Nel maggio di 100 anni fa si preparava la 2ª Battaglia del Piave
L'Italia, dopo la disfatta di Caporetto, aveva raccolto le forze per il sacrificio supremo
Il Piave, fiume sacro alla Patria.
Il 15 giugno di 100 anni fa iniziò la Seconda battaglia del Piave, poi chiamata Battaglia del Solstizio.
Fu l’ultima grande battaglia combattuta tra Itala e Impero asburgico, perché a tutti gli effetti il risultato segnò chiaramente chi avrebbe vinto la guerra, anche se tecnicamente la fine sarebbe avvenuta solo quattro mesi dopo a Vittorio Veneto.
La prima Battaglia del Piave era finita il Natale del 1917, quindi passarono sei mesi senza che le due potenze militari venissero a scontri di una certa importanza. Ed è proprio studiando che cosa accadde tra le due battaglie del Piave che si trovano le ragioni di come andarono le cose sul campo di battaglia.
Prima di affrontare la Battaglia del Solstizio, dunque, provvederemo a tracciare un quadro delle due situazioni, quella Italiana e quella Austro Ungarica.
In questo servizio cominceremo parlando del Regno d’Italia.
La Germania aveva ritirato le proprie divisioni che aveva inviato per aiutare l’Austria Ungheria a sfondare a Caporetto. Berlino però aveva capito che il tempo giocava a favore dell’Intesa, quindi doveva tentare il tutto e per tutto sul fronte francese. Riportate in casa le forze non più impegnate sul fronte russo, Ludendorff scatenò la cosiddetta «Offensiva di primavera», di cui abbiamo già parlato (vedi).
Il comandante supremo italiano, generale Armando Diaz, aveva dunque preso atto che al momento si trovava a fronteggiare solo il vecchio avversario tradizionale: l’esercito austriaco. Nella situazione di «parità virtuale», l’Italia poté dunque prendere fiato e leccarsi le ferite generate dalla disfatta di Caporetto e dalla Battaglia d’Arresto sul Piave.
Dai campi di raccolta dell’enorme massa di sbandati, Diaz riuscì a ricostituire 104 reggimenti di bersaglieri, di fanteria e alpini. Oltre a questi riuscì a organizzare 47 battaglioni di riserva, 812 compagnie mitragliatrici, 69 compagnie di zappatori, 72 di telegrafisti, 11 di pontieri.
Riuscì a costituire 22 reggimenti di artiglieria da campagna con 188 batterie e 50 da montagna, 80 batterie pesanti campali e 91 da assedio, nonché 75 di bombarde, le armi micidiali per spazzare i reticolati.
Poiché a Caporetto erano andate perdute 3.152 bocche da fuoco, ne erano rimaste 3.986. I Francesi ne avevano subito prestate 500 e gli Inglesi 300, ma la grossa sorpresa venne dall’Ansaldo che, oltre alla produzione di 650 pezzi al mese ordinati dal Governo, ne aveva prodotti di propria iniziativa altri 2.000.
Agli inizi di giugno 1917, Diaz potrà contare su 7.000 bocche da fuoco e oltre due milioni di proiettili. Il munizionamento per la prima volta nella guerra non farà difetto e proprio nel momento cruciale.
Anche l’aviazione comincia a divenire un’arma cruciale per la sorte dei combattimenti. La produzione industrializzata di velivoli era cominciata solo nell’ottobre 1917, ma l’Ansaldo riuscì a consegnare per giugno 556 aerei. Entro la fine della guerra ne avrebbe prodotti 2.000. Gli inglesi avevano aggiunto 80 aerei e gli inglesi altri 20.
Anche il rapporto con i soldati era decisamente cambiato. Dopo la catastrofe del 1917, gli alti comandi capirono che il morale del soldato era più importante del suo stesso armamento.
Gli avvicendamenti in prima linea divennero rapidi, le licenze più frequenti, più diffusi i premi (anche in denaro), spettacoli e altre distrazioni erano organizzate da apposite «compagnie di propaganda».
Il servizio informazioni registrava un morale «discreto» nella truppa. Ma a maggio, quando giunse notizia che presto gli austriaci avrebbero attaccato, si verificò il più alto numero di diserzioni di tutta la guerra.
