Margherita de Cles: in viaggio ai tempi del Coronavirus/ 2
È forse giunto il momento di togliersi di dosso i parassiti che hanno appesantito le nostre esistenze nell’attesa di trovare la nostra migliore cura?
(Link alla puntata precedente)
Zimbabwe, 7 aprile 2020.
Il calendario è girato e segna aprile! Mi sono sempre chiesta cosa volesse significare la frase «il tempo non esiste» ma forse ora credo di comprendere meglio il senso o almeno ci provo.
Facile mettersi a pensare in questo periodo in cui ci si trova a faccia faccia con le proprie paure, con i propri errori, gioie e successi e con la propria essenza.
I media non fanno altro che bombardare di notizie e creare un terrore che quasi ti prosciuga l’anima.
Ho detto basta. No more news, no more fake news. Ascolto solo Al Jazeera, affidabile, snella, chiaro e mai con quel melodramma da film horror.
Si tratta di essere il più possibile obiettivi e affidarsi a informazioni che abbiano il massimo della serietà.
Sono stufa di sentirmi in un vortice mediatico soffocante e prolisso.
Ho trovato la noia, una cosa da cui ho sempre voluto tenermi lontana, quasi da temere, forse perché in casa mio padre era il tipo di persona che amava leggere e studiare mentre mia madre escogitava nuove prelibate ricette che soddisfacessero l’appetito di papà.
Mi ritrovo oggi qui a Harare, nella villa di Samir, sulla 2nd e Lenamark, un incrocio di energie e di viali alberati di palme e gum trees, alberi della gomma provenienti dal Sud Africa. Un giardino incantevole, semplice e disordinato ma al tempo stesso una sorta di orto botanico casalingo dove piante grasse, cactus, palme, banani e fiori come la Flame Lily, gloriosa superba, il fiore simbolo dello Zimbabwe, che evidenza nel colore rosso e giallo la potenza e la passione incredibile di questo meraviglioso Paese.
Mi trovo in Africa, nel terzo mondo qualcuno direbbe, nella vecchia Rhodesia, che aveva visto il suo splendore con l’ultimo Primo ministro bianco, Ian Smith.
Mi ricordo ancora quando mi trovai un’estate al ristorante Bersaglio di Cles con la mia famiglia e accanto a noi, la famiglia Vielmetti da sempre a Pretoria nella lavorazione delle miniere…
Ricordo ancora gli accenni storici sul Sud Africa e lo Zimbabwe, da Mandela alla figura di Ian Smith, un'icona per questo Paese, si definiva un «african british stock», il primo che si ribellò all’autorità britannica dopo l’America.
Portò la repubblica nel 1965 e aveva visto passare tutto davanti a sé, Air Rhodesia, le ferrovie, la diga di Kriba, lo sport con cricket e rugby, il gran premio automobilistico di Bulawayo, le star della tv, le reginette, la letteratura locale, le canzonette patriottiche di Clem Tholet e la lessica e fonetica locale.
Immagini sbiadite di un’epoca arrivata a un capolinea.
La Rhodesia guidata da Smith aveva uno degli eserciti più forti di tutta l’Africa, il rhodesian S A S girione 56, lo stesso che supportò degli inglesi contro la Malesia.
Fino alla caduta dell’indipendenza, Rhodesia fu un esempio di buona amministrazione una delle poche «success story» del colonialismo britannico in Africa e con il tenore di vita più alto al mondo e il reddito pro capite più alto dell’Africa.
Adagiata sul giardino sotto un sole tiepido del mattino, mi lascio trasportare dalle note di Tholet, The last farewell, un momento ancora per assaporare valori, sentimenti di un’era quella di Rhodesia di grandi imprese, benessere e alte cause.
Un battito di farfalla e mi risveglio da questo sogno vivido.
Il tempo è talmente inesistente che non mi rendo conto che è il mio compleanno.
Apro i miei telefoni e trovo una serie di messaggi augurali ma tra questi colpisce particolarmente un video musicale di un ragazzo, George, un indiano americanizzato trapiantato in Sud Africa, dall’anima musicale e dal cuore grande impegnato nello sviluppo di piccole imprese africane, conosciuto tra un viaggio a New York e una partenza da Città del Capo.
Ci siamo conosciuti al Bitter End sulla Bleecker mentre nelle risa con le mie amiche e un suo solo i nostri sguardi si sono fusi per un attimo per poi riperdersi nella folla.
Mi dedica incondizionatamente uno dei suoi pezzi. Non ho tempo di finire di ascoltarlo che mi chiama l’amica Celine per andare a pranzo in città, Queens of Heart, in un ristorante italiano, Little Italy.
Il tempo di mettermi il vestito color lavanda con le margheritine ricamate e sentirmi un po’ più me.
Al ristorante siamo solo in tre, Harpal, un amico indiano ci raggiunge. Un piatto di pasta non mi è mai stato più di conforto, e mi allieva quella sensazione che i tedeschi chiamano Heimweh… (nostalgia).
Un bicchiere di Pinotage, ovviamente sud africano, un’altra battuta e sono pronta per andare a scoprire con Celinè, l’Harare più selvaggia, quella dei neri con i loro mercati, negozietti, delle loro usanze alimentari e capelli.
Un ultimo giro a Broadwell e all’orto botanico ma è già tutto chiuso in previsione delle prossime settimane di lockdown…
Non mi rimanere che rientrare a casa e trovare la casa vuota, Samir è a Leopard Rock in quarantena e io nella vecchia Salisbury, libera di prendere un aereo appena frontiere e aeroporti tornano operativi, ma dentro di me c’è una calma e pace mai sentita prima.
È forse l’inizio di un nuovo capitolo della mia vita? Un virus è una parassita che si attacca al nostro corpo e l’antidoto serve a debellarlo…
È forse giunto il momento di togliersi di dosso i parassiti che hanno appesantito le nostre esistenze nell’attesa di trovare la nostra migliore cura?
Al momento la mia prende il nome di Rhodesia, fino a quando potrò raccontarlo… Quale è la vostra?
Margherita de Cles
(Continua)