Belle Epoque. (Erotica storia d’amore di fine ottocento)
Prima Puntata Il romanzo è liberamente tratto da un fatto realmente accaduto alla famiglia dell'autore più di un secolo fa. I nomi dei personaggi sono del tutto inventati.
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Prologo
Era il 1903. Ero da solo nel mio Studio Verde del piano terra della
villa veneta di famiglia. Stavo seduto nella poltrona davanti alla
mia scrivania come se fossi il cliente anziché l'avvocato. Fumavo
un sigaro guardando i libri della mia biblioteca, come per cercare
anche in loro il sostegno di cui avrei avuto bisogno tra pochi
minuti. Fuori c'erano delle persone che mi stavano a cuore e con le
quali avrei dovuto affrontare una brutta storia. Proprio brutta, al
punto di farmi fumare un sigaro poco prima di cena. Anzi, ora mi
sarei anche versato un cognac.
Tutto era iniziato nel lontano 1876. Ed ora che erano trascorsi 28
anni, il mio passato mi stava presentando il conto.
Nulla ti viene risparmiato a questo mondo.
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Prima puntata
Il mio casato nobiliare, conti Alvisi della Serenissima,
aristocratici da "prima" della Serrata del Maggior Consiglio, aveva
sempre avuto in ogni discendenza un politico, un professionista, un
artista, un debosciato. Poiché della mia generazione ero l'unico
maschio, i miei genitori avevano deciso di lasciarmi fare un po'
quello che volevo, purché non diventassi un debosciato come mio
cugino Marco, non facessi il pittore come lo zio Flavio che si era
sposato la sua modella, non entrassi in politica rovinando tutto
come aveva fatto il fratello di mio nonno Bernardo. Alla fine del
libero arbitrio che mi era stato concesso con generosità, non mi
era rimasto che scegliere tra fare il medico o il notaio. Io per
vocazione naturale volevo fare il medico, ma i miei genitori furono
così liberali da farmi iscrivere alla facoltà di giurisprudenza,
"sic et simpliciter". Prendere o lasciare. A dir la verità avrei
voluto lasciare, ma non mi fu concesso neanche questo. E così
giurai di dedicare la mia vita alla libertà, e invece che il notaro
decisi di fare l'avvocato. In altre parole, il compendio tra il
professionista, l'artista, il politico e il debosciato. Più i tempi
cambiano, e più restano uguali.
Ero nato nel 1846 ad Altivole, Marca Trevigiana, e mi ero laureato
a Padova nel 1866, pochi mesi dopo la fine di quella che poi
sarebbe stata chiamata Terza Guerra d'Indipendenza. I Piemontesi
(scusate, gli Italiani, ormai) riuscirono a conquistare il Veneto
strappandolo all'impero Austro Ungarico dopo essere stati
clamorosamente sconfitti a Custoza. L'aver vinto dopo una
sconfitta, era piuttosto inusuale anche per un regno giovane come
quello d'Italia, tanto che gli osservatori più attenti avevano
espresso due previsioni possibili: o il fatto così clamoroso non si
sarebbe verificato mai più, oppure avrebbe sempre accompagnato la
storia dell'Italia. Sta di fatto che l'assurdo della situazione mi
aveva colpito al punto che decisi di farmi raccomandare per essere
inserito nel Corpo Diplomatico incaricato alla formazione della
nuova burocrazia dello stato italiano che in Veneto andava a
sostituire quella Asburgica. In ogni caso, nel corso degli studi
avevo imparato quattro lingue che in qualche modo avrei potuto
mettere al servizio dello stato. Venni inviato prima a Venezia, poi
a Vienna, quindi a Firenze, poi a Berlino ed infine a Parigi,
finché non tornai a casa mia ad Altivole, con l'incarico di
studiare gli eventi bellici della Terza Guerra d'Indipendenza in
modo da consentire al governo italiano di stendere una versione
ufficiale dei fatti da consegnare alla Storia.
