sé stessi che negli altri.
«Questo permette di identificare precocemente situazioni potenzialmente rischiose all'interno del loro cerchio di amici o compagni, favorendo un intervento tempestivo e appropriato per prevenire comportamenti problematici.
«Attraverso questa esperienza, i peer educators sviluppano competenze trasversali come la comunicazione efficace, l’ascolto attivo, l’empatia e una leadership positiva. Queste abilità non solo li rendono più capaci nel loro ruolo, ma contribuiscono alla loro crescita personale, permettendo loro di costruire relazioni più solide e costruttive con i coetanei.»
La dottoressa Beatrice Vervelacis.
Quali risultati avete riscontrato fino ad ora attraverso l'implementazione di questo progetto nelle scuole di Roma?
«Portiamo avanti il progetto In-dipendenza da circa due anni e abbiamo raggiunto più di dieci scuole e cinque centri sportivi, per un totale di circa 2000 giovani dai 12 ai 18 anni. Il risultato, per noi più importante, che stiamo ottenendo, è sicuramente l’ampio coinvolgimento da tutte le parti: genitori, insegnanti ma soprattutto da parte degli studenti, che si mostrano molto partecipativi e interessati.
«Non è facile al giorno d’oggi entrare in una classe di adolescenti a spiegare come l’alcol e le canne siano pericolosi per la loro salute, quando la moda e l’opinione pubblica hanno preso un’altra direzione, ma appena si supera il primo scoglio di “diffidenza”, sono i primi a volersi mettere in gioco, a capire il nostro intento, a voler imparare cose nuove, a raccontarci che effettivamente quello di cui noi parliamo è vero perché lo riscontrano in sé stessi o in loro amici, e così inizia a crearsi un rapporto di fiducia e di scambio. Gli studenti ci hanno mostrato come siano i primi a voler parlare di dipendenze e salute mentale, perché molti di loro vivono situazioni difficili e si sentono soli nell’affrontarle, ed è proprio per questo, infatti, che abbiamo ricevuto molte richieste di aiuto da parte loro negli anni.
«La relazione che riusciamo a creare con gli studenti è, infatti, uno dei traguardi principali perché ci permette di entrare nel loro mondo e farci percepire credibili in ciò che diciamo. In un’occasione di un evento in una scuola dove abbiamo implementato il progetto l’anno scorso, alcuni dei nostri studenti ci hanno presentato dei loro amici esterni alla scuola, i quali erano a conoscenza del progetto e di tutti i temi che abbiamo affrontato in classe, poiché gli studenti raccontavano tutto ai loro amici dopo i laboratori insieme.
«Questo ci mostra come la peer education sia efficace ed è per noi un riscontro di come il progetto vada oltre le mura scolastiche e rappresenti un'occasione di crescita personale e collettiva. Riscontriamo il loro coinvolgimento e interesse anche durante la plenaria finale, dove gli studenti mostrano i lavori che hanno creato durante l’anno, presentazioni, video, sculture, disegni ecc., e sono entusiasti e orgogliosi di mostrare agli altri le proprie creazioni, fatte con molto impegno nonostante fosse un compito “extra-scolastico” e senza voto.
«Il nostro progetto, inoltre, prevede la somministrazione di un questionario pre-intervento e post-intervento sia per valutare come cambiano le conoscenze sul tema delle dipendenze, sia la loro opinione a riguardo e i risultati che stiamo ottenendo sono incoraggianti.»
In che misura il contesto socio-culturale incide sulla diffusione delle dipendenze tra i giovani, e come il progetto si adatta a diverse realtà?
«Le scuole in cui implementiamo il progetto appartengono a contesti socio-culturali diversi e si trovano in zone di Roma differenti, dalla periferia al centro. L’andamento di diffusione delle dipendenze che riscontriamo è simile, soprattutto quando si parla di adolescenti non esiste una netta differenza tra classi sociali. Certo, possono variare alcuni fattori di rischio, ma i bisogni dell’adolescente e le sue caratteristiche sono indipendenti dalla classe sociale di appartenenza.
«Parliamo dunque di predisposizione genetica alle dipendenze, di temperamento, del bisogno di validità sociale, di appartenenza, che vanno oltre il ceto sociale, ma che invece accomunano tutti i ragazzi e le ragazze. Se pensiamo, ad esempio, alla dipendenza principale diffusa ad oggi tra i giovani, e non solo, ovvero quella dello smartphone e social media, capiamo che non è un discorso di contesto socio-culturale, in quanto tutti possiedono un telefono, ma piuttosto di educazione al loro utilizzo.
«E proprio con questo obiettivo, offriamo il nostro servizio in modo totalmente gratuito alle scuole, in modo che tutti abbiano le stesse possibilità di educazione, sensibilizzazione e formazione.»
Come possiamo migliorare la collaborazione tra scuole, famiglie e comunità per creare un ambiente di supporto contro le dipendenze?
«Creare una rete sinergica di supporto contro le dipendenze non è semplice, spesso le diverse parti coinvolte hanno difficoltà nel collaborare perché analizzano le situazioni da punti di vista diversi e entrano in azione meccanismi psicologici differenti che filtrano la realtà, come per esempio genitori e insegnanti che a volte si scontrano quando l’obiettivo comune è il bene del ragazzo o della ragazza in questione. Bisogna promuovere la comunicazione e l’idea che siamo rete sociale e che ci si possa aiutare a vicenda.
«Non ci deve essere vergogna nel chiedere aiuto, paura o bisogno di nascondere i problemi, ma sinergia. Genitori, insegnanti o allenatori sportivi rappresentano gli adulti di riferimento degli adolescenti e quando si colgono i primi segnali di qualcosa che non sta andando proprio come dovrebbe, è il confrontarsi per capire come agire che fa la differenza nella vita di quella persona, non minimizzare o nascondere il problema per paura di giudizi o di quello che può succedere se lo si affronta.
