Le «visioni oniriche» di Martina Angarano – Di Daniela Larentis

L’artista trentina mette da sempre al centro delle sue indagini fotografiche l’uomo contemporaneo e le sue contraddizioni – L’intervista

Martina Angarano.
 
Martina Angarano, apprezzata fotografa trentina, mette da sempre al centro delle sue indagini fotografiche l’uomo contemporaneo e le sue contraddizioni, dando corpo ai suoi sogni, svelando i suoi bisogni più profondi, primo fra tutti il bisogno di bellezza.
I suoi scatti descrivono una realtà complessa in continuo mutamento, ne propongono una rilettura ricca di suggestioni, in cui la presenza umana è solo percepita: ogni oggetto, edificio, scorcio, paesaggio urbano o naturale rinvia all’attività dell’uomo e con essa al suo ingegno, ma al contempo anche al suo senso di smarrimento e di profonda solitudine.
È un sentimento di incredulità e di meraviglia ciò che suscita ogni singola opera dell’artista, attraverso cui Angarano propone una personale visione del mondo che pare a tratti velata di malinconia, invitando a percorrere strade che conducono tuttavia a una conoscenza provvisoria e mai definitiva del reale.
 
In particolare, una serie di immagini che prendono ispirazione da Le città invisibili di Italo Calvino danno il via a un viaggio tematico in cui convivono valori positivi e negativi, sottolineando l’ambivalenza che caratterizza la società contemporanea.
Il nucleo di opere afferenti a questo ciclo prende inizialmente vita, ampliandosi successivamente, in occasione di una passata esposizione, una collettiva del 2012 dal titolo
«Le città invisibili e le città visibili» organizzata da FIDA Federazione italiana degli artisti, con il patrocinio della Regione Autonoma Trentino Alto Adige.
 

Martina Angarano, Isaura, l'inconscio che affiora ©.
 
Troviamo quanto mai interessante la ricerca sui paesaggi urbani di Martina Angarano, dove le città sembrano accomunate da un destino contraddittorio: Zora, «obbligata a restare immobile e uguale a sé stessa per essere meglio ricordata», come la descrive lo stesso Calvino; Isidora, città della «memoria», dove ciò che si credeva non ancora avvenuto si scopre appartenere al passato, in cui «i desideri sono già ricordi»; Maurilia, una città che conserva in cartoline l’immagine del passato confrontandolo in continuazione con il presente; Tamara, la città dei segni, il cui vero aspetto sfugge al visitatore, un luogo in cui «l’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose», per citarne alcune a titolo esemplificativo.
L’artista attraverso lo studio sulle città come Calvino ne svela la doppia natura, mette in luce le diverse prospettive da cui poterle osservare, evidenziando come ciascun aspetto non ne escluda altri ma concorra a presentarne una visione dove gli opposti convivono.
 

Martina Angarano, Maurilia, la nostalgia del passato ©.
 
Alcune note biografiche prima di passare all’intervista.
Martina Angarano dopo il liceo scientifico e gli studi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento, appassionata di arte, si dedica alla fotografia, dapprima come autodidatta, in seguito frequentando alcuni corsi, in particolare sulla fotografia di paesaggio e reportage di viaggio, con un approfondimento degli aspetti espressivi e tecnici della fotografia di paesaggio naturale, urbano e architettonico.
A seguito di queste esperienze, prende parte, assieme ad altri allievi, a un progetto di indagine fotografica sul mondo della vite, a cui segue una mostra fotografica collettiva allestita prima presso l’azienda agricola Pojer e Sandri a Faedo, poi portata anche in Val di Non a Revò presso la Casa Campia, infine a Palazzo Roccabruna a Trento.
 
Entra nel 2010 nella FIDA – Federazione Italiana degli Artisti di Trento, con la quale partecipa a diverse mostre collettive, fra le quali «Appunti di viaggio», allestita nell’area archeologica di Palazzo Lodron a Trento, «Non si va mai così lontano», organizzata presso il Grand Hotel Trento, «Città visibili e invisibili», tenutasi al Palazzo della Regione a Trento.
Partecipa nel tempo anche a diverse collettive a scopo benefico, fra le più recenti, ricordiamo «Per chi ci cammina accanto», esposizione allestita alla Galleria Fogolino di Trento nel 2019.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarla e di porgerle alcune domande.
 

Martina Angarano, Isidora, i desideri sono già ricordi ©.
 
Quando è nata la passione per la fotografia?
«È una passione che è nata in maniera spontanea quando ero adolescente. Mi ricordo ancora la mia prima reflex, la Minolta X-300, che mi ha accompagnato per diversi anni! La fotografia mi ha incuriosito e affascinato per la sua capacità di catturare e fermare l’istante, condensare in un attimo i significati, le emozioni, il proprio senso estetico.
«Con la macchina fotografica mi sono sentita subito a mio agio, è uno strumento espressivo che sento congeniale al mio modo di essere. I tentativi di produrre delle opere artistiche, però, sono iniziati più tardi, con l’avvento delle macchine fotografiche digitali.
«In quegli anni ho frequentato dei corsi di fotografia, in particolare di approfondimento degli aspetti espressivi e tecnici della fotografia di paesaggio naturale, urbano e architettonico, che mi hanno permesso di esplorare più a fondo le possibilità offerte dalla macchina fotografica e di maturare uno stile più personale.»
 
