«Giustizia e discriminazione etnica» – Di Luciana Grillo
In un Festival che punta su Lavoro e Tecnologia, questo incontro sembra voler suggerire che il lavoro è un diritto, un mezzo di riscatto, una fonte di dignità
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Francesca Paci è una giornalista che si occupa da tempo di Medio Oriente e immigrazione.
Nel dare inizio all’incontro, ha sottolineato che c’è una data che, in tutto il mondo – soprattutto in quello occidentale – ha segnato il cambio di passo: 11 settembre 2001.
In Italia, che era un Paese abbastanza giovane e con immigrazione contenuta, l’attacco alle Torri Gemelle ha scatenato paure e sospetti, provocando anche controlli insistenti, in particolare negli ambienti frequentati da musulmani e nelle moschee.
È una paura irrazionale, l’ALTRO non è necessariamente lontano da noi, può esserci anche vicino, ma sono la cultura, la religione, la civiltà che rappresenta a farlo ritenere potenzialmente pericoloso.
La paura dell’Islam autorizza quasi un linguaggio violento, espressione di razzismo e xenofobia; la religione islamica viene percepita come una minaccia.
Il passo successivo trasforma gli atteggiamenti diffidenti e il linguaggio oltraggioso in discriminazione vera e propria, fino al crimine.
Si diffondono i reati d’odio che crescono in maniera esponenziale più al nord che al sud, dove – nonostante i ben noti problemi – esiste una sorta di rassegnata elasticità. La crisi economica scoppiata nel 2007 ha acuito l’intolleranza, è cresciuta la paura dell’invasione, gli extracomunitari sono diventati capri espiatori.
Paci non omette la responsabilità dei media, che hanno cavalcato le paure e diffuso senza cautele le notizie anti-immigrati. E aggiunge che, nelle case circondariali, gli stranieri sono solo il 30% e subiscono una carcerazione preventiva più lunga rispetto agli italiani.
La cosa preoccupante oggi, 2 giugno, è che il neoministro dell’Interno, dopo aver accettato l’incarico, ha affermato che il suo primo impegno sarà quello di ridurre le spese per i migranti.
Tutto ciò che è accaduto in Italia, si può tranquillamente estendere ai Paesi europei, in particolare a quelli colpiti da atti terroristici, e agli U.S.A., dove gli attori di origine mediorientale hanno protestato perché utilizzati prevalentemente per ruoli di killer.
Degli U.S.A., della compresenza di ispanici e neri, di statistiche secondo cui gli ispanici subiscono detenzioni più lunghe rispetto ai bianchi, ha parlato il prof. Imran Rasul che insegna Economia all’University College di Londra. Ha sostenuto che incarcerare un giovane fra i 20 e i 34 anni per lunghi periodi (in media 41 mesi i bianchi, 42 gli ispanici, 88 i neri) vuol dire incidere non soltanto sulla vita del detenuto, ma sulla sua famiglia e quindi sulla società in cui ci sarà un lavoratore in meno e tante spese in più a carico della comunità.
È provato che a parità di crimine, di età, di stato civile, di persone a carico, di condizione economico-sociale, ma di diversa etnia, un nero e un ispanico sono condannati a 4 mesi in più di detenzione rispetto a un bianco.
Dopo l’11 settembre, l’animosità generale è aumentata e si è rivolta soprattutto contro gli islamici; sono state emanate leggi che puniscono crimini religiosi, si è creato un circolo vizioso che comprende politiche migratorie e sicurezza.
I giudici devono seguire, nel predisporre la sentenza, alcune linee guida, conoscere la fedina penale dell’indagato, considerare la gravità del crimine… ma esiste un ampio margine di discrezionalità.
E nelle regioni dove esiste una componente di giudici ispanici, le condanne sono meno pesanti, dunque l’etnia di un giudice può avere una valenza nel giudicare un individuo.
Serve forse un’automatizzazione per eliminare la parzialità? E chi calibra un eventuale sistema automatico?
Rasul ha accennato anche al sistema giudiziario americano, per il quale ci sono sistemi elettorali o nomine a vita effettuate dal Presidente. E a questo punto ci troviamo davanti al cane che si morde la coda: dove va a finire una necessaria imparzialità?
In un Festival che punta su Lavoro e Tecnologia, questo incontro «Giustizia e Discriminazione» sembra voler suggerire che il lavoro è un diritto, un mezzo di riscatto, una fonte di dignità e che la tecnologia – messa al servizio delle necessità – potrebbe rendere più giusta la Giustizia.
Il pubblico numeroso ha seguito con grande attenzione e, nonostante fosse arrivata l’ora di pranzo, è rimasto ad ascoltare, a guardare le slides e forse a pensare che non sempre la legge è uguale per tutti, soprattutto se hai la pelle di un altro colore.
Luciana Grillo – [email protected]