La battaglia di Custoza a monte Cricol
C'era ben poco da nascondere. L'Italia si era alleata con la
Prussia. La Prussia aveva dichiarato guerra all'Austria e l'Austria
aveva promesso all'Italia il Veneto se avesse mantenuto la
neutralità. Ma il capo del governo era il generale Lamarmora, il
quale non era riuscito a rinunciare all'occasione. Dichiarò guerra
all'Austria, si nominò capo di stato maggiore generale e si dimise
dal governo per assumere la direzione della guerra. Ma il nuovo
capo del governo, Ricasoli, volle però nominare il generale
Cialdini al posto di Lamarmora. Ne nacque una lite e si rivolsero
al Re, il quale decise salomonicamente che ci sarebbero stati DUE
generali comandanti in capo. Ne nacque un conflitto interno
spaventoso che non venne più risolto, e la guerra fu condotta da
due capi di stato maggiore uguali e contrari. Pura follia? Macché!
Puerile incoscienza.
La direzione strategica, divisa tra i due comandanti Cialdini e
Lamarmora, aveva portato alla clamorosa sconfitta italiana di
Custoza, senza che una vera e propria politica militare fosse mai
stata varata. Gli Italiani avevano schierato 250.000 uomini e gli
Austriaci ne avevano solo 70.000, per cui non c'erano scusanti di
sorta. L'ammiraglio Persano, che nel suo curriculum aveva peraltro
maturato solo fama di menagramo, era stato nominato personalmente
dal Re Ammiraglio in Capo della flotta italiana con l'incarico di
ottenere sui mari quella vittoria schiacciante che non si era
riusciti ad ottenere sul campo, da sbattere in faccia ai Prussiani
che facevano i primi della classe. I risultati furono quelli che i
superstiziosi (e non solo) si aspettavano fin dall'inizio e senza
il minimo dubbio: la flotta italiana venne inesorabilmente
annientata da quella austriaca a Lissa.
Solo i generali Giuseppe Garibaldi e Giacomo Medici ottennero
vittorie, il primo a Bezzecca e il secondo a Tezze Valsugana.
Stavano per raggiungere Trento da Est e da Ovest, quando venne loro
ordinato di sospendere le attività. Garibaldi telegrafò
«obbedisco», Medici si limitò ad obbedire. Insomma, gli unici
ordini dati furono quelli di smettere di vincere…Beh, non voglio
raccontare tutta la storia. Chi volesse leggere il mio libretto,
ormai introvabile, lo può leggere in appendice.
Comunque sia e nonostante tutti gli Italiani vinsero… scusate, noi
Italiani vincemmo lo stesso la guerra, grazie all'intervento del
Tedeschi… scusate, allora erano ancora Prussiani. A Sadowa avevano
sbaragliato l'esercito austroungarico e ce la sbatterono in faccia.
Però mantennero la parola di farci avere il Veneto. C'era da
aspettarsi che l'Imperial Regio Comando Austro Ungarico non ci
avrebbe mai perdonato siffatta vittoria, ma questa è la politica,
interna o esterna che sia, e lo sanno anche loro.
Tutto questo lo scrissi nel citato libretto destinato al Ministero
degli Esteri, cercando di mettere in luce le incongruenze politiche
dello Stato, dimostrando quanto le istanze di concorrenza dei
comandanti italiani fossero state vacue e dannose e, trattandosi di
un referente diplomatico, esposi anche il totale scollegamento tra
i successi diplomatici e gli errori militari. E già che c'ero,
stigmatizzai la presunzione di uno stato ancora adolescente come
quello Italiano che aveva provato a scendere in campo con e contro
le grandi potenze storiche d'Europa.