I disertori vennero recuperati ma le fucilazioni furono molto minori che ai tempi di Cadorna.
In vista della battaglia che si annunciava per il Solstizio, i comandi istituirono campi per prigionieri e… per sbandati.
Da tutte queste situazioni si intuisce che dal punto di vista strategico, il Comando aveva impiegato le proprie risorse solo per capire da dove sarebbe arrivato l’attacco del nemico. Il che la dice lunga sullo stato d’animo dei nostri comandi: non si parlava di attacco ma di difesa.
E con una certa dose di eccessivo realismo, vennero approntati piani di evacuazione di alcune città anche lontane dal fronte, come Verona e Rovigo.
Una nuova linea di difesa arretrata potenziale venne individuata tra il Mincio e il Po. Il governo peraltro sapeva che nel caso di uno sfondamento generale come a Caporetto avrebbe dovuto intavolare trattative per un armistizio.
Ma torniamo alla situazione militare.
Il fronte si era accorciato a 200 chilometri, sul quale poteva adesso schierare 55 divisioni.
All’estrema sinistra, dallo Stelvio al Garda, aveva disposto la 7ª Armata del generale Tassoni, costituita da 4 divisioni. Ma l’orografia consentiva al Comando di non preoccuparsi troppo di quella parte del fronte.
Dal Garda alla sinistra dei Sette Comuni stava la 1ª Armata, detta del Trentino, del generale Pecori Giraldi, con 8 divisioni, su un fronte di 50 chilometri.
Da Sculazzon al Brenta fino alle pendici del Grappa vi sono le sei divisioni della 6ª Armata del generale Montuori su un fronte di 24 chilometri.
Dal Grappa a Ponterobba il generale Giardino dispone di 7 divisioni su un fronte di 20 km.
Diaz ha quindi ammassato un totale di 24 divisioni dal Garda a Valdobbiadene.
Il settore più delicato era rappresentato per il Comando supremo dalla fascia montana che va da Arsiero al Grappa. Lo spazio che dovevamo difendere in quota non superava i 5 chilometri e quindi sarebbe bastato poco per gli Austriaci cacciarci in pianura e da lì colpire il fianco sinistro del nostro schieramento.
Per questo Diaz aveva disposto in quel tratto otto decimi delle forze disponibili, mentre costituì il grosso delle riserve tra Mirano e Castelfranco Veneto. Da lì, se necessario, avrebbe potuto affrontare un’eventuale rottura del fronte montano.
Proseguendo sulla linea del fronte verso est, Diaz aveva disposto da Ponterobba a Palazzon l’8ª Armata del generale Pennella, con soltanto tre divisioni su un fronte di 25 chilometri, che comprendeva il Piave e il Montello.
La gloriosa 3ª Armata del Duca D’Aosta, l’unica che non aveva «rotto» nella ritirata di Caporetto, era detta «Del Piave» perché con le sue sei divisioni doveva difendere i 45 chilometri del corso d’acqua da Palazzon al mare. Questa armata però era appoggiata da una grande quantità di batterie della Marina.
Alle spalle di questo dispositivo c’era inoltre la riserva generale, con 19 divisioni raggruppate nella 9ª Armata del generale Morrone. Nella riserva si contavano anche tre divisioni britanniche, due francesi e una cecoslovacca.
Secondo gli storici, questo dispositivo presentava dei punti deboli anche fortemente critici.
Anzitutto due divisioni erano dislocate inutilmente a occidente del Lago di Garda, mentre altre erano solo sulla carta perché ancora in fase di costituzione.
Ma l’errore più grave stava nel fatto che nessuna delle divisioni di riserva era a distanze apprezzabili in termini di tempo dai punti deboli dello schieramento, gli altipiani e il Grappa.
Sempre secondo gli storici, da questo dispositivo emergeva l’assoluta mancanza di idee sulla guerra manovrata. Nessuna divisione di riserva era in grado di portarsi nel teatro operativo in meno di 24 ore, quando le riserve avrebbero proprio lo scopo di partecipare attivamente alle battaglie su disposizione del comando.
Da parte loro, come vedremo nella prossima puntata, gli austriaci non avevano una migliore visione strategica della guerra. Nei loro obiettivi c’era semplicemente la «distruzione delle armate italiane», nessuna operazione manovrata.
G. de Mozzi.
(Continua)