C’è qualche fotografo a cui si è ispirata, almeno inizialmente?
«Ho trovato ispirazione negli scatti di Mimmo Jodice, trovo bellissime le sue immagini di una Napoli diversa da come solitamente la immaginiamo, deserta, metafisica, di Franco Fontana, per gli spazi e le geometrie dei suoi paesaggi colorati e vuoti, e di Michael Kenna, per i suoi paesaggi eterei e l’uso delle lunghe esposizioni. Tra gli artisti più recenti, amo moltissimo la fotografa slovacca Maria Svarbova, il suo progetto In the swimming pool mi ha entusiasmato.»


Martina Angarano, Metamorfosi ©.
 
Quali sono i soggetti o le situazioni da cui trae maggior ispirazione?
«Sono attratta innanzitutto dalla natura in tutte le sue forme, che cerco di ritrarre non tanto in modo descrittivo, ma filtrandola e in qualche modo trasformandola attraverso la mia personale sensibilità. Mi focalizzo spesso sui dettagli, sulle atmosfere, sul gioco della luce e sulle sfumature dei colori, sulle impressioni che un dato contesto mi suscita.
«Sono affascinata anche dalle forme architettoniche, dalle geometrie che scorgo osservando ciò che mi circonda, mi piace catturare scorci di paesaggi urbani e angoli di interni.
«Amo i riflessi, la realtà che si specchia e si deforma, ricomponendosi in altre forme e in altre realtà. Mi piacciono le immagini che evocano il silenzio, la contemplazione, che inducono alla riflessione interiore, che richiamano una dimensione metafisica. Immagini che rimandano a un’altra realtà, meno evidente, più intima, a un luogo segreto, rifugio carico di promesse ancora intatte, di attese e di possibilità. Immagini che permettono di accedere a un mondo onirico, dove i soggetti immortalati si staccano dalla realtà per elevarsi in una dimensione senza tempo.
«È un tentativo di superare la finitudine umana. Uso spesso il mosso, lo sfocato, le sovrapposizioni, le dissolvenze e le trasparenze. Mi piace anche indagare alcune condizioni connesse all’esistenza umana come l’assenza, il vuoto, la solitudine, l’incomunicabilità, la memoria, la percezione del tempo che passa…»
 
Lavora più sull’«impressione» o sulla «descrizione»? Quale dei due approcci sente più vicino al suo modo di fare fotografia?
«Premesso che la fotografia è comunque sempre interpretazione, sicuramente sull’impressione. È proprio questo tipo di approccio che mi permette di addentrami, attraverso la cattura delle immagini, nella mia immaginazione e nel mio inconscio e far affiorare sensazioni, sogni, desideri, ricordi, gioie, speranze, delusioni. Impressioni, attimi, palpiti, suggestioni.
«Ciò che osservo influenza ciò che provo e viceversa, fino a dar vita all’immagine finale. Immagine finale che spesso viene elaborata in post-produzione perché ancora incompleta. Proprio perché il mio intento non è documentaristico, non lo ritengo un atto impuro ma anzi la prosecuzione naturale per dare concretezza a ciò che mi ha spinta a scattare quella precisa immagine, in quel preciso momento e in quel determinato luogo: l’emozione iniziale, che produce riflessioni e pensieri, prosegue anche dopo lo scatto e mi guida verso un determinato risultato.»
 

Martina Angarano, Nostalgia ©.
 
Come definirebbe la sua fotografia usando degli aggettivi?
«Evocativa, creativa, onirica.»
 
Cosa rappresenta per lei fotografare in termini emotivi?
«Significa seguire un flusso emotivo interiore, un’energia interna che mi spinge in una data direzione. Partendo da un approccio emotivo/sensoriale nasce un dialogo tra ciò che vedo e ciò che sento che mi conduce allo scatto finale. E questo flusso emotivo che ha dato origine alla fotografia viene in qualche modo recepito dall’osservatore, attraverso la propria sensibilità e il proprio mondo interiore.
«Il potere evocativo delle immagini consiste nel fatto che l’immagine viene veicolata fino ad arrivare al nostro inconscio. Infatti, se ad esempio osserviamo la medesima immagine in momenti diversi della vita, questa non avrà per noi lo stesso effetto e lo stesso significato, ma susciterà emozioni che non saranno mai le stesse, perché influenzate dalle esperienze vissute e dallo stato d’animo che si ha in quel preciso momento dell’osservazione.»
 
