Intervista a Gian Marco Montesano – Di Fabio Cavallucci

Galleria Civica di Trento - Scuola di Pittura Intervista di Fabio Cavallucci «Disturbo artistico di massa»

Gian Macro Montesano è un personaggio che varrebbe la pena ascoltare per ore mentre parla. Sarà lui a dirigere la «Scuola di pittura» che la Galleria Civica ha deciso di allestire in questi mesi estivi per incrementare le passioni e le professioni di un'arte che rappresenta il «figurativo» del tempo che vive. Montesano sarà presente all'inaugurazione di venerdì 6 giugno e certamente prenderà la parola. Ansate ad ascoltarlo, perché non può essere interpretato da un giornalista. Va ascoltato di persona, perché vi spiegherà che la pittura così come intesa dai Sacri testi, oggi altro non è che «Disturbo artistico di massa».
Per questo abbiamo deciso di parlare di lui tramite un'intervista che gli ha fatto per noi il direttore della galleria Civica Fabio Cavallucci.

Fabio Cavallucci: Cosa ha da dire ancora la pittura nel 2007?
Gian Marco Montesano: La pittura storicamente intesa (non mi riferisco tanto ai quadri, quanto alla mentalità), la pittura umanistica, secondo me non solo non ha più nulla da dire, ma è morta. E il morto, come si sa, non parla. Però si lascia esaminare, si lascia sottoporre ad autopsia. Qualcuno potrebbe obiettare che il mercato, i musei, ecc. sostengono il contrario. Certo, è ovvio, il valore della pittura si prolunga per forza di inerzia. Ma per quel che è della produzione di pensiero attuale, la pittura è fuori gioco. Nei musei di scienze naturali troviamo gli scheletri dei dinosauri, li ammiriamo, ma non operiamo tenendo conto del dinosauro. La pittura non è morta per una questione di moda, di gusto, o chissà per quale altra strana ragione, ma perché le è stato tolto il terreno sotto i piedi: è venuto meno tutto quel mondo, tutto il sistema di valori che la esprimeva, che la giustificava. E che mondo era? Era il mondo umanistico, cioè il mondo dei grandi postulati, dei grandi progetti, dell'utopia, che genera le avanguardie - sia politiche che artistiche - della posizione critica, estetica, politica, sociale. Nel mondo, nella società contemporanea, di questi riferimenti non vi è più traccia, tutto è cambiato.

Se l'umanesimo è finito, cosa succederà dopo?
A livello artistico oggi, o per meglio dire, da venti anni a questa parte, si parla di post-human. Questo perché evidentemente si registra la fine del mondo umanistico, umano, qualcuno aveva detto "troppo umano", e nel contempo l'attesa di un mondo che deve ancora venire. Ecco la grande Babele dei linguaggi, la mancanza di riferimenti certi. Quando un pensiero complessivo decade, giace inutilizzabile, e qualcosa di nuovo, veramente formato ancora non si manifesta, in questo interregno, nel vicariato, nel momento di transizione, ci sono comunque molte diverse espressioni individuali. Pur ritenendo inutile leggere i fondi del caffé per scoprire cosa sarà il mondo che verrà, una certezza esiste: non sarà mai come il mondo che ci siamo lasciati alle spalle; non si più pensare al ritorno, per esempio, delle vecchie utopie politiche, dei grandi postulati che organizzano il mondo. Tutti i riferimenti umanistici sono fuori gioco. L'arte, sul versante delle discipline "plastiche" - come le si definiva una volta -, la quale si esprimeva con la pittura, ha iniziato a decadere con la fine della modernità, con la fine dell'Ottocento; ha cominciato ad uscire dalla cornice, ad integrare materiali eterogenei, e dunque non è più quella comunemente intesa nel vecchio mondo umanistico. Poi, finita la modernità, c'è la postmodernità, e oggi siamo ben oltre la classica definizione di postmoderno che fu, perché postmoderno già non è più un referente saldo sul quale fare affidamento, ma è una delle tante cose che "galleggiano" in mezzo alle altre.

Allora perché continui a dipingere, fondi un'accademia di pittura, e ci sono ancora molti giovani che dipingono… come si giustifica questa inerzia della pittura?
Potrei avere una risposta rapidissima ed esaustiva: so benissimo che il mondo si colloca ormai oltre il postmoderno, ma da buon reazionario mi fermo sui miei godimenti, sui miei piaceri. Li conservo finché durano. Temo però che questa risposta non sia sufficiente, perché non lo è neppure per me, e in realtà non si tratta di questo. Purtroppo so che la risposta del reazionario sarà sufficiente per tante, troppe persone. Pazienza. Se fosse vero che sono un reazionario, reagirei a qualcosa che ho analizzato bene: ho fatto una ricognizione del mondo, sono perfettamente a conoscenza di quello che succede, ma con un atto di volontà lucida e deliberata decido di reagire. Ti dirò, questa è una classica posizione da grande artista, da non confondere con le posizioni sclerotiche di quanti continuano a riferirsi a valori, a modelli che tali non sono più per nessuno. Ecco perché, e si accaniscono contro l'ultima contemporaneità; ne è un esempio l'odio di alcuni nei confronti di Cattelan.

