Il 24 ottobre 1918 cominciò l’ultima battaglia: Vittorio Veneto

I Cavalleggeri entrarono a Trento alle 15.15 del 3 novembre. La Marina sbarcò a Trieste alle 16.30. L’Italia aveva raggiunto le città per cui la guerra era stata dichiarata

Soldati italiani in Piazza Duomo a Trento.
 
La vittoria italiana della Battaglia del Solstizio, che si era svolta dal 15 al 24 giugno 1918 (vedi), aveva fiaccato in maniera irreversibile l’Impero Danubiano.
Se Armando Diaz avesse contrattaccato subito, probabilmente avrebbe fatto crollare l’esercito nemico. Ma non lo fece e, come dicono gli storici, fu un bene perché con ogni probabilità il nemico si sarebbe ritirato sul fronte originario del Carso, dove sapevamo di non avere chance. Ad ogni modo, Diaz non aveva fatto ragionamenti strategici ma di opportunità: si era fermato perché, prima di scatenare il contrattacco, voleva riorganizzare le Forze armate italiane.
Quegli stessi storici, però, successivamente accusano Diaz di avere atteso troppo per sferrare la battaglia finale. Con ragionevole certezza, l’attacco avrebbe potuto essere risolutivo già un mese dopo la Battaglia del Piave, ma lui attese quattro mesi. Decisamente troppo.
Forse non credeva alle relazioni dei suoi servizi d’informazione che davano l’esercito austro ungarico per finito, o forse voleva aspettare l’arrivo degli Americani. In realtà, questi ultimi (ai quali Diaz aveva chiesto nientemeno che 25 divisioni…) inviarono solo un reggimento.
La partecipazione di alcune divisioni alleate, ma soprattutto la troppa attesa, costò enormemente in sede di trattative per la pace. Il generale francese Foch, che si era meravigliato della strepitosa vittoria italiana di giugno sul Piave, adesso che sentiva odore di vittoria sulla Germania, cercò di impedire all’Italia di chiudere la guerra «troppo presto»: la vittoria doveva nascere sul fronte orientale.
 

 
Da parte sua, l’imperatore Carlo 1° di Asburgo, che sapeva perfettamente di non avere più risorse, stava cercando freneticamente di concludere la guerra in modo non troppo devastante per l’Austria Ungheria, ma – come sarebbe accaduto anche per la Germania – non trovò interlocutori.
L’Imperatore si appellava ai 14 punti di Wilson, che predica il ritorno ai confini originali alla fine delle ostilità, con eventuali nuovi confini da tracciare secondo il principio delle singole etnie.
Come sappiamo, la pace di Versailles non li rispettò affatto. O meglio, per restare a casa nostra, mentre vennero fatti valere sulla Dalmazia dove l’Italia chiedeva l’annessione dell’Istria con Fiume, l’Alto Adige venne annesso al Regno d’Italia insieme al Trentino, anche se da Salorno in su la lingua parlata era il tedesco.
A quel punto, secondo Carlo 1°, l’esercito austro ungarico avrebbe dovuto resistere quando bastava per consentire una trattativa dignitosa al tavolo della pace.
Non andò così, e la battaglia finale fu comunque di una durezza estrema, come tutte le altre battaglie che l’avevano preceduta.
 

 
In quei mesi di attesa, il piano elaborato dallo stato maggiore di Diaz aveva avuto il tempo di essere affinato nei minimi particolari ed era stato trasformato in una vera e propria offensiva finale.
L’8ª Armata del generale Caviglia attaccherà sul Montello in direzione Vittorio Veneto, che era il punto nevralgico della difesa nemica.
La 12ª Armata del generale francese Graziani, che era comporta da tre divisioni italiane e una francese, attaccherà sulla sinistra del Montello per raggiungere Feltre e tagliare la strada all’eventuale ritirata al nemico asserragliato sul Grappa.
La 4ª Armata, comandata dal generale Giardino, attaccherà sul Monte Grappa e la Valsugana fino a conquistare Primolano.
La 10ª Armata comandata da Lord Cavan, composta da due divisioni italiane e due britanniche, attaccherà a est per occupare Sacile e Portobuffole e tagliare la strada all’eventuale ritirata del nemico da Vittorio Veneto.
La 6ª Armata del generale Montuori si sarebbe limitata a proteggere il fronte dei Sette Comuni.
La 3ª Armata del Duca D’Aosta, che incorporava anche un reggimento di soldati americani, attaccherà da Ponte di Piave al mare, tenendo a disposizione tre reggimenti di cavalleria italiani, da utilizzare per incalzare il nemico in ritirata.
Armando Diaz si era tenuto a disposizione la 9ª Armata del generale Morrone che, con una divisione cecoslovacca, doveva essere manovrata a rincalzo delle varie unità impegnate sul fronte.
In tutto la forza italiana disponeva di 57 divisioni di fanteria e 4 di cavalleria per un totale di 1 milione e 100mila uomini, con 10.000 cannoni e 1.055 aerei.
 

