Autonomia e concorrenza nella valutazione degli atenei
Ne parlano Fiorella Kostoris dell'Anvur, Tullio Jappelli e Roger Abravanel, editorialista del Corriere
È possibile valutare in termini oggettivi il merito e la qualità
della ricerca?
E qual è il ruolo dell'ANVUR, l'agenzia nazionale nata proprio con
lo scopo di valutare la qualità del sistema universitario e della
ricerca?
Di valutazione e merito nella ricerca si è parlato alla Sala
Filarmonica di Trento nell'ambito del Festival dell'Economia con
alcuni protagonisti del dibattito sul sistema pubblico della
ricerca: Fiorella Kostoris dell'Anvur, Tullio Jappelli, docente
all'Università di Napoli e Roger Abravanel, editorialista de «Il
Corriere della Sera» e autore di diversi saggi sull'argomento,
introdotti dal giornalista Armando Massarenti.
Tanti gli spunti di riflessione e qualche indicazione finale:
concentrare le risorse pubbliche per spingere sul merito, aprirsi
ai parametri di valutazione internazionale, rafforzare l'autonomia
degli atenei, cambiando il loro meccanismo di governo e spingendoli
verso una maggiore concorrenza per aprire una nuova stagione di
riscatto per le università italiane.
Ma come si è fatta sinora e come si farà la valutazione delle
università italiane?
«Valutare la ricerca è importante da punto di vista strategico per
tre motivi, - spiega Fiorella Kostoris. - La prima è una ragione
informativa: conoscere per individuare la qualità nelle aree di
ricerca sulla base della rilevanza, del rigore e dell'originalità
del lavoro scientifico.
«La seconda è una ragione di tipo comparativo: occorre effettuare
confronti comparativi tra ricercatori della stessa area di ricerca
nella stessa sede o in sedi diverse.
«La terza è una ragione strumentale: conoscere per allocare il
fondi secondo un criterio meritocratico. Tanto più importante,
quanto più i fondi sono scarsi, come ora. Ma i valutatori della
ricerca e i policy makers devono avere ruoli distinti o ci può
essere una commistione (come accadeva per il CNR in passato)?
«L'Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema
universitario e della ricerca), istituita dal MIUR nel 2010, adotta
una soluzione di separazione dei ruoli nel valutare la qualità
della ricerca ed è il ministro che stabilisce l'assegnazione dei
fondi (decisione che è, a sua volta, sottoposta al giudizio
dell'Anvur)».
Nella valutazione della ricerca ha però un peso molto importante
anche il mercato, soprattutto nell'individuare le aree deboli e
forti.
«In questo caso il sistema funziona molto bene e agisce, ad
esempio, sulle tasse universitarie, sui salari differenziati, sulla
mobilità di docenti e studenti o sulle donazioni private. In Italia
alcuni meccanismi, come il valore legale del titolo di studio,
limitano questa regolamentazione da parte del mercato. Le agenzie
di valutazione esterne, invece, si fondano su principi di
trasparenza e indipendenza».
«La valutazione della ricerca oggi si effettua prendono in esame
progetti, processi e prodotti in varie fasi: ex ante, in itinere ed
ex post, nell'ambito di aree disciplinari. La valutazione si basa
sullo strumento della peer review (la valutazione tra pari) e gli
indici bibliometrici (come l'indice delle citazioni del prodotto, o
il fattore d'impatto) che sono facili da usare e ritenuti
genericamente obiettivi, ma spesso incompleti, poco precisi e
penalizzanti rispetto alle discipline socio-umanistiche.
«Ciò che gli esperti ritengono ottimale è la combinazione tra i due
sistemi di valutazione. L'atteggiamento che potrebbe prevalere
nelle future decisioni dell'Anvur in materia di valutazione
potrebbe essere quello di premiare maggiormente il ricercatore
piuttosto che la sede che lo ospita».
Ma come aumentare il livello dell'istruzione terziaria in Europa?
Come investire in ricerca e formazione avanzata e garantire a tutti
l'accesso all'istruzione?
«La scarsa crescita in Europa è in parte da attribuire alla
quantità e qualità della spesa in istruzione e ricerca - commenta
Tullio Jappelli, docente all'Università di Napoli. - Basti pensare
che in Italia la spesa pubblica per l'istruzione ammonta all' 1,3%
contro il 3,3% degli USA.
«Nel Regno Unito l'atteggiamento adottato è quello decentrato che
stimola l'autonomia e la concorrenza tra ricercatori, a differenza
di Francia e Germania che invece hanno optato per un modello
centralistico che opera attraverso bandi unici, o della Spagna che
ha invece un modello federale con finanziamento da parte dei
governi regionali.
«Tutti questi modelli tendono a differenziare l'offerta didattica,
con maggiore autonomia e concorrenza, soprattutto sulla qualità del
corpo docente».
«In Italia l'orientamento del Ministero non è ancora chiaro. Il
sistema universitario è trattato come un unico. La riforma riduce
il grado di autonomia ma non rafforza sufficientemente la
concorrenza tra atenei e piuttosto che disegnare nuove regole di
concorrenza, ha scelto di definire argini a fenomeni quali il
nepotismo.
«La soluzione, a mio avviso, è quella di avvicinarsi ai modelli
europei nella durata dei percorsi di formazione e nei meccanismi di
concorrenza tra atenei. In questo senso, la valutazione dei
ricercatori dovrebbe essere credibile, ma anche rapida e gli
incentivi alla ricerca dovrebbero essere significativi e diretti ai
dipartimenti e ai ricercatori più dinamici.
«Alcune misure concrete potrebbero indirizzarsi verso l'istituzione
di premi per ricercatori, l'avvio di un programma di cattedre di
ricerca affidando la valutazione allo European Research Council,
l'istituzione di un bando di dottorato concentrando le risorse solo
in alcune sedi, il finanziamento della mobilità degli studenti
meritevoli.»
Più netta la lettura di Abravanel.
«In Italia non abbiamo capito il problema della nostra Università.
Il nostro Paese spende un po' meno degli altri in ricerca, ma chi
davvero non investe in ricerca sono le imprese, che non investono
in tecnologia e non assumono i ricercatori.
«Ciò che conta è anche la qualità della didattica, che da noi è un
nodo dolente. Tanti vanno all'università, pagando tasse basse e in
atenei sotto casa. Abbiamo dato il diritto allo studio ma non il
diritto al lavoro, che si gioca sulla qualità. Non abbiamo lavorato
per valorizzare università eccellenti, che avevamo ma che abbiamo
gradualmente perso. I giovani talenti italiani non li conosciamo
perché le valutazioni delle performance dei liceali sono falsate e
così le borse di studio si assegnano o sulla base di criteri di
merito non rispondenti o sulla base del reddito (spesso però
falsato dall'evasione fiscale).
«L'Italia ha un grande bisogno di laureati. I giovani entrano
troppo tardi nel mercato del lavoro e vengono sopraffatti dagli
stranieri che sono più giovani, aperti e flessibili».
«Manca qualunque forma di meritocrazia nel sistema - ha aggiunto
Abravanel - perché gli atenei ricevono sempre gli stessi fondi,
qualsiasi cosa facciano, bene o male. E le università sono divenute
le fabbriche del nepotismo, perché si è perso il senso del
merito.
«Occorre dunque cambiare il meccanismo di governo degli atenei e
allocare i fondi pubblici in funzione del merito, non soltanto
della ricerca ma anche della didattica. La ricerca è molto
difficile da valutare, ma basta partire su concetti semplici e
scegliere di riferirsi a parametri internazionali.»