Ma ero stato piuttosto presuntuoso anch'io, dato che non avevo
previsto i risultati della mia analisi. Al ministero degli Esteri
Italiano, chissà perché, non piaceva la verità. Infatti, quando
uscì il mio libretto nel 1871, poco dopo che la capitale d'Italia
era stata portata a Roma, venni chiamato d'urgenza dal capo di
Gabinetto del Ministro degli Esteri Benedetto Cairoli, venni
ringraziato per i preziosi servigi resi al Regno d'Italia in quegli
anni di intenso e acuto lavoro, e quindi mandato tranquillamente a
remengo. Termine veneto per indicare quel paese.
Licenziato in tronco. Fine della mia carriera diplomatica. Mi
restava quella legale.
Nel 1876 compii trent'anni e adesso, a parte mia sorella sposata a
Bassano e il cugino Marco stabilito a Casteggio, ero rimasto solo.
Ma non era male la vita. Avevo un palazzo a Venezia (Ca' Alvisi),
un isolato a Padova vicino al Bò (l'Università Patavina), la più
bella palazzina di Asolo sotto la torre della Regina Cornaro
(storica Regina di Cipro che aveva venduto, sì venduto, la propria
isola a Venezia), e la tenuta di Altivole dove c'era la mia villa
palladiana con un parco di centomila metri quadrati e quattrocento
campi coltivati a grano separati da filari di vigne. Fu in villa
che decisi di soggiornare la maggior parte del mio tempo,
primavera, estate e autunno.
Nel parco c'era un bosco nel quale cacciavo, un laghetto nel quale
pescavo, un labirinto di siepi nel quale quand'ero giovanotto
giocavo con amici e
amiche (nobili, naturalmente, per volontà dei miei genitori, a
parte la figlia del medico e il figlio del notaro, anche se erano
borghesi). Il laghetto aveva un'isoletta, alla quale ci si arrivava
in barca, dove c'era una costruzione mimetizzata nella vege-tazione
per stare al fresco anche nei giorni della calura. Era stata la mia
Isola del Tesoro, quando mi rifugiavo da piccolo per fuggire agli
ospiti importanti della villa. Nella dépendance invece viveva il
fattore Giacomo Vanzo con la sua famiglia, mentre le grandi
famiglie di contadini vivevano nelle case situate nelle campagne di
propria pertinenza a mezzadria.
Nel quadro a sinistra, la tipica famiglia di fine '800
dipinta da Borrani.
La famiglia dei Conti Alvisi non aveva più la grande
quantità di donne zitelle in casa come si usava agli inizi
dell'800, ma non aveva più neanche i grandi patrimoni finanziari di
un tempo, quando prestava quattrini ai signoroni della guerra e ai
principi tedeschi, ma la campagna rendeva ancora molto bene grazie
al fattore, che per quanto rubasse a piene mani mi dava sempre più
soldi di quanti non ne potessi spendere. Questo privilegio mi
consentiva da una parte di dedicarmi alla professione di avvocato
senza occuparmi troppo della riscossione delle parcelle e
dall'altra mi evitava i lunghi ed estenuanti corteggiamenti alle
donne che gli spiantati invece devono fare. Potevo infatti
permettermi di scegliere sia le donne che i clienti (che perlopiù
erano donne). La mia governante Annamaria, che aveva vent'anni più
di me, diceva che mi aveva visto nascere e che, certamente, mi
avrebbe anche visto morire. Meglio così, dato che era lei a
controllare le entrate e le uscite, sapeva preparare da mangiare
come si deve, governava la casa con maestria e teneva a bada le
donne che volevo far entrare nel mio letto. Avevo faticato non poco
ad abituarla in quest'ultimo servizio, ma dopo la scomparsa dei
miei genitori era divenuta via via più tollerante.
«Mai tutta la notte, mai due volte con la stessa donna.» -
le avevo spiegato una volta.
«E questo chi l'ha detto?» - mi aveva risposto mettendosi le mani
ai fianchi.
«Il sottoscritto, conte Matteo Alvisi.» - affermai. - «Avvocato
della Serenissima.»