 
Gli austro ungarici avevano a disposizione 800mila soldati suddivisi in 50 divisioni di fanteria e 6 di cavalleria, sostenuti da 7.000 cannoni.
L’Arciduca Giuseppe, che sostituiva il generale Cornad silurato alla fine della Battaglia del Solstizio, guidava il «Gruppo armate del Tirolo». Dipendevano da lui la 10ª Armata del generale Alexander von Krobatin, schierata dallo Stelvio al fiume Astico e la 11ª Armata del generale Viktor von Scheuchenstuel, schierata dall’Astico al Brenta.
Il generale Svetozar Boroevic dirigeva l’omonimo «Gruppo d'armate Boroevic» e difendeva l’impero dal fiume Brenta al mare, coprendo quindi tutta la linea del Piave.
Dipendevano da lui il «Gruppo Belluno» del generale Ferdinand von Goglia, schierato dal Brenta a Fener (Monte Grappa compreso) con tre corpi d'armata e tre divisioni di riserva, la 6ª Armata del generale Alois von Schönburg-Hartenstein, schierata nel settore più critico da est di Fener alle Grave di Papadopoli con due corpi d'armata e tre divisioni di riserva, e infine la 5ª Armata del generale Wenzel von Wurm schierata dalle Grave di Papadopoli al mare con cinque corpi d'armata e due divisioni di riserva.
Boroevic disponeva anche della riserva mobile formata dalla 44ª Divisione Schützen.
In tutto gli austro-ungarici disponevano di 6.800 cannoni, mentre l’aviazione era inesistente.
L’alto comando austro-ungarico era consapevole di una imminente offensiva italiana dal Grappa al Piave e sapeva che la situazione era disperata, tanto vero che il quartier generale di Vittorio Veneto venne arretrato dietro le ultime postazioni difensive di emergenza sui fiumi Monticano e Livenza.
 

 
Alle 3 del mattino del 24 ottobre 1918, il rombo dei 10.000 cannoni italiani diede il via alla grande offensiva. Stavolta il cuore degli italiani non è più gonfio di apprensione come all’inizio della battaglia del Solstizio. Ed è trascorso esattamente un anno da quanto iniziò l’attacco che portò alla disfatta di Caporetto; era un caso, ma la coincidenza faceva pensare che era giunto il momento del riscatto.
La giornata del 24 ottobre 1918 è invernale. Piove quando le fanterie della 4ª Armata partono all’assalto del Grappa. E gli austriaci si battono bene, altro che «facile sfondamento»… L’esercito austro ungarico respinge con tutta la sua forza l’attacco del nemico secolare, l’Italia. Ancora una volta il massiccio del Grappa diviene teatro di lotte furiose, dall’Asolone al Pertica, dal Solarol al Valderoa.
È un continuo attacco e contrattacco con postazioni che vengono conquistate e perdute nel giro di poco, costando ai ragazzi di entrambe le parti migliaia di caduti. Ma la resistenza non interrompe la volontà italiana di vincere.
Ormai per tutti è chiaro che le sorti della battaglia si giocano sul Grappa e pertanto gli austriaci vi fanno scivolare a supporto gran parte delle riserve. Il che alleggerisce l’intervento della nostra 12ª Armata impegnata sul medio Piave.
In realtà, però, stavolta in pianura è proprio il Piave a impedire agli Italiani il passaggio del fiume. Il maltempo lo ha portato a una piena paragonabile a quella della Battaglia del Solstizio, quando gli austriaci persero per annegamento 5.000 dei soldati che tentavano di passarlo.
Solo alle Grave di Papadopoli, dove il Piave si allarga formando molti isolotti di ghiaia, i primi reparti italiani raggiungono l’altra sponda del fiume.
  

Soldati italiani in piazza Duomo a Trento - Sotto, Cavalleggeri in via Belenzani.

