Lectio degasperiana 2023 - Di Daria de Pretis
«Una Autonomia oltre i confini: De Gasperi e il primato del bene comune»
Lectio degasperiana 2023
«Una Autonomia oltre i confini»
De Gasperi e il primato del bene comune
di Daria de Pretis
Vice Presidente della Corte costituzionale
Pieve Tesino, 18 agosto 2023
1. Storie di confine
L’idea di costruire questa riflessione sull’autonomia intorno al concetto di confine nasce da una constatazione e da una convinzione.
La constatazione è quanto il confine sia stato decisivo nella vita di Alcide De Gasperi e nell’esperienza dell’autonomia di questa terra. Nell’una e nell’altra confini e autonomia si sono intrecciati in una storia comune.
La convinzione è che, anche nella prospettiva dell’autonomia, il confine non è solo limite, difesa dall’esterno, chiusura, ma può essere linea di collegamento, luogo di relazione e di scambio, cerniera fra le diversità che delimita, apertura. Questo secondo senso del confine su cui costruire per il bene di tutti, ispira il pensiero e l’azione di Alcide De Gasperi.
Uomo di confine – come tante volte è stato messo in evidenza, in una lettura che lo accomuna in questo tratto ad altri uomini di confine, Schuman e Adenauer fra tutti, che, insieme a lui, costruirono l’Europa – non visse mai il confine come un muro da abbattere, né un recinto dentro cui rinchiudere un’autonomia difensiva. Per lui la frontiera fu una realtà concreta, da accettare nella sua esistenza e nella sua potenziale instabilità, e al tempo stesso da valorizzare, creando sul suo crinale relazioni positive proiettate a obiettivi di pacifica convivenza.
In questo modo di interpretate il confine nella vicenda di un popolo che aspirava ad autogovernarsi è stata centrale un’idea concreta, mai ideologica, sempre politica, di autonomia.
Dell’autonomia, De Gasperi, più che parlare fece pratica costante in tutte le diverse e inaspettate situazioni in cui si trovò a operare, nello straordinario percorso della sua esistenza. Ispirato non a un’idea astratta, tantomeno a un’idea definitiva o autoreferenziale di autonomia, ma sempre all’obiettivo di realizzare attraverso essa il buon governo, la buona amministrazione, l’interesse generale.
Sono rarissime le definizioni di autonomia nei suoi scritti e nei suoi discorsi, e non sono molti nemmeno i riferimenti.
L’autonomia fu per lui una serie di invenzioni pratiche, che traevano origine dalla storia dei popoli, ma si venivano delineando di volta in volta secondo modelli diversi in ragione di confini sempre decisi altrove: la frontiera dell’impero, quella italiana ridefinita al termine della Prima guerra mondiale, quella confermata dagli Alleati al termine della seconda. Sempre nella consapevolezza del carattere relativo di quei confini e della necessità di trovare, con impegno e pazienza, soluzioni che garantissero al di là di essi, convivenza, benessere e pace.
Di qui l’idea di guardare all’autonomia “oltre i confini”.
2. Un confine mobile
Nato nel Trentino asburgico ed eletto rappresentante della sua comunità alla Camera dei deputati del Reichsrat, De Gasperi non fu un irredentista.
Difese, a Vienna, quella minoranza lontana che era il suo Trentino, occupandosi essenzialmente di cose concrete, sia in tempo di pace – per tutte l’agognata università italiana dell’Impero – sia poi ancora di più con la guerra. Quando la posizione di quella minoranza divenne critica, per l’identità italiana prima ancora che per la collocazione sulla linea del fronte italiano, dedicò la sua attenzione ai soldati di lingua italiana, offesi e maltrattati per questo, e alla popolazione deportata nei campi profughi.