«Per questo motivo, il nostro progetto propone incontri di formazione e informazione con genitori e insegnanti insieme, ovvero momenti di confronto che favoriscono la riflessione critica sull’adolescenza e le sue criticità, sulle dipendenze, sugli stili di vita sani sia da un punto di vista fisico che psicologico e su a chi rivolgersi in caso di necessità. è di fondamentale importanza coinvolgere in modo attivo insegnanti e genitori per fornire loro conoscenze e strumenti utili per affrontare situazioni critiche e poter aiutare gli adolescenti, superando la stigmatizzazione e promuovendo l’ascolto non giudicante e la possibilità di chiedere aiuto a professionisti quando ce n’è bisogno, ricordandoci che siamo proprio noi adulti a dare l’esempio e quindi se siamo noi i primi a mostrare come non ci sia niente di male ad affidarci a professionisti in momenti di difficoltà, anche gli adolescenti si sentiranno più liberi e ci sarà più possibilità di aiutare i ragazzi dai primi segnali precoci, evitando la cronicizzazione delle diverse problematiche.
«Dall’altra parte abbiamo sicuramente bisogno dell’aiuto delle Istituzioni sia nel garantire più progetti di educazione alle dipendenze e alla salute mentale, in modo da realizzare campagne efficaci di prevenzione primaria, sia nello sponsorizzare e far conoscere i numerosi servizi pubblici e privati che la comunità può offrire.»
Quali strumenti o risorse ritiene più efficaci per aiutare gli studenti a sviluppare una consapevolezza critica riguardo alle dipendenze, a partire dalle sfide che si incontrano durante il confronto con gli studenti?
«Le sfide principali che si affrontano sono la diffidenza iniziale e la disinformazione. Per quanto riguarda la diffidenza, è un aspetto abbastanza prevedibile lavorando con adolescenti, i quali sono conosciuti per il fenomeno psicologico della “reattanza”, ovvero la tendenza ad opporsi e reagire in modo impulsivo a qualsiasi persona che loro percepiscono come controllante o che cerca di imporre qualcosa.
«Il miglior strumento in questo senso, è l’atteggiamento non giudicante, spiegando che il nostro obiettivo è fornire conoscenze scientifiche e non giudizi morali, che sono assolutamente liberi di scegliere con la loro testa, ma che le scelte si compiono nel momento in cui si ha cognizione di quello che si sceglie e delle conseguenze, se no è come decidere che strada imboccare con una benda sugli occhi, ovvero a caso.
«Accogliamo quando ci raccontano di esperienze personali con sostanze, ad esempio, e lo prendiamo come spunto per ragionare in modo critico tutti insieme cercando di analizzare le diverse variabili, non ci soffermiamo sul fatto che è ha fatto qualcosa di sbagliato.
«La disinformazione, invece, è un aspetto più complesso in quanto ciò che noi raccontiamo agli studenti è controcorrente rispetto a ciò che leggono sui social o che sentono dai loro cantanti preferiti. Per questo prevediamo una serie di laboratori durante l’anno e non singoli incontri, perché è come se fosse un percorso dove ogni volta si aggiunge un tassello in più per poi arrivare al quadro completo.
«Spiegando agli adolescenti il perché delle cose, e non dicendo solamente “è sbagliato”, permette a loro di ragionare, capire e interiorizzare. Non ci si può aspettare che fin da subito siano aperti verso nuove informazioni e verso una nuova prospettiva su questo tema, ma passo per passo si accorgono come, in fondo, le conseguenze della cannabis sulla salute mentale che spieghiamo noi, sono molto più credibili di quello che fa vedere un cantante sulle storie di instagram, perché nella realtà ci sono ragazzi e ragazze che quando fumano hanno attacchi di panico, paranoie o ansia, mentre sui social nessuno. In questo modo scoprono anche che non sono loro quelli sbagliati ad aver avuto esperienze brutte, quando tutti dicono che fumarsi le canne è bello e ti fa rilassare, ma è la narrazione dietro questo tema a essere errata.≫
Quali sono le prospettive future per il progetto e come si prevede di ampliarlo o potenziarlo nei prossimi anni?
«Visto i risultati incoraggianti che stiamo ottenendo, il nostro obiettivo è sicuramente quello di raggiungere più scuole e più centri sportivi per arrivare a più adolescenti possibile.
«Ovviamente il primo passo è quello di ampliare il gruppo di lavoro, infatti stiamo procedendo con la formazione specifica sulle dipendenze, sia comportamentali che da sostanze, sull’adolescenza e sulla peer education di nuovi professionisti del settore, come psicologi, psichiatri ecc, in modo da avere più forza di lavoro preparata e poter implementare il progetto in modo più sostanziale.
«Un altro passaggio importante è anche quello di trovare più sostenitori, essendo, come ho già detto, un progetto offerto gratuitamente alle scuole e ai circoli sportivi. L’obiettivo finale è quello di standardizzare il metodo che utilizziamo per rendere il progetto applicabile su scala nazionale, proprio lavorando in questa direzione, stiamo scrivendo un manuale pratico-teorico su come applicare la metodologia della peer education per interventi di prevenzione primaria per le dipendenze negli adolescenti, che mira a essere uno strumento pratico di formazione per gli addetti al lavoro e a illustrare quelle che sono le competenze tecniche e relazionali necessarie alla riuscita del progetto.»
Nadia Clementi - [email protected]
Contatti: https://in-dipendenza.it/ - https://www.osservatoriodipendenze.com/
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