 
Il giorno dopo, la battaglia continua furiosa. Sul Grappa gli Italiani conquistano il Pertica e il Forcelletta, ma il sacrificio ricorda tragicamente le inutili stragi del Carso.
Sul Piave i nostri soldati ricevono l’ordine di passare il fiume a tutti i costi e i nostri genieri compiono miracoli, rinforzando i ponti che la piena continua a demolire. Alla fine Caviglia riesce a costituire una testa di ponte a Sernaglia.
Anche ai piedi del Cesén sei battaglioni italiani e tre francesi riescono ad aprire un’altra testa di ponte al di là del fiume e, alle Grave di Papadopoli, gli italiani e gli inglesi riescono a raggiungere Cimaldolano. La sponda sinistra del Piave è nostra, ma i rifornimenti non riescono a star dietro all’avanzata. Tuttavia, anche senza viveri e senza munizioni, le posizioni vengono mantenute.
Sul Monte Grappa ora sono gli Italiani a dover respingere gli attacchi degli austriaci che provano a riconquistare il Monte Pertica, ma alla fine della giornata è evidente che le nostre posizioni sono salde, anche se le truppe sono allo stremo e basta poco perché la situazione si capovolga. Ed è qui che l’appello del generale Caviglia riuscirà a dare ai nostri soldati il coraggio di fare l’ultimo sforzo.
«Tutto il popolo italiano in quest’ora guarda a noi cui sono affidate le sorti della Patria. – Scrive nell’ordine del giorno che viene letto ai soldati. – La storia dell’Italia, forse per un secolo, dipenderà dalla fermezza e dal fervore di cui saremo capaci nelle prossime 24 ore.»
Ed è proprio in quelle 24 ore che la situazione si capovolge. Dietro alla difesa accanita degli austriaci c’è un esercito in pieno sfacelo. La difesa austriaca cede improvvisamente su tutta la linea.
 

La Marina Italiana sbarca a Trieste - Sotto: bersaglieri a Trieste. 

 
Nella giornata del 29 ottobre il passaggio del Piave è compiuto e le nostre armate sono pronte per il balzo finale.
Ed è a quel punto che – sono le 10 del mattino – il comando austriaco dirama il duplice ordine di dar corso alle trattative di armistizio e il via alla ritirata generale alle vecchie frontiere. Le truppe ungheresi non avevano atteso l’ordine ed erano già per strada verso casa.
Qualche minuto dopo le 10, il capitano di Stato Maggiore austriaco Ruggera esce dalle trincee di Serravalle all’Adige sventolando una piccola bandiera bianca. Reca una richiesta firmata dal generale Walter von Webenau, in cui chiede di «trattare l’armistizio immediato».
La notizia sorprende e preoccupa il comando italiano, che aveva tutta l’intenzione di concludere la guerra con una clamorosa battaglia campale. Occorre guadagnare tempo e si comincia col rimandare via la delegazione austriaca, precisando che per un’iniziativa di quella portata ci voleva la presenza di un alto ufficiale austriaco con ampie credenziali.
Il pomeriggio del 30 si ripresentano gli stessi ufficiali, stavolta accompagnati da von Webenau in persona. Hanno le credenziali a posto e si decide di portarli al comando supremo italiano di Padova.
L’incontro peraltro è organizzato a Villa Giusti, che è a 5 chilometri da Padova. Diaz aveva delegato Badoglio mentre lui restava in continuo contatto con il governo italiano per gestire la situazione nel pieno della volontà politica del Paese.
Il documento che poneva fine al conflitto tra Italia e Austria Ungheria venne firmato alle ore 18.40 del 3 novembre 1918. Sarebbe entrato in vigore il 4 novembre 1918.
 

 
In quei pochissimi giorni il nostro esercito era riuscito a raggiungere Trento e Trieste in tutta rapidità: i Cavalleggeri entrarono a Trento alle 15.15 del 3 novembre 1918, mentre alle 16.30 di quello stesso giorno la Regia Marina sbarcava a Trieste.
L’Italia aveva dato concretezza ai due nomi fatidici per cui la guerra era stata dichiarata.
L’armistizio entrò in vigore quando le nostre truppe avevano conquistato Vittorio Veneto. Che però non fu una vittoria campale come si erano augurato i vertici militari. Ma c’era bisogno di una grande vittoria e non esitarono a dichiarare che la guerra era finita con la Battaglia di Vittorio Veneto.
In quell’ultima battaglia l’Italia aveva perso 36.500 uomini tra morti, feriti e dispersi. Di questi, 1.830 erano britannici e 588 francesi.
L’impero Austro Ungarico aveva perduto la spaventosa cifra di 90.000 uomini tra morti, feriti e dispersi. I prigionieri furono 426.000, i cannoni lasciati sul campo 6.810.
La sanguinosissima guerra, durata 51 mesi, era finita.

G. de Mozzi
 
Cavalleggeri in Piazza Dante a Trento.