Cura e preoccupazione – più che rivendicazioni – che già manifestano lo stile del suo approccio realistico e concreto: la ricerca di un equilibrio possibile su un confine che egli non metteva in discussione, ma in nome del quale chiedeva riconoscimento e rispetto di una peculiare condizione collettiva. In una logica che non era di rottura, ma di paziente composizione degli interessi in campo. Senza venire mai meno, anche nei frangenti più tragici, a quella visione universalistica dell’umanità che sta alla base del suo pensiero politico e trae origine dalle sue convinzioni religiose più profonde.
Nel suo penultimo discorso alla Camera dei Deputati di Vienna, nel 1918, ormai a ridosso del crollo dell’Impero, quando le sorti di tutti, comprese quelle del Trentino, sono ancora completamente incerte, De Gasperi resta fedele al suo spirito costruttivo e cita Dante: «Abbiamo fiducia in noi […] “da questo inferno di orrore e tormento” finalmente risorgeremo per approdare come il nostro divino poeta sull’isola della luce, davanti al mare aperto, sul quale si avvicinano gli spiriti, cantando in coro «In exitu de Aegypto, con quanto di quel salmo è poscia scritto”».
Con la fine della guerra il confine si muove e determina quello che lo stesso De Gasperi chiama il «capovolgimento della situazione sulla nostra frontiera alpina». Le parti delle popolazioni sul suo crinale si invertono: la popolazione di lingua tedesca del Tirolo del Sud si trova ora nella condizione dei trentini nell’impero asburgico.
Anche nella nuova realtà italiana, il tema dell’autonomia del Trentino resta presentissimo – anche se ora meno esclusivo – nella sua riflessione, ma, di nuovo, tutto è tranne che retorica identitaria o rivendicazione riducibile alla pretesa di un trattamento particolare.
Si intreccia invece con una pluralità di temi che vanno oltre i confini della terra di origine e della sua autonomia. Certo, ci sono l’attenzione – e la richiesta di attenzione – per le «tendenze particolari in materia di amministrazione» e le «preoccupazioni d’indole economico-sociale» per quei peculiari istituti e organismi che vi sono nel Trentino in materia di organizzazione pubblica e che «vanno assolutamente conservati». Ma non è solo questo che lo porta a «chiedere ad alta voce il mantenimento sostanziale dell’autonomia provinciale», e, in logica connessione con essa, anche dell’autonomia comunale.
C’è in primo piano l’assillo – slegato dalla mera esigenza di preservare le caratteristiche della buona tradizione trentina – per le insidie quotidiane della burocrazia statale, in cui non si ritrovano quei «criteri d’ordine, di serietà, di metodo» ritenuti assolutamente indispensabili per una buona amministrazione.
C’è così, già espressa in queste parole, la sostanza più profonda che anima il suo senso dell’autonomia, interpretata come strumento per realizzare la democrazia e garantire il buon governo.
C’è ancora – un dato straordinario, se pensiamo che siamo nel 1919 – l’aspirazione a che il programma autonomistico non riguardi solo la relazione fra l’Italia e il Trentino, poiché – come diceva con la cautela di chi teme che la voce degli “ultimi venuti” possa risultare immodesta – «lo stesso interesse autonomistico rende tutte le province sorelle, perché il centralismo livellatore della burocrazia ed il capitalismo accentratore sono nemici di tutte».
La visione autonomista di De Gasperi va già oltre i confini del Trentino e aspira a farsi visione nazionale in nome, non di principi altisonanti, ma di un’idea di autonomia al servizio del bene comune e per questo massimamente da condividere nella nuova realtà di appartenenza.
Il superamento della dimensione localistica si fa evidente nell’impegno di De Gasperi in Parlamento e nelle sedi nazionali del suo partito. Nel primo discorso alla Camera dei deputati del Regno, nel giugno del 1921, la auspicata garanzia di organismi espressione delle forze locali non è presentata come semplice antidoto al rischio di ribellioni alla frontiera, e nemmeno come mero presidio di una minoranza, ma è lanciata come proposta politica nazionale, come metodo generale di organizzazione dello Stato: «questo programma dei rappresentanti delle nuove province è programma anche generale del partito popolare italiano per tutto il regno».