Possiamo fare qualche nome di questi reazionari autentici che hanno capito come va il mondo ma dicono "io me ne frego"?
È difficile trovare un'artista che si serva attualmente della pittura con la netta consapevolezza di tutto quello che stiamo dicendo e che si ritenga l'ultimo testimone di un mondo morto, assumendo una posizione eroica, straordinaria. Devo dire che attualmente di queste posizioni non ne vedo.

Nemmeno per esempio Clemente, Cucchi, De Maria?
Per quanto riguarda Clemente, non ho gli strumenti di analisi sufficienti per esprimermi; ma temo che gli altri due siano ancora convinti dei valori umanistici della pittura. Infatti i loro riferimenti sono tutti interni alla storia dell'arte; la quale non ha più luogo d'essere, se non come il dinosauro, ma operativamente non serve più a nessuno, non interessa più a nessun giovane che oggi opera nella moltitudine. Questo problema è delicatissimo, è come una partita a scacchi; sembra quasi che aprendo un'accademia di pittura non si abbiano che due mosse a disposizione: asserire che si compie un'operazione paradossale, ultra-postmoderna, cioè fondata sull'ironia e l'autoironia che distruggono l'aura seriosa dell'artista, oppure dichiararsi eroicamente reazionari, affermare di aver capito tutto e proprio per questo decidere di suicidarsi. È evidente che se dichiariamo l'accademia di pittura come paradosso e come ironia oppure come ultimo grido reazionario, evitiamo lo scacco matto, ma non ci facciamo molti amici. Però in definitiva sono due mosse povere, si esauriscono in sé. In realtà c'è una terza mossa che è possibile fare, complicatissima da spiegare, che consiste nel riuscire almeno a far intuire che si possono ancora usare gli strumenti della pittura per fare un qualcosa che pittura, così come nel vecchio mondo la si intendeva, non è più.

E quindi cos'è, cosa può essere?
Occorre secondo me - è soltanto un'ipotesi, una mossa complicata - partire da alcuni presupposti: capire che già il Novecento, cioè le avanguardie, l'umanesimo morente che esprimeva le ultime due grandi utopie politiche dell'occidente - le quali poi faranno la fine orrenda che hanno fatto - era ancora carico di volontà critica del mondo, voleva rifare l'arte, ricostruirla, prefigurava il nuovo senza però produrre la fine della cultura umanistica. Riuscirono a produrre soltanto Picasso, la figura dominante che informa di sé l'ultimo bagliore di quella cultura. Però nel Novecento si sono prodotti i due fenomeni che già indicavano la necessità di andare oltre, di abbandonare i vecchi riferimenti, fossero pure d'avanguardia, per andare altrove, in un non-luogo che non conosciamo. Uno è Walt Disney, una figura artistica certamente non meno nota di Picasso, tutt'altro. E poi colui che sposta tutto il problema nella terra di nessuno: Andy Warhol.

E Duchamp?
Duchamp, in fondo, appartiene ancora al concetto di avanguardia, di volontà critica, di sensatezza che mostra l'insensatezza dei vecchi postulati da rinnovare, al fine di rendere estetico ciò che non lo era. Con Duchamp siamo comunque di fronte alla figura del vecchio mondo - certo la più estrema, più alta, l'ultima. Ma si tratta sempre del vecchio concetto umanistico; con lui siamo addirittura al taumaturgo, cioè l'artista talmente importante che basta il suo sguardo e il suo tocco per resuscitare gli oggetti a nuova vita estetica. Con Andy Wahrol assistiamo alla distruzione dell'idea dell'artista, della creazione. Benché sia lontanissimo da Picasso, e più vicino alle problematiche attuali, sento di dover collocare Duchamp tra ciò che è morto.
Ma stavamo parlando di pittura, e credo di dover chiudere i conti con Picasso. Oggi egli è l'artista i cui postulati sono i meno praticati al mondo; è l'artista più inutile che esista oggi. Inutile a chi? Non alle forze inerziali del mercato, è ovvio. ma ai produttori di pensiero, a tutti coloro che hanno vent'anni e che vivono nella moltitudine del mondo. Ditemi se aprendo una rivista specializzata trovate un artista che dimostri di avere in memoria Picasso. Picasso invece lo troviamo in tutti gli artisti di provincia, i dilettanti, che sono "finalmente" arrivati al moderno.
Andy Wahrol è presente come concetto. Piuttosto che la sua opera, è la sua posizione rispetto all'arte e all'artista che è universale. Innanzitutto i suoi riferimenti non sono più la storia dell'arte. Il colpo di grazia a tutta la cultura precedente Warhol lo dà quando dichiara che il suo desiderio ultimo è quello di diventare macchina, di essere un obiettivo fotografico.
Le macchine non si oppongono a nulla, non criticano nulla. È evidente il concetto di cyborg, al di là della letteratura, è rimasto sempre aperto, perché è un processo in divenire in questa fase post-umana. Siamo in una relazione sempre più stretta con le nostre macchine e loro con noi, la situazione in atto che modifica costantemente lo stato precedente delle cose, la sensibilità umana e di funzione delle macchine. Arrivando a sentire fortemente se stessi come macchine e amandole per ciò che sono - non tanto per ciò che fanno, sarebbe troppo ovvio - in quanto nostre creature; riempiendoci delle loro facoltà, pur evidentemente restando uomo, si può tentare di arrivare a dare un volto giusto al desiderio dell'uomo di diventare macchina. In realtà voglio essere un cyborg, qualcosa di inedito, che non esiste, che non si sa nemmeno se ci sarà. In questo passaggio, che è tutto interno e non è razionale, in questo camminare - tornando nel recinto dell'arte, della pittura - si può dar luogo ad un uso macchinico degli strumenti della pittura. Perché non usare direttamente la macchina? Perché l'ipotesi è l'incontro, la nuova creatura, il mutante. Non sei tu che devi usare la macchina fotografica, è la macchina fotografica che deve usare te; è questo rapporto pulsionale, inedito, rapporto d'amore contro natura, simile alla zoofilia; si tratta di far nascere un figlio da questo incontro. Ecco perché si può ancora, in questi termini, parlare di pittura.

