Hermann Hesse, fra poesia e pittura – Di Daniela Larentis
«Un poeta a cui non bastarono le parole»
Vi sono persone alla ricerca perenne di una pace interiore che pare non arrivare mai, che riescono a trasformare, nonostante ciò, la loro sofferenza spirituale e fisica in qualcosa di veramente grande e a cogliere il vero significato della vita. Una di queste fu Hermann Hesse, famosissimo scrittore, poeta e pittore tedesco, il quale affermò che «affinché si realizzi il possibile si deve sempre tentare l’impossibile».
Insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1946, visse tuttavia gli anni giovanili in maniera travagliata, tentò infatti il suicidio e finì perfino in manicomio.
Nel 1911 partì da Genova per andare in India, in realtà viaggiò in Indonesia, per poi approdare a Ceylon dove sbarcò (questo viaggio lo colpì profondamente, tanto che se ne trova traccia nei suoi romanzi).
La sua biografia non è certo un segreto, così come la sua grande opera letteraria (scrisse molto, i suoi libri sono stati tradotti in più di 60 lingue).
Parlando di lui torna immediato alla mente il titolo di un universalmente noto romanzo, «Siddharta» (edito nel 1922), che narra la storia di un giovane indiano, del suo viaggio intrapreso inizialmente con il suo amico d’infanzia Govinda, dal quale poi si separa (si incontreranno più in là, in un momento cruciale della sua esistenza e alla fine del racconto).
Un cammino attraverso molteplici esperienze e dubbi esistenziali che si rivelerà un lungo percorso interiore, durante il quale scoprirà fra l’altro anche una tanto semplice quanto poco scontata verità e cioè che anche l’uomo più puro e più retto, armato dei più buoni propositi, può nella vita cadere vittima di quelle stesse debolezze umane che prima considerava estranee a se stesso.
Per quanto ci si possa sforzare, infatti, ognuno di noi, se non lo ha già fatto, si troverà prima o poi a fare i conti con la propria fragilità, in almeno una delle sue forme.
E la forza sarà proprio nel saperla riconoscere e nel volerla superare. Accettare.
Credo che saper accettare le proprie debolezze sia un processo alquanto più difficile che accettare quelle altrui, in fondo.
È più facile perdonare gli altri che sé stessi, anche se molti sono convinti dell’esatto contrario.
Nel suo libro «Sull’amore» (Oscar Mondadori), Hesse esprime molto bene il suo concetto d’amore: «Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che da valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire.
«Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici.
«La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza.
«Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla.
«C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita.
«Ma amare e desiderare non sono la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere; vuole soltanto amare».
Famoso per i suoi aforismi («l’eccessivo valore che diamo ai minuti, la fretta, che sta alla base del nostro vivere, è senza dubbio il peggior nemico del piacere», nonché «anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno», tanto per citarne alcuni), scrisse fra le sue numerosissime opere romanzi, racconti e svariate raccolte di poesie.
Della sua vita e dei suoi scritti si conosce parecchio, vi è tuttavia una raccolta di composizioni che in Italia è ancora poco nota, un vero capolavoro, un libro intitolato «Musica e solitudine» (edizione italiana Reverdito, a cura di Paola Maria Filippi, con la collaborazione di Chiara Marsilli) che raccoglie una sessantina di sue straordinarie poesie e una serie di suoi acquerelli (otto meravigliose opere).
Un vero gioiello letterario.
Come si legge a pag. 161, «Hermann Hesse fu un poeta al quale non bastavano le parole. L’urgenza di esprimere tutta la ricchezza del proprio mondo di pensieri e immagini interiori lo avvicinò alla pittura, e in particolare all’acquerello. La rapidità d’esecuzione e la versatilità di questa tecnica gli hanno permesso di realizzare nel corso degli anni oltre 3000 opere».
E ancora: «… a Franz Karl Ginzkey Hesse scriveva: «Il produrre con penna e con pennello è per me un vino la cui ebbrezza riscalda l’esistenza rendendola gradevole al punto che diviene sopportabile»».
Fra le poesie proposte («si tratta di liriche intense, colme di nostalgia per un’infanzia e una giovinezza luminose, ricche di esperienze personali e affettive felici» come si legge nel libro) ne ho scelta una che qui di seguito riporto, lasciando a ognuno una libera interpretazione.»