Cosa desidera trasmettere attraverso la fotografia, qual è l’intento principale nel raccontare la sua visione del mondo?
«Con le mie fotografie vorrei poter esprimere e trasmettere stati interiori dell’animo umano. Vorrei suscitare un’emozione interiore in chi osserva, far fluttuare l’immaginazione di chi si trova davanti alla fotografia.
«Parallelamente, mi piacerebbe stimolare l’osservatore al pensiero, alla riflessione su vari temi dell’esistenza. L’intento è quindi quello di fare in modo che le mie fotografie dialoghino con l’osservatore e lo coinvolgano sia emotivamente sia mentalmente.»
 

Martina Angarano, Tamara,  il segreto dei segni ©.
 
Un ciclo di opere di qualche anno fa, particolarmente rappresentativo della sua arte, valica il rarefatto confine fra immaginazione e realtà rinviando a «Le città invisibili» di Calvino. Fra queste c’è un’immagine a cui è particolarmente legata? Può commentarla?
«Il tema delle Città invisibili di Calvino mi ha immediatamente affasciato perché ho sentito un’affinità tra lo sguardo dello scrittore e il mio sguardo di fotografa nel descrivere la realtà che ci circonda. Quest’opera mi ha ispirato moltissimo perché ho avuto l’occasione di provare a sviluppare nelle immagini proprio quello che Calvino nel libro, attraverso le descrizioni delle città raccontate da Marco Polo, esprime con le parole.
«Marco Polo non si limita ad una descrizione fisica, o esteriore, delle città che incontra, ma descrive le sensazioni e le emozioni che ogni città suscita, creando un variegato labirinto dove i temi e i soggetti si perdono e si ritrovano.
«Le città descritte sono un insieme di tante cose: desideri, sogni, ricordi, speranze, illusioni e disillusioni e continuamente cambiano di forma e si trasformano in qualcos’altro. Il reale e l’immaginario si intrecciano e si mescolano, dando vita a qualcosa di non definito, che il lettore non sa se sia davvero esistito oppure sia frutto della fantasia. Ma un viaggio in una realtà fantastica è ugualmente ricco e affascinante di quanto sia un viaggio in un luogo reale.
«Sono affezionata a Maurilia - la nostalgia del passato sia per il concetto che esprime che per la resa estetica dell’immagine. Il libro di Calvino è strutturato in 11 nuclei tematici, Maurilia rientra in quello che tratta il rapporto tra le città e la memoria. Maurilia rappresenta l’idealizzazione sentimentale del passato, che spesso siamo soliti fare. Il passato come paradiso perduto, come rappresentazione simbolica della perfezione. Perfezione che in realtà non è mai esistita.
«Per comprendere la Bellezza di come era Maurilia nel passato bisogna partire dalla Maurilia attuale: attraverso le cartoline di un tempo emerge la città in tutto il suo perduto fulgore. Ma quel fulgore, attraverso il ricordo, lo abbiamo trasfigurato e reso più ammaliante di quanto fosse davvero.
«Da qui la nostalgia per qualcosa che si è irrimediabilmente perduto e che, proprio per questo, assume un particolare significato. Nella fotografia ho voluto rappresentare una finestra in cui si riflette l’immagine di un palazzo antico, si intravede l’eleganza delle forme architettoniche, che appaiono per un istante sul vetro di quelle finestre ed evocano un’epoca passata, di seducente bellezza. I toni sono caldi, dorati, su uno sfondo blu, elegante e più freddo.
«Al tutto ho conferito un senso di velocità dato dalle scie di luce orizzontale, che danno l’impressione dello scorrere inesorabile del tempo, del lampo, della visione fugace di quel che la città era stata, e suscitano un sentimento di nostalgia per un tempo ormai lontano.»


Martina Angarano, Zora, l'oblio dell'immobilità ©.

Può condividere un pensiero che possa riassumere il lavoro svolto?
«Una bellissima occasione per un’immersione nell’immaginazione, tra emozioni e idee.»
 
I luoghi che lei descrive sono svuotati dalla presenza umana…
«Sì è vero, fotografo paesaggi e luoghi spesso vuoti o in cui la presenza umana è rappresentata da silohuettes indefinite, figure appena accennate o soggetti in solitudine. Preferisco evocare la presenza dell’uomo che non mostrarla direttamente.
«Ad esempio, ritraendo elementi della natura in contrapposizione a manufatti umani, come può essere un albero che si riflette nelle vetrate di un palazzo, o fotografando oggetti che rimandano alla presenza di persone - una sedia vuota, un tavolino di un bar, una barca abbandonata. E alla fine è proprio questa assenza che rivela fortemente la presenza dell’uomo.»
 
Ha qualche sogno nel cassetto/progetti futuri?
«Vorrei riuscire a sviluppare maggiormente una mia personale visione interpretativa intorno a quei soggetti che mi affascinano particolarmente e che ho descritto precedentemente: le assenze, le presenze inquiete, le dimensioni oniriche, i ricordi… sono tutti temi che sento fortemente e che di conseguenza mi stimolano a nuove ricerche e sviluppi.»

Daniela Larentis – [email protected]