Che differenza c'è tra questa pittura e, ad esempio, una foto ritoccata al computer con Photoshop?
È una mossa delicatissima, questa, che trova difficilmente delle risposte di tipo teorico; cerca piuttosto di farsi risolvere su un piano dell'ineffabile, dell'intuitivo. Nessuno in questa storia d'amore deve essere quello che è, cioè il computer che svolge il suo lavoro e io che lo ritocco. Wahrol dice di voler essere una macchina, non di voler utilizzare sempre di più le macchine; si tratta di dire "io abdico". Non voglio più essere un uomo, voglio essere una macchina - eppure sono uomo; e in questa continua contaminazione, che è un processo che è appena cominciato, da ciò dovrebbe nascere una nuova sensibilità, un'inedita posizione nel rapporto tra l'uomo e la macchina. Tutto ciò che ancora porta tracce di separatezza e distinzione non è il voler diventare macchina, ma piuttosto il voler utilizzare le macchine. Già nelle prime fasi di questo cammino si sente in modo molto forte il disgusto dell'Io, ci si allontana spontaneamente, si è in una nuova dimensione, in compagnia di cose che non hanno Io ma che funzionano comunque.

Quanti di questi giovani che verranno ad insegnare nella scuola pensi che lavorino in questa dimensione?
Credo nessuno. Questo mi dispiace, perché se guardo la vostra rivista non trovo pittura e che lavorano tutti lavorano sull'Io, narrano con l'occhio limpido della macchina, ma anche loro forse procedono forse per istinto, perché sono in questa dimensione e, senza averla teorizzata, si comportano già istintivamente così. È probabile che quelli che noi avremo qui non lo siano, però non è detto. D'altra parte noi dobbiamo fornire degli strumenti.

Come mai assistiamo al fatto che oggi il 90% della pittura oggi è figurativa, di narrazione, o anche se è astratta comunque si tratta di un astratto un po' fumettistico, che mantiene dell'ironia, dei riferimenti all'immagine della realtà che, pur scomparsa, ci rimane negli occhi?
La prima questione è che in questo nuovo territorio non nominabile, del quale non abbiamo la topografia e non sappiamo come si chiami, abitano e si esprimono persone per sensibilità e istinto naturale le quali hanno comunque un atteggiamento più macchinino del vecchio artista. La macchina che rileva non inventa l'inesistente, il fantastico, ciò che non c'è; rileva ciò che ha figura, presenza. Dico questo non perché si servano della fotografia o del video, e che hanno già questa sensibilità nuova, diversa, per cui vedono l'esistente, esattamente come una telecamera. In secondo luogo credo che questo avvenga non solo perché la macchina registra solo ciò che si può vedere, ma perché credo che in questo mondo post-umano ci sia grande capacità e voglia di comunicare, comunicare in superficie - ma noi sappiamo che oggi la profondità è tutta in superficie. C'è grande voglia di mettere in comunicazione il mondo, le persone, le cose che sono immagini, perché le immagini si attraggono, si chiamano, si amano, prolificano. E se io mi riduco a macchina sono un'immagine e questo mondo è un mondo angelico, non siamo più nell'umano. Prima di conoscere di persona un giovane artista che vive dall'altra parte del mondo per noi egli è un'immagine. L'accademia che ci apprestiamo a fondare potremmo chiamarla "l'accademia angelica", è come un paradiso. Lasciato l'umano alcuni credono che si vada verso l'inferno, per me si va verso il paradiso.

E se ci chiedessimo a cosa serve questa accademia, la risposta è?
A niente. Al puro piacere di produrre immagini che si seducono l'un l'altra, che si attraggono. Anche perché tutti noi in quanto tali non serviamo a nulla, anzi, a dire la verità non ci siamo nemmeno, siamo immagini.

Fabio Cavallucci