«La Serenissima Repubblica di Venezia non c'è più da quasi
ottant'anni e tu sei avvocato da soli cinque, sémpio.
Sarà mejo che ti meti la testa a posto.»
Ma quando si
rese conto che non mi sarei mai sposato nonostante le sue
insistenze e le mie promesse, decise di continuare a combattere i
miei vizi, ma anche di adeguarsi segretamente alla situazione, se
non addirittura di governare il mio flusso femminile. E così, le
mie compagne avevano più paura di lei che di me. Poiché non facevo
distinzione del rango di provenienza, le faceva visitare dal medico
di casa, le lavava accuratamente e le istruiva per bene sul come
evitare di farsi mettere incinte da me.
Al piano superiore avevo quattro stanze matrimoniali, due che
davano sul retro e le due principali che davano sul davanti della
villa, da dove potevo ammirare il rilassante estendersi del parco,
con il bosco a destra, il laghetto a sinistra, i viali d'accesso
centrali e il grande cancello in ferro rosso del Canova
all'orizzonte. Le usavo entrambe, una per dormire e l'altra per
fare sesso. Quest'ultima aveva due passaggi riservati, grazie ai
quali si poteva accedere a quello che io chiamavo sala da bagno e
al giro scale segreto, quello usato dalla servitù. Ciò mi
consentiva di lavarmi, di far entrare le mie amiche, di
accoppiarmi, di farle uscire e di lavarmi nuovamente.
«Il buon playboy / si lava prima e poi» - dicevo ad
Annamaria, che non sopportava né l'inglese né i Casanova (versione
veneta del britannico playboy).
«Quando ti parlerà italiano o almanco veneto?» -
protestava a commento delle mie forme inglesi. E allora rispondevo
per le rime.
«L'italiano Casanova / prima si lava e poi le prova…»
Da quella camera vi era passata una quantità infinita di donne e
fanciulle anche se, col passare del tempo, gli incontri galanti
calavano e da giornalieri divennero prima a giorni alterni, poi a
due volte la settimana. Sapevo che con il compiere dei quarant'anni
avrei preferito godermi non più di una femmina alla settimana.
Insomma, prima o poi avrei dovuto privilegiare la qualità alla
quantità o, in altre parole, far buon viso a cattivo gioco.
Quando i miei genitori erano in vita, il mio augusto membro era
particolarmente vitale, ma potevo esercitarlo solo nel granaio o
nel fienile. Vi portavo la pollastrella di turno e me la ingallavo
con potentia giovanile. Fu lì che me la spassai con Lina, Rita,
Laura, Maria, Teresa, Luciana, Giulia, Costanza, Lucia, Giuseppina,
Beatrice, Atonia, Fulgenzia, Gaudenzia, Frumenzia, Felicita, Elena,
Anita, Angela, Patrizia, Daniela, Francesca, Chiara, Clarabella,
Isabella… Ma anche con Dina e Diana, le due gemelle del fedele
Angelon della campagna Est, le prime due donne che mi spupazzolai
insieme. Essendo uguali, sembrava che la stessa donna si fosse
moltiplicata all'infinito per prosciugarmi l'anima senza soluzione
di continuità.
Il quadro sopra e quello qui sotto sono di Edouard
Manet.
Pure la marchesina Fiammetta
Pallavicini mi si concesse nel granaio, e devo dire che i miei
genitori speravano che me la sarei sposata. L'ultima volta che
rimasi con lei era fine settembre e c'era una grande quantità di
pannocchie ancora da sgranare. Mi autorizzò a "giocare" con una e,
quasi per approfittare della concessione, mi chiese di sposarla.
