Dario Marconcini, guardiano degli alberi – Di Maurizio Panizza
La storia di Dario Marconcini, «Una vita per la musica. La musica per la vita»
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All’incontro arriva puntuale in moto, parcheggiandola davanti al Casinò. Intorno, l’atmosfera pare quella della Belle Epoque ai tempi dell’Impero, la migliore stagione di quella che fu allora una rinomata località di turismo e cura della nobiltà austriaca.
Come in quegli anni, infatti, sono numerose le persone ai tavolini della veranda che dà sulla passeggiata di Viale delle Palme e nonostante il triste periodo della pandemia anche oggi, a distanza di più di un secolo, i clienti sembrano gustarsi beatamente la loro bevanda ai primi raggi di sole di metà febbraio.
Stavolta, però, non siamo qui ad Arco per parlare di storia, quanto meno non quella di quest’antica terra di confine.
Oggi è la storia personale di Dario Marconcini che ci preme raccontare, quella che vorrebbe spiegare ai lettori di come si diventa musicisti e compositori a tutto tondo. Sì, perché veri artisti non si nasce, ma si diventa.
Che poi sia necessario avere qualcosa in più nel DNA, è ovvio, ma è attraverso le esperienze della vita, con la determinazione, con la resilienza e pure con un po’ di fortuna che si possono raggiungere livelli di eccellenza.
In tal senso se Steve Hackett, storico chitarrista dei Genesis, si è scomodato recentemente per ascoltare l’ultimo lavoro di Marconcini, significa che c’è veramente «sostanza» in ciò che il musicista nostrano compone ed esegue.
«Mi è piaciuto questo progetto, – è stato il commento di Hackett. – Ha in sé un'atmosfera magica. È veramente eccezionale.»
Il progetto di cui parla il grande cantante e compositore inglese è l’ultimo lavoro di Marconcini, «Fireflies in the Wood» (Lucciole nel bosco), presentato dall’autore alla critica internazionale sotto lo pseudonimo di «Watcher of the Trees» (Guardiano degli alberi), quello che da diversi anni è il brand del musicista arcense, più conosciuto all’estero che non in patria, come accade spesso.
Una delle tante riviste internazionali che hanno parlato in questi anni di Dario Marconcini.
Ma come nasce un artista nel campo della musica? Lo chiediamo direttamente a lui che oltre ad essere musicista abbiamo scoperto essere, per certi versi, pure un filosofo e uno scrittore di classe.
«La passione per la musica ce l’ho fin da bambino. In casa c’era sempre la radio accesa perché la mia mamma amava molto le canzoni. Così, di riflesso, è accaduto che le note e le armonie mi entrassero dentro in maniera naturale e spontanea. Poi, devo dire, avevo una qualità innata: quella di sapere ascoltare».
In effetti, questa deve essere una qualità preziosa se pure il grande Ezio Bosso disse un giorno che «La musica ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare». Tant’è che Marconcini pare aver messo a frutto le sue straordinarie capacità di ascolto.
«Da ragazzo mi piaceva stare da solo andavo per i boschi di San Giovanni al Monte [sopra Arco -NdR] e a volte tornavo alla sera. Ascoltavo i suoni della natura, gli animali, il canto degli uccelli.
«Da lì, probabilmente, è nato in me il sentirmi parte di questo mondo, una specie di osservatore, anzi, un guardiano degli alberi come ho voluto chiamarmi in seguito.»
Abbiamo capito l’origine di questa lunga storia d’amore con la musica, ma poi, negli anni successivi, che successe?
«Successe che alle medie feci amicizia con un ragazzo che come me amava un sacco ascoltare canzoni. Solo che lui, anziché un piccolo mangiadischi come avevo io, possedeva un impianto stereo incredibile.
«Passavamo pomeriggi interi nel suo studio, distesi sulle poltrone, spesso al buio con gli occhi chiusi, ad assaporare in particolare il gusto della musica inglese e di quella americana: una cosa fantastica.»
E poi?
«Beh, poi arrivò la fine della terza media e lì avvenne uno di quei passaggi della vita che lasciano il segno. Il tutto si concretizzò con una frase lapidaria di mio padre quando espressi il desiderio di iscrivermi al Conservatorio. “Ricordati che con il pianoforte non si mangia!” – rispose, distruggendo in un lampo tutti i miei sogni di diventare musicista. Peggio di un pugno nello stomaco. Fu così che in quegli anni mi appassionai di calcio e di motocross, rimanendo pur sempre la musica il mio primo interesse in assoluto.»
Guardando all’oggi, a dove sei arrivato, qualcosa l’avrai pur fatta in seguito, no?
«Certo. Se mio padre non comprese le mie aspirazioni, la mia mamma, invece, mi incoraggiò sempre, talvolta diventando mia complice nel nascondere a lui certi acquisti che io tenevo gelosamente custoditi in camera, all’interno dell’armadio.
«Si trattava di un impianto stereo che quando papà non c’era, tornava alla luce con le canzoni dei Genesis, dei Pink Floyd, di Peter Gabriel e di tanti altri mostri sacri che per me rappresentavano già allora la “Bibbia” della musica rock.»
E dunque?
