Centodieci anni fa il fallimento delle diplomazie europee

Le febbrili e stolte consultazioni che precedettero l’inevitabile dichiarazione di guerra che (quasi) nessuno voleva – L’Europa era in mano a governanti mediocri

Guglielmo II e Francesco Giuseppe.

Nel pomeriggio del 28 giugno 1914, si avvicinò al magnifico Yacht Hoelzollern ancorato nel porto di Kiel una lancia a motore con a bordo un alto ufficiale.
Sulla tolda della barca, l’imperatore Guglielmo II stava passeggiando. Vedendo l’avvicinarsi della piccola imbarcazione, fece un cenno ai suoi marinai di impedire l’attracco. Voleva restare da solo in un’ora di infinita, raccolta intimità…
Allora la lancia non ormeggiò e l’ufficiale prese un biglietto, lo piegò e lo inserì in un porta sigarette d’oro. Quindi lo lanciò al marinaio più vicino. Il quale lo prese e corse dall’imperatore.
Guglielmo Secondo era indispettito di tanta petulanza, ma non resistette e aprì il contenitore. Lesse il biglietto: «Francesco Ferdinando e sua moglie sono stati assassinati a Sarajevo».
Non diede risposta e la lancia si allontanò. Però fece abbassare a mezz’asta la bandiera di poppa dello Yacht Hoenzollern. E cominciò a elaborare i suoi piani.
Il kaiser ricordò le crisi del 1908 e quella del 1912. Nel 1909 l’Austria si era annessa la Bosnia e l’Ezegovina. Nel 1912 l’Italia si era impossessata dalla Libia e aveva messo in seria difficoltà l’Impero Turco. In entrambi i casi aveva dovuto accettare lo stato dei fatti, ma stavolta era giunto il momento di mostrare i muscoli.
Guglielmo II non voleva una guerra europea, cosa che a ben vedere (quasi) nessuno voleva. Ma tutti volevano menar le mani. Il 30 giugno inviò un telegramma a Vienna per comunicare a Francesco Giuseppe un unico solo messaggio: «Ora o mai!»
 
Conrad von Hötzendorf.

A Vienna le sollecitazioni del Kaiser non trovarono una accoglienza particolarmente favorevole. Anzi, il messaggio venne tenuto semplicemente in evidenza. L’impero Austro Ungarico voleva risolvere la crisi da solo.
In verità, Francesco Giuseppe non era favorevole a nessuna operazione militare. Nella sua vita ne aveva passate tante e tutte le guerre che non era riuscito a evitare le aveva