Alla fine le dissi che non ci pensavo neanche, lei mi diede uno
sberlone e se ne andò per sempre dalla mia vita sessuale. Non mi
aveva restituito la pannocchia sicché, quando si sposò un anno dopo
con uno dei figli del Conte di Cavarzere, le regalai due orecchini
riproducenti delle piccole pannocchie d'oro…
La marchesina Buzzacarini aveva una serva africana e forse per
questo potevo andare io a casa sua, cioè non correva rischi che la
violentassi. Ma direi che il rischio era l'opposto... Comunque si
era fatta ritrarre ignuda insieme alla sua Mamy (la
chiamava così) da un pittore di una certa fama. Visto che voleva
sempre la serva tra i piedi mentre posava, il pittore ritrasse
anche lei.
La baronessa Fraschini sapeva quello che voleva e se lo prendeva di
santa ragione. Aveva una sessualità femminile e generosa. Amava
stare sopra e guidare gli amplessi. Tu pensa a tenerti in erezione
- gli diceva in lingua italiana - che al resto penso io. Così si
fa.
La contessina di Noale era come la regina del Catai: stanca sì, ma
sazia mai. Queste erano le battute che facevano andare in bestia la
governante Annamaria, ma - generoso come sono - la passai a mio
cugino, al fattore, al dottore, al marito di mia sorella e a mia
sorella, non ricordo ancora a chi altro. Si sposò con un notabile
di Cornuda...
E la principessa Karola Schönberg di Norimberga? Affermava che non
si poteva dire di conoscere la lingua italiana finché non mi si
baciava sulla bocca. Una volta avevamo fatto un pic-nic a quattro
nel nostro boschetto, dove io e il mio amico eravamo rimasti
vestiti e le due donne si erano spogliate per rendere più piacevole
lo spuntino. Karola era una delle due donne ed era insieme con il
suo moroso, il quale non parlava bene l'italiano, ma me ne guardai
bene dall'insegnarglielo...
La bella, bellissima Paola Zancan, invece, era tecnicamente
frigida. Un delitto. Me l'avevano detto, ma dato che aveva uno
sguardo sconvolgente e un culo più che leggiadro, decisi di farmene
una questione di principio. Provai in tutti i modi a sbloccarla,
montandola nelle maniere più tradizionali e in quelle più creative,
sollecitandola con tutte le disponibilità maschili, raccontandole
mille delicatezze e mille sconcezze, sfiorandola appena o
rivoltandola come un calzino, penetrandola delicatamente o
trombandola come una locomotiva. Ma non ci fu nulla da fare,
restava un pezzo di ghiaccio. Finché un giorno mi disse «Deciditi:
o dentro o fuori!». Optai per la seconda soluzione.
La tela che segue è il celebre «Bagno turco» di
Ingres
Devo
ammettere che mi sono divertito di più con le donne ruspanti, del
popolo. Sane e robuste, elastiche e sode, volgari ma prive di
fisime, di inibizioni, di remore religiose, di atteggiamenti
pseudoculturali o paramorali, paranobili o paraculi. Non
pretendevano di sposarmi e si facevano montare per godersi un sano
pene aristocratico così come piaceva loro e per le quali avevo
coniato il motto, ora diffuso negli ambienti universitari, «non
lungo che fori, non grosso che turi, ma duro che duri». Anzi,
avevo proposto al podestà della vicina città dell'Impero Asburgico,
Trento, dove c'erano già Contrada Larga e Contrada Lunga, di
chiamarne una Contrada Dura (il che Duri poteva
stare sottinteso). Beh, camminavano scalze, erano sporche di terra
e di sudore, stanche di lavoro massacrante, ma positive e
servizievoli, furbe ma altruiste, attive e creative, amanti del
buon cibo e del buon vino, del sano sesso e della vita in genere.
Quand'ero giovane, la governante era costretta a lavarmele prima di
lasciarmele salire in granaio di nascosto dei miei. Era un peccato,
perché mi piaceva quel sapore agreste, forse panteistico, che
portavano con sé. Mi sembrava di essere il gallo del cortile, una
specie di dio Pan. Un giorno, una di loro mi disse (per quanto
ignara di riferimenti classici) «scopi come un dio», e io
le risposi «questo devi dirlo alle tue sorelle e alle tue
amiche». Lo fece di sicuro, perché da allora quelle che la
conoscevano si misero a cercarmi.