Di nuovo siamo “oltre i confini”: De Gasperi non rinuncia a portare nella nuova proiezione nazionale quanto ha maturato nella sua esperienza. Dà conto della buona situazione della burocrazia nelle nuove province, la difende, ne chiede la tutela ma va oltre: «per questo noi domandiamo che la riforma della burocrazia non si applichi sic et simpliciter agli impiegati delle nuove province» e che quanto praticato in esse sia invece «un laboratorio sperimentale» di autogoverno e di coesistenza fruttuosa.
3. Un’autonomia con più confini
Il tema del confine ritorna in primo piano alla fine della Seconda guerra mondiale.
L’autonomia dell’Accordo De Gasperi-Gruber (1946) è disegnata su una pluralità di confini: il confine del Brennero riconfermato, il confine della nuova regione autonoma, il confine delle due province di Trento e di Bolzano. Noi sappiamo quanto delicato fosse il progetto di calare su questo insieme di confini l’autonomia definita nell’accordo; sappiamo anche cosa sarebbe accaduto dopo, fino agli approdi del Secondo statuto (1972).
In quel momento a molti il coinvolgimento del Trentino parve naturale, altri si interrogarono sul suo significato, altri ancora lo lessero come un vantaggio ingiustificato, frutto di una scelta di De Gasperi a favore della sua terra. A me pare che l’onestà politica e intellettuale di De Gasperi emerga dalla coerenza del disegno tracciato dall’Accordo con tutto quanto egli stesso aveva sempre affermato, fin dalla riunificazione, sulla situazione delle due popolazioni e sull’aspirazione di ciascuna – condivisa, per quanto nel tempo a parti invertite – ad autogovernarsi.
L’ipotesi interpretativa di Iginio Rogger – esposta anche nella sua lectio degasperiana su autonomia e identità trentina nel 2009 – è che «l’idea di civiltà» ispiratrice dell’Accordo esigesse per la minoranza tedesca dell’Alto Adige «condizioni pienamente equiparate a quelle godute dalla maggioranza italiana nel suo stato nazionale italiano». Di ciò racconta di aver avuto conferma dallo stesso Gruber, secondo cui De Gasperi sarebbe stato convinto che «se l’autonomia si realizza per i trentini, si realizza anche per i sudtirolesi; ogni pericolo di vanificarla verrà respinto anche dai trentini». Insomma: ciascuna autonomia si sarebbe rafforzata appoggiandosi all’altra, in una relazione di apertura, condivisione e mutuo aiuto.
Si può o meno condividere questa impostazione, ma quel che è certo è che l’Accordo interpretava una realtà alquanto complessa e aspirava a rispondere a istanze di particolare delicatezza: il quadro giuridico tracciato con esso su una realtà dai molti confini ha costituito una soluzione lungimirante che ha consentito adattamenti progressivi della stessa autonomia.
Una pluralità di confini che non è ormai, nemmeno essa, un sistema chiuso. Nello spazio europeo che apre le frontiere e prefigura nuovi luoghi di cooperazione, anche istituzionale, si prospettano nuovi modi di “andare oltre i confini”.
Del resto, non è solo lo spirito di apertura al mondo della nostra Costituzione (art. 10 e 117, co. 1) che legittima queste prospettive. È, prima ancora, il carattere originario dell’autonomia, che precede e condiziona il suo riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico dello Stato – e la colloca dunque in qualche modo “oltre lo Stato” – che prefigura dimensioni diverse da quella nazionale.
La vicenda dell’Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino non è una semplice prospettiva, ma una realtà che ha già iniziato a dare i suoi frutti, come dimostrano fra le altre le azioni intraprese nella cooperazione universitaria, anche per parte attiva delle università interessate, significativamente, a loro volta, espressione di autonomia.
