Storie di donne, letteratura di genere/ 410 – Di Luciana Grillo

Laura Marchetti: «SAMAR, la luce azzurra a Itaca, Roma, Baghdad» – La voce di tante donne recluse che parlano dolcemente nella notte: «Samar» appunto, in arabo

Samar. La luce azzurra a Itaca, Roma, Baghdad
Autrice: Laura Marchetti
 
Editore: Mimesis 2018
Genere: A sfondo sociale e culturale
 
Pagine: 246, Brossura
Prezzo di copertina: € 22
 
Laura Marchetti da molti anni si occupa di ambiente, cultura e migrazioni. Il suo testo – SAMAR – spazia tra Oriente e Occidente, galleggia da una riva all’altra del Mediterraneo, in un’aria azzurra che evoca poesia, recupera miti e fiabe, ascolta le voci delle donne, quelle che a volte possono solo sussurrare nella notte.
Di solito, le fiabe le raccontano le donne ai bambini, fiabe che secondo i razionalisti sono «giocattoli, trastulli illogici e pre-logici che risentono della con-fusione dell’infanzia» e hanno la stessa natura del mito, iniziano con «C’era una volta…», si concludono bene, si allontanano dalla vita vera, «la fame, la povertà, la miseria, la guerra, verranno sopraffatte dal riso, dall’ironia, dalla beffa, dall’astuzia, dall’immaginazione di un Paese di Cuccagna».
 
Ulisse è il primo protagonista, il naufrago che approda nell’isola di Nausicaa, «lacero, affamato, spaventato, confuso, stanco di tutti quegli inutili anni di viaggio, senza respiro e senza più voce… uno stanziale, uno che è stato costretto ad emigrare da un movimento storico più grande della sua volontà, ma che da sempre, durante l’assedio e nei lunghi anni di viaggio, ha rimpianto la sua terra e anelato al ritorno».
Qui si sente ospite, viene accolto con calore e invitato a raccontare la sua storia.
Altro segno di ospitalità, per i Romani, erano i fari, che favorivano i soccorsi e impedivano i naufragi, permettevano l’accoglienza degli ospiti.
 
Non essendo uomini di mare, ma di terra, i Romani si affidavano alle divinità, in particolare alla dea Iside Euploia, la dea della buona navigazione, la dea innamorata di Osiride, che «ci mostra come sia l’amore l’anima di quella luce azzurra che risplende nelle acque del Mediterraneo esprimendosi nella poesia».
Il senso dell’ospitalità, l’accogliere e il raccontare diventa «Samar», e la donna ospitale è una donna samira, nei paesi arabi, una donna che accoglie lo straniero e racconta, rendendo lunga e dolce la notte.
Anche nella cultura italiana persiste il racconto; per esempio Dacia Maraini in Colomba fa ripetere compulsivamente «Raccontami ma» alla figlia che vuole ascoltare ininterrottamente le storie che la sua mamma sa raccontare. E tutte le mamme, si sa, sono custodi di cibi, storie, racconti, tradizioni.
 
E siamo solo all’inizio di questo testo ricco di suggestioni, in fondo amaro, perché parla di degrado, decadenza, disfatta, suddiviso abilmente in tre parti: la prima, come già anticipato, è dedicata a Creta, a Itaca, a sorgenti e grotte, a mostri e miele; la seconda sposta l’attenzione a Roma, al Satyricon, alla discesa comica verso il basso e quindi al capovolgimento della legge, ai culti del sottosuolo; la terza vira verso Oriente, al mondo di Sharazhad, dei tappeti volanti e delle «Mille e una notte».
Marchetti attualizza le realtà di cui parla, Scilla e Cariddi, ad esempio, sono luoghi tipici di respingimenti provocati da mostri, come oggi «a causa di una legge e in dispregio di tutti i valori dell’accoglienza e anche alla legge antica del mare che prevede il soccorso» i gommoni carichi di disperati sono costretti a retrocedere…
 
E quando scrive del Satyricon di Petronio, diventato film per la regia di Fellini, sottolinea che anche il sesso «non è un grido di esultanza, l’affermazione di un principio sicuro di vita, ma piuttosto un’ammissione di debolezza, un regresso, una compromissione grave rispetto a tutto ciò che può garantire elevatezza, che è propria di un mondo in decadenza…».
La terza parte inizia con una suggestiva citazione dalle Mille e una notte: «Narrare è, all’origine, un dono femminile, una parola che una donna rivolge ad un’altra donna e che l’uomo ascolta».
È la voce che da Baghdad a Roma salva le donne, ovunque vittime della violenza del potere maschile; è l’unico strumento di cui non possano essere private, che però può essere utilizzato solo ai margini, all’interno delle case o nelle stanze dei bambini… a meno che la donna non riesca, come Sharazhad, la donna-voce, a incantare, incuriosire, sedurre l’uomo che ha di fronte.
 
A questa donna seduttrice con le parole, le mani, gli sguardi, i silenzi, si sono ispirati poeti e artisti, musicisti e soldati, etnografi e viaggiatori che hanno in tal modo fatto nascere l’idea che le notti arabe siano calde e sensuali e che la civiltà orientale sia comunque più permissiva dell’occidentale.
Ma le tradizioni scritte raccontano eventi cruenti, tradimenti, lapidazioni, morti che mutano attraverso stupefacenti metamorfosi che tendono a realizzare un unico radioso universo, in cui finalmente si realizza l’armonia perfetta tra l’uomo e la natura.
Ne è testimonianza l’antico culto di Allat, la grande dea panaraba, dea della terra e della fecondità, che secondo Erodoto aveva somiglianze con Afrodite, Artemide e Astarte e che a Palmira era rappresentata con un ramo di palma in una mano.
 
Ai suoi piedi dormiva un leone, affiancato da un’antilope, simbolo chiaro «del ripudio della guerra, della morte e di ogni sacrificio di sangue versato».
Ma era una divinità femminile e il patriarcato l’ha sconfitta; l’Isis nel 2015 ha distrutto con furia bestiale il leone alto più di quattro metri, posto a guardia del museo di Tadmor.
Così si conclude questo testo, arricchito anche da un imponente apparato bibliografico.

Luciana Grillo - [email protected]
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