«Breve sosta» di Hermann Hesse.
Anima mia, uccello timoroso, tu
sempre ti devi chiedere:
quando dopo così tanti giorni d’affanno
arriverà la pace, arriverà la quiete?
Oh, lo so bene. Forse neppure
sotto terra avremo giorni tranquilli:
per nuova nostalgia
ogni caro giorno ti sarà un tormento.
E tu, appena al sicuro,
ti affannerai per nuovi dolori
e colmo d’impazienza lo spazio
incendierai come la stella più nuova.
Molte persone si chiedono la stessa cosa ogni giorno.
Quando… quando arriverà un po’ di tregua a lenire il dolore profondo che opprime il cuore, come un macigno troppo pesante, dando l’impressione di ostacolare, quasi, il respiro?
La vita, infatti, sembra disseminare il cammino di ostacoli, divertendosi a mettere alla prova il coraggio e la capacità di accettazione di ognuno.
Per alcuni, naturalmente, questo discorso vale più che per altri, anche se non si può misurare il dolore altrui, perché alcune persone per una svariata serie di motivazioni lo dissimulano.
Si proteggono, forse, dalla cattiveria del mondo, ostentando un’ apparente superbia, un malcelato orgoglio.
Trovare la pace interiore ascoltando il fiume come il vecchio barcaiolo Vasudeva, tornando al romanzo «Siddharta», con cui il protagonista ormai non più giovane trascorre alcuni significativi anni, è per molti un’utopia. Un sogno davvero irraggiungibile.
Per Siddharta un’ulteriore prova da superare è l’atteggiamento del figlio che a un certo punto del suo viaggio si trova a dover crescere (l’esatto suo opposto, ribelle e perennemente annoiato, senza nessuna voglia di imparare nulla).
Parlando di lui a Vasudeva, ecco cosa il vecchio gli risponde (pag. 162 «Siddharta» Ed. Adelphi):
«Lo sapevo. Tu non lo costringi, non lo picchi, non gli dai ordini, perché sai che c’è più forza nel molle che nel duro, sai che l’acqua è più forte della pietra, che l’amore è più forte della violenza.
Molto bene, ti lodo. Ma non ti sbagli forse, credendo di non costringerlo, di non castigarlo?
Non lo leghi tu forse in catene con il tuo amore? Non lo svergogni ogni giorno e non gli rendi la vita ancor più dura con la tua bontà e con la tua pazienza?
Non lo costringi forse a vivere, lui, un ragazzo orgoglioso e viziato, in una capanna con due vecchi mangia-banane, per i quali il riso è già una leccornia, i cui pensieri non possono essere i suoi, il cui cuore è vecchio e calmo e ha un altro passo che il suo?
Tutto questo non è forse costrizione, castigo, per lui?»
Dopo anni travagliati questo figlio se ne andrà via, procurandogli un immenso dolore che solo la voce del fiume riuscirà a lenire lentamente, e lui acquisirà a quel punto una maggior comprensione del mondo e di se stesso.
Siddharta così spiega verso la fine del racconto all’amico ritrovato: «Ho trovato un pensiero, Govinda, che tu riterrai di nuovo uno scherzo o una sciocchezza, ma che è il migliore di tutti i miei pensieri.
Ed è questo: d’ogni verità anche il contrario è vero!» e ancora, più avanti nel discorso:
«Ma il mondo in sé, ciò che esiste intorno a noi e in noi, non è unilaterale. Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore. Sembra così, perché noi siamo soggetti all’illusione che il tempo sia qualcosa di reale. Il tempo non è reale, Govinda…»
Ma la riflessione più bella, a parer mio, è contenuta in uno splendido e commovente monologo (pag. 192):
«… l’amore, o Govinda, mi sembra di tutte la cosa principale. Penetrare il mondo, spiegarlo, disprezzarlo, può essere l’opera dei grandi filosofi.
«Ma a me importa solo di poter amare il mondo, non disprezzarlo, non odiare il mondo e me; a me importa solo di poter considerare il mondo, e me e tutti gli esseri, con amore, ammirazione e rispetto».
Daniela Larentis