Guardando indietro, non possono non colpire lo spirito di apertura e la lungimiranza di De Gasperi quando, parlando a Trento nel 1948 della soluzione raggiunta sull’autonomia del Trentino-Alto Adige, sottolineava come essa rappresentasse non solo una via di collaborazione italo-tedesca, ma una risposta «ai desideri della politica internazionale più larga, che guarda al di là, oltre l’orizzonte delle nostre montagne non soltanto per tutta la nazione italiana ma per l’Europa». E concludeva così: «siamo in cammino e siamo appena ai primi passi, verso gli Stati uniti di Europa! Non guardiamo le cose da un punto di vista piccolo!»
4. L’autonomia oltre altri confini
Fin qui i confini fisici: la frontiera mobile a nord, le plurime frontiere interne dell’autonomia speciale, le frontiere aperte dell’Europa. De Gasperi ci ha mostrato quanto sia stato importante, dopo averne preso atto, andare oltre.
La metafora del confine ci consente ora di mettere a fuoco altri limiti e immaginare altre prospettive per “andare oltre” i confini dell’autonomia di oggi. Parlo di confini diversi, confini immateriali – ideologici se vogliamo – ma non per questo meno reali.
Sono i confini che rischiano di imprigionare l’autonomia dentro il recinto di identità autoreferenziali, di una sterile nostalgia del passato, della chiusura in se stessa, del mito dell’autosufficienza. Rischi non inediti, ma che assumono oggi dimensioni e facce nuove, legate al mutare della società, a chiusure ed egoismi che nascono da nuove paure, a nuovi bisogni di affermazione identitaria, a tendenze polarizzanti favorite da un dibattito pubblico sempre più semplificato e frettoloso.
Che l’autonomia consenta di coltivare le proprie tradizioni, tutelare l’identità collettiva, favorirne la crescita, nutrire il senso di responsabilità nell’uso accorto delle risorse, è cosa talmente ovvia che non avrebbe nemmeno bisogno di essere detta. Perché queste giuste aspirazioni possano svilupparsi in modo sano e proficuo occorre avere consapevolezza dei rischi connessi a visioni assolutizzanti e immaginarne gli antidoti, ricordando sempre un aspetto che affiora con evidenza dalla trama del pensiero degasperiano: che uno dei punti di forza dell’autonomia è il suo essere primariamente relazione.
Lo dico da giurista, usando le parole di un giurista che mi è particolarmente caro, Paolo Grossi: l’autonomia è tipicamente «una posizione di relazione»; «autonomia significa sempre rapporto, relazione con: in quanto indipendenza relativa non può non riguardare un soggetto in stretto collegamento con altri»; perché «la relatività e la elasticità sono il carattere essenziale dell’autonomia», in contrapposizione con la aborrita sovranità i cui caratteri essenziali sono invece «la assolutezza e la esclusività».
Così l’autonomia è al tempo stesso condizione che preesiste al potere e principio di organizzazione del potere stesso (art. 5 Cost.); è forma di vita collettiva e prima ancora mezzo di valorizzazione della persona (art. 2 Cost.); è riconoscimento di differenza e insieme relazione con altre differenze (art. 3, co. 2, Cost.). Divide il potere, promuove la partecipazione, potenzia le responsabilità; esige coesione.
Nel sistema costituzionale dei valori come nel pensiero di De Gasperi, l’autonomia è principio fondante ma non isolato. In questo sta la sua prima relatività, che è anche degasperiana politicità: convivere con gli altri principi costituzionali ugualmente fondanti. Di essi l’autonomia si alimenta e con essi si confronta in una logica che contrappone l’autoreferenzialità del “dentro i confini” all’apertura dell’“oltre i confini”.
Alla natura relazionale e relativa dell’autonomia ben si accorda un altro elemento del pensiero degasperiano, la concretezza, lontana da ogni retorica, di un approccio attento alla sostanza delle cose e meno preoccupato per la forma. Una sostanza ancorata primariamente a due valori: la dimensione istituzionale rappresentativa dell’autonomia e la sua strumentalità al buon governo.