«Mi dissi che se non avevo potuto fare il Conservatorio, la musica, comunque, doveva avere uno spazio importante nella mia vita. Così, a metà degli anni Ottanta smisi con le gare di motocross e con il calcio e iniziai a suonare strumenti e a comporre canzoni. Finita la scuola professionale e dopo aver fatto qualche lavoro, nel 1993 entrai in ZF (una multinazionale metalmeccanica con uno stabilimento ad Arco, ndr) dove all’inizio venni assunto come magazziniere. Da lì in avanti non ho più smesso di crescere, sia sul lavoro che nella musica».
In effetti, da quanto ci racconta, Dario in pochi anni scalò le tappe in azienda, arrivando prima a capo magazziniere, capo programmatore e poi, su su fino a ricoprire il ruolo di responsabile di produzione. Niente male come carriera. E nella musica?
«In quella, all’inizio cercai da autodidatta di imparare a suonare la tastiera, poi visti gli scarsi risultati, mi dedicai alla registrazione e infine trovai il mio ruolo come tecnico del suono.
«Nel 1986 fondai con un amico la rock band The electric Shields, qualche anno dopo feci altrettanto con i “Moonshiners”, un nuovo gruppo.
«Fu un successo in entrambi i casi: diversi dischi pubblicati e quasi un centinaio di concerti eseguiti. All’inizio degli anni Duemila, però, decisi di prendermi una pausa. Era arrivato il momento di cimentarmi da solo.»
È da lì che inizia la storia del «Guardiano degli alberi»?
«Esatto. Cominciai a vedermi dentro e a guardare fuori, riscoprendo la bellezza della musica ovunque essa sia, nel silenzio del bosco, come nel rumore del traffico. E con questo arrivò l’urgenza di scrivere. Fu nel corso di tante passeggiate in montagna e nell’osservare gli alberi che nacque in me l’idea di raccontare le tante storie nascoste nel bosco. Così sono nate dodici canzoni, ognuna delle quali riprende il tema fantastico degli uomini visti attraverso gli occhi degli alberi.»
In queste canzoni sei il compositore, ma anche il cantante solista. È così?
«In effetti, pur riuscendo a suonare molti strumenti, non sono un grande esecutore, per cui mi sono assunto il ruolo di cantante solista. Come esecutori, invece, ho cercato di affiancarmi a bravi musicisti che eseguissero al meglio le mie composizioni.
«A tale proposito devo dire che trovare le persone giuste non è stato affatto semplice. Alla fine, però sono riuscito a mettere assieme un gruppo molto affiatato di dodici musicisti di alto livello, molti dei quali veri professionisti, anche se poi far coincidere i loro tempi e mettere insieme le parti è stata un’ulteriore impresa. In quel periodo di giorno lavoravo in azienda, di notte mi dedicavo alle mie canzoni.
«Perchè vivere la nascita di una canzone è come scrivere un libro e per me la notte è sempre stata la migliore ispiratrice di sentimenti, di parole e di musica».
Dodici canzoni, ma non solo musica, appunto. Come sono nati i testi di «Fireflies in the Wood», il tuo ultimo album?
«Se, come dicevo, la notte è la mia musa ispiratrice, non di meno la stessa cosa vale per la natura. È cominciato tutto in modo semplice, tra boschi, paesaggi, albe e tramonti, ruscelli, foglie e soprattutto alberi: elementi arrivati come la fresca brezza del mattino a trasformare le suggestioni in parole e poi in musica.»
Come allegato al cd, c’è pure una magnifica storia intitolata «L’albero e la stella». Mi dicevi che anche di questa chicca preziosa sei tu l’autore. A tale proposito un’ultima domanda per concludere l’intervista.
Alla fine di questo racconto si legge: «Spesso chiedevano all’albero dei consigli e lui si prodigava per cercare di dare a tutti una risposta adeguata. Così imparò la saggezza. Passarono le stagioni e ritornò l’estate. Pensava ai tanti anni trascorsi ad osservare il cielo e si chiedeva se fosse stato tempo sprecato. Forse no. In cuor suo sapeva di non avere rimpianti».
Ecco, volevo chiederti: questa dell’albero è forse una metafora della tua vita?
«Se quello della saggezza potrebbe sembrare un pensiero assai presuntuoso, in realtà non lo è. Ho sempre sofferto di impulsività cercando negli anni di imparare ad essere riflessivo e a vivere come esperienze universali le cose negative che la vita ci può riservare.
«Ma per fortuna arriva sempre l’estate a riscaldarci ancora... Il cielo, poi, è un mistero al quale non dovremmo abituarci mai, come a tante altre cose in natura. Non capita forse a tutti, la mattina, di guardare fuori per vedere com’è e osservare attentamente il cielo per trarre da esso una conferma di come sarà la nostra giornata?
«Qui, sebbene si parli di anni già trascorsi, queste frasi in verità rappresentano il futuro. Quel futuro che per tutta la vita si cerca in ogni momento, in ogni emozione…
«È il tempo che scorre e che non deve essere sprecato. Alla fine, come avrai capito, in ciò che ho scritto ci sono io, ma ci puoi essere anche tu, ci possono essere tante persone.
«Tutte accumunate dalla ricerca della propria strada che per me è stata quella della musica. Quella della bellezza, del fascino, quella che riesce a fermare il tempo e, come una medicina, anche a guarirci dagli inciampi drammatici della vita.»
Maurizio Panizza
Questo è un link per avere un saggio dell’ultimo album di Marconcini: https://vimeo.com/user93284631