In compenso sentivo il dovere democratico di scoparle tutte, belle
o brutte, grasse o magre, giovani o vecchie che fossero perché,
mentre per le donne copulare è un diritto, per noi uomini è invece
un dovere. Sì, anche quelle di una certa età, perché se lo
meritavano. Anzi, dicevamo all'università, le donne sui 40 anni
sono come il maiale: non getti via niente. A ricordo tangibile
di ciò, recitavo spesso un ritornello coniato sul campo per le
Lissandrin: Mi feci tutta la famiglia: nonna, mamma, zia e
figlia. Col sollazzo del mio pene, tre generazioni prese bene.
Era vero, le Lissandrin avevano 19, 36 e 54 splendidissimi anni. E
non buttavi via proprio nulla di loro.
Poiché copulavo spesso e volentieri, mi specializzai al punto che
ben presto mi chiamavano spudoratamente, ma in segreto, El
Cónte dai Diése Osèi, per via delle dieci posizioni di base
con cui mi accoppiavo di routine, cioè prima di passare a pratiche
più creative. Naturalmente ogni femmina esprimeva la propria
soggettività chiedendomi di eccedere in una maniera o di limitarmi
nell'altra e io, da gentiluomo, le assecondavo con magnanimità e me
ne ricordavo le volte successive. Va da sé che mi dilettavo in
quello quello che esorbitava le dieci posizioni canoniche,
esercitandomi spesso nel sesso non strettamente tradizionale. Non
so come facessero a intuirlo, ma le mie donne capivano al volo cosa
volevo e si indaffaravano per assecondarmi.
Credo di essere stato un bel giovane e di essere stato anche
piacente, ma indubbiamente godevo della rendita di posizione data
dal censo e dal titolo.
La domenica, prima di andare a messa, mi confessavo regolarmente
dal prete del paese. Ma quando mi accorsi che mentre mi ascoltava
quello si faceva una sega, non andai più in chiesa.
Finita l'università, passai a fare sesso solo a letto e da allora
non ho più frequentato i granai. A pensarci bene, con la laurea
cambiò un po' tutto perché, come ho detto, mi impegolai presto
nella disastrosa e brevissima avventura diplomatica
dell'improvvisato Regno d'Italia.
Quando
venni licenziato dal Ministro Cairoli a causa del mio libretto
candido e innocente (l'avevo impru-dentemente intitolato
«Disobbedi-sco!»), mi trovai in poco tempo ad essere avvocato,
orfano e ammi-nistratore delle mie sostanze.
Qui a sinistra la foto di Benedetto Cairoli
Solo il mio interesse per le donne era rimasto inalterato. Forse
più raffinato. Anzi, mi scoprii subito molto portato alla loro
difesa legale. Proprio per questo, gli stimati colleghi mi
consideravano molle e debosciato, ritenendo che un buon avvocato
non avrebbe dovuto perder tempo a difendere il sesso debole, in
quanto i loro reati si riducevano a furti, borseggi, taccheggi,
prostituzione, ricatti, estorsioni da letto, adulterio, aborto.
Ogni tanto c'era anche il delitto di omicidio ma, stranamente, di
solito mi riusciva più facilmente farle assolvere da un'accusa così
grave che dai reati minori, forse perché tipici della povera gente,
che secondo i colleghi e i giudici non era conveniente difendere.
Devo ammettere che non guadagnavo molto difendendo le donne, ma
poiché non avevo bisogno di soldi per vivere, preferii lavorare per
puro senso di giustizia, una sorta di contraltare alle innumerevoli
donne consumate senza troppi scrupoli.
Fu nel giugno di quel fatidico 1876 che avvenne il fatto destinato
a sconvolgere la mia vita, generato proprio dalla mia naturale
predisposizione e attrazione al genere femminile.
(Continua)