L’autonomia è per De Gasperi innanzitutto espressione della «fiducia nel popolo ad amministrarsi da sé», e si innesta, come è evidente, nella questione più ampia della democrazia, che tanto gli stava a cuore. Quanto al contenuto, una delle rare definizioni che ne dà la trae dal «vocabolario politico della sua terra»: l’autonomia è «la migliore amministrazione possibile fatta tutta per il popolo e più che possibile per mezzo del popolo stesso».
E qui non posso fare a meno neanch’io di riprendere un brano più volte citato in queste lezioni degasperiane, tratto dal suo intervento all’Assemblea costituente del 29 gennaio 1948 (in occasione della discussione della legge costituzionale di approvazione dello Statuto): «Io che sono pure autonomista convinto e che ho patrocinato la tendenza autonomista, permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo ad una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese».
Prosegue poi osservando che «solo così le autonomie si salveranno ovunque, perché se un’autonomia dovesse sussistere a spese dello Stato, questa autonomia sarà apparente per qualche tempo e non durerà per un lungo periodo». È opportuno, infatti, che «in questi corpi essenzialmente amministrativi, anche se vi sarà il libero giuoco della maggioranza e della minoranza politica, non entri troppo la politica», mentre «bisognerà che si arrivi al concreto, che si educhino gli uomini nell’ambiente regionale ad essere maturi e capaci per far difendere una politica nel Parlamento, ma che negli ambienti ragionali soprattutto si faccia della buona amministrazione».
Concretezza e relazione, dunque, che portano a guardare oltre i confini, di tutti i tipi.
Su tre di essi, fra gli altri, vorrei soffermarmi in particolare: il confine della separatezza, quello della identità autoreferenziale, quello dell’autosufficienza. Oltre si aprono gli orizzonti dell’integrazione istituzionale, dell’apertura alla società, della solidarietà.
4.1. Separatezza vs integrazione istituzionale
Il primo è il confine dell’autonomia come separatezza. Contrapposta c’è quell’integrazione istituzionale che occupa una posizione centrale nel pensiero degasperiano e nella costruzione costituzionale.
Un’integrazione che spesso segna il passo e chiede invece di essere continuamente riaffermata.
«L’autonomia non è un circolo chiuso», afferma De Gasperi, ma «si inquadra nella struttura unitaria dello Stato» e «tra dirigenti centrali e periferici occorre lo stesso spirito, la stessa linea direttiva». Il rischio di un «dualismo nocivo all’efficienza e alla snellezza amministrativa» gli era presente e con esso la «necessità assoluta» della cooperazione, tanto più incalzante in tempi di scarsezza di risorse, giacché «già l’asprezza di questo problema ci costringe alla cooperazione: siamo legati alla stessa sorte e dominati dalla stessa necessità».
Questo, di una necessaria integrazione fra istituzioni, è il senso complessivo dell’art. 5 della Costituzione che lega insieme unità e indivisibilità della Repubblica, riconoscimento e promozione delle autonomie, decentramento come principio e metodo di amministrazione della stessa macchina centrale.
Il rischio della separatezza si alimenta della scarsa consapevolezza di questo legame, della ruggine di meccanismi poco funzionali alla cooperazione, della resistenza a cooperare lealmente, di miopie e diffidenze reciproche di Stato e autonomie. In un contesto nel quale, inoltre, certamente pesa l’assenza di una necessaria adeguata sede di rappresentanza al livello nazionale, di quella Camera delle autonomie di cui è rimasta traccia all’art. 57 dove si scrive che il Senato “è eletto a base regionale”.
4.2. Identità autoreferenziale vs apertura alla società
Un secondo confine ha a che fare con l’identità e i rischi di un’identità autoreferenziale.
L’autonomia è l’autogoverno di una comunità. La domanda essenziale oggi è: quale comunità in una società fluida come quella in cui viviamo? Una società composita, nella quale alla perdita di certezze si contrappone l’affermazione spasmodica di identità assolutizzanti, individuali e collettive.
