La cura: come crescere insieme – Di G. Maiolo, psicoanalista
La «cura» è anzitutto «condivisione dell‘esistenza e complicità nello stare insieme»
>
La parola «cura» è la struttura su cui si basa l’esistere ed è la condizione perché vi sia una relazione.
Lo pensava il filosofo Martin Heidegger (Essere e tempo, Longanesi) quando diceva che l’esserci è uno stare al mondo insieme, un «coesistere» con gli altri.
Non si può crescere da soli, ma è possibile unicamente con la cura di un altro.
La parola quindi coniuga realtà che hanno sempre a che fare con l’IO e il TU, con chi ti accudisce e si occupa di te e al contempo ti «insegna» (cioè ti indica) come occuparsi dell’altro per poi arrivare al NOI collettivo. Noi comunità.
La cura come vocabolo indica la qualità dello stare insieme e ci dice quanto siamo presenti oppure mancanti nei confronti dell‘altro da noi.
È termine antico, profondo, resistente al tempo. Ci sono testimonianze che già ventiquattro secoli fa indicavano come la cura fosse prima di tutto «interessamento e partecipazione».
Sappiamo ora che è riguardo, attenzione e prevenzione, e non solo, presenza o intervento che guarisce il male.
La cura, semmai, lo previene o quanto meno media tra gli opposti «Bene e Male» che, nonostante non si riconosca mai a sufficienza, continuano ad esistere e ad appartenerci.
Non a caso educhiamo i bambini fin da piccoli a scindere questi due aspetti dicendo loro di dividere i buoni dai cattivi, spesso con la pretesa che isolando la cattiveria e punendo chi non si comporta bene, si possa salvare il mondo.
In realtà non vi è mai stata l’eliminazione del male con le prigioni o le esecuzioni capitali, nemmeno con le interdizioni o l’isolamento nelle strutture per malati mentali.
Nemmeno è «cura» solo l’intervento clinico che chiediamo ci guarisca dal male fisico, anche se, indubbiamente, riesce a sollevarci dalla sofferenza e ad aiutarci a gestire il dolore e la fatica dell’esistere.
Questo tipo di «cura» è successivo alla preoccupazione per l’altro. Se primeggia, secondo Heidegger, la cura è inautentica, perché tende a occuparsi solo della malattia e non del malato.
Viceversa è autentica quando ammette che non vi è sovranità sull’esistenza ma mostra come la fragilità che ci accompagna sia proprio dalla condizione umana. La cura non colpevolizza ma ti accoglie e ti accompagna.
La nostra vita, intimamente connessa con quella degli altri, ha inizio con una relazione, quella primaria con la madre che accudisce e dà forma all’IO fin dal principio dell’esistenza, e permette di sentire che l’esistere è nella relazione con un altro.
Nasce dalla relazione e consente di nascere alla vita perché c’è qualcuno che si cura di noi, ci guarda, sorride, ci ascolta e si pre-occupa. Dall’attenzione dell’altro si sviluppa la nostra capacità di sentire la vicenda umana.
Allora la cura è ascolto, sguardo vicino che indica come vedere lontano, comunicazione intima. È educazione, attesa, intuizione con cui si possono attraversare le nebbie delle cose sconosciute.
Prima di tutto condivisione dell‘esistenza e complicità nello stare insieme che serve a fare comunità sociale e educante, per inventare ogni giorno il domani che ci attende.
Giuseppe Maiolo - Psicoanalista
Università di Trento