In tempi profondamente diversi da quelli in cui De Gasperi operava, la concretezza e il realismo del suo approccio possono guidarci anche oltre il confine della chiusura identitaria nella definizione della comunità. La sfida è ancora una volta quella di ricomporre: radici e sguardo al futuro, identità storiche e contemporaneità, tradizioni e pratiche quotidiane di convivenza.
Quel «popolo che in essa abita e lavora» di cui parla De Gasperi, che «vive organicamente nel suo paese, nelle sue società, nei suoi focolari, nelle sue città», non tradiva nostalgia del passato, ma stava nel presente del qui e dell’oggi di chi – pur orgoglioso dei caratteri della sua terra – sapeva che qui e oggi andava perseguito il bene comune.
L’espressione ‘società’ impiegata da De Gasperi è profondamente moderna. Non è solo il concetto usato dagli storici del diritto quando parlano del substrato da cui promana il diritto, ma è l’espressione significativamente usata dal Trattato UE all’art. 2 là dove riferisce alla società europea i valori che accomunano gli Stati membri. Una società che non si risolve dunque nell’idea di popolo, ma indica un insieme di cittadini associati che si riconoscono, più che in una lingua, in una storia, in un destino, nel concreto vivere insieme sulla base di principi e valori fondanti comuni: dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze.
Ecco un altro confine che può trasformarsi in cerniera: l’autonomia di una comunità che sia società democratica può essere un luogo elettivo di elaborazione delle identità, di superamento delle pulsioni identitarie polarizzanti, di quelle “identità furiose” di cui parla Fulvio Cortese disegnando all’opposto prospettive di sviluppo che passano per la promozione della partecipazione, per il coinvolgimento fattuale, per l’accentuazione della logica dei doveri.
4.3. Autosufficienza vs solidarietà
La tentazione all’autosufficienza è sempre in agguato, in ogni autonomia, non solo nelle più forti.
Basterebbero l’esperienza della pandemia che abbiamo vissuto o le enormi sfide del cambiamento climatico che abbiamo davanti per farci capire quanto dipendiamo uno dall’altro, ciascun individuo e ciascuna comunità; quanto la nostra salute, il nostro futuro, le nostre possibilità di crescita siano strettamente legate a quelle degli altri. Basterebbero le vertiginose prospettive di opportunità e di rischio dell’intelligenza artificiale che sta impetuosamente entrando in ogni spazio delle nostre vite, per farci comprendere che da soli non si va lontani e che chiudersi dentro i propri confini significa essere destinati a fallire.
Il tema dell’autosufficienza porta in primo piano il dibattito sull’autonomia differenziata.
Autonomia e differenziazione innanzitutto: in un sistema che riconosce e favorisce le autonomie, la differenziazione può rappresentare un naturale sviluppo del concetto di autonomia. L’autonomia è diretta a differenziare: riconoscere autonomia significa consentire di essere diversi. In questo senso la previsione dell’art. 116, terzo comma, Cost., ossia il riconoscimento anche «ad altre Regioni» di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia non è, di per sé, eccentrica nel contesto costituzionale (art. 3, co, 2).
Ciò che è proprio del sistema costituzionale, tuttavia, è, come visto, che nessun principio vive da solo, ma ognuno sempre opera in equilibrio con gli altri. Così è anche per l’autonomia che convive con i principi di unità, uguaglianza, solidarietà. Lo stesso testo costituzionale, del resto, il principio di differenziazione lo menziona espressamente legandolo insieme ai principi di sussidiarietà e di adeguatezza, e tutti insieme orientandoli alla comune funzione di garantire la migliore amministrazione (art. 118, co, 1).
Il principio di differenziazione si innesta così innanzitutto su quella che è la regola costituzionale essenziale del rapporto eguaglianza/diversità, ossia la presa d’atto delle diversità che esistono in concreto, e l’impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli che si frappongono a una vera uguaglianza, al pieno sviluppo della persona e alla sua partecipazione alla vita politica economica e sociale del Paese (art. 3, co, 2).
Nessuna differenziazione può mettere in discussione questo impegno.
Esso implica che la concessione di maggiori attribuzioni e delle corrispondenti risorse non possa pregiudicare la necessaria garanzia di livelli minimi di prestazioni attinenti ai diritti civili e sociali di tutti. Vorrei dire di più: quell’impegno, alla luce del principio di uguaglianza sostanziale, non può non implicare una maggiore considerazione di chi è più fragile.
In questi confini anche l’autonomia differenziata trova il suo posto nel grande “sistema in equilibrio” costituzionale, alla cui base sta la relazione inscindibile fra diritti e doveri, come forze in tensione fra loro. Ancora una volta una relazione, significativamente collocata all’inizio del testo costituzionale e diretta a gettare luce su tutto: la connessione fra i diritti che la Repubblica riconosce e garantisce e i doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale di cui richiede l’adempimento (art. 2 Cost.).
Come per gli individui così per le autonomie che li rappresentano, il diritto a vedere riconosciute le differenze e valorizzate le capacità sta in equilibrio con il dovere di solidarietà verso gli altri individui e le altre autonomie.
Andare oltre il confine di una sterile autosufficienza significa comprendere la necessità di far convivere la differenziazione con quel vincolo di solidarietà che tutti lega insieme, istituzioni e persone, e significa assumere la garanzia dei diritti civili e sociali di tutti – prima di tutto dei più deboli – come condizione per lo sviluppo della stessa autonomia.
5. Lezioni di metodo per andare oltre i confini
È un compito non facile praticare un’autonomia oltre i confini. Occorre lungimiranza, generosità, coraggio, attenzione alla sostanza, senso di responsabilità, disposizione profonda al bene comune.
In un contesto radicalmente cambiato, la lezione degasperiana resta preziosa per le indicazioni di metodo che ci offre.
Un metodo che è innanzitutto senso profondo della realtà.
Nella concretezza dell’approccio degasperiano ai problemi la realtà è il punto di partenza e il punto di arrivo: i problemi si colgono nella concretezza dell’esistenza e si risolvono nella pratica delle soluzioni possibili.
Ciò che porta di necessità a rifuggire costruzioni assolutizzanti e orienta alla ricerca di vie d’uscita percorribili.
C’è una bella immagine montanara utilizzata da De Gasperi per rappresentare lo scarto fra gli ideali astratti e la vita con le sua complessità: «… [n]on sempre quando si scende dall’alta montagna è possibile mantenere la stessa atmosfera ossigenata e non sempre la stessa prospettiva può essere attuata, quando si tratta di dover fissare una pratica di convivenza civile, che tiene conto delle opinioni altrui e deve cercare una via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione».
Ci sono, in questa immagine, la consapevolezza della complessità delle cose, la presa d’atto delle differenze e il bisogno di ricomporle su una via intermedia, il valore dell’equilibrio, l’orizzonte della convivenza civile.
Un metodo, ancora, che è apertura agli altri e condivisione di una buona battaglia.
In questo, De Gasperi ci offre un ulteriore possibile “andare oltre i confini” della nostra specifica autonomia. Ne ho già fatto cenno, citando la sua antica idea di autonomia trentina come “laboratorio” (nel suo primo discorso alla Camera, 1921), ma riprendo ora direttamente le sue parole del secondo dopoguerra.
«Essere veramente autonomisti?» si chiede nel 1948, a Trento, rivolgendosi ai suoi concittadini. «Ebbene dimostrate alla nazione italiana, a tutta la nazione… che voi avete qui una funzione particolare che non riguarda voi soltanto ma tutto il paese», «[…] che non c’è qui un popolo ristretto ed angusto che si richiude nel guscio delle proprie montagne e pensa solo a se stesso, sente una certa animosità contro «quelli di laggiù», ma un popolo che sa di avere attitudini ed una funzione particolare da esercitare non solo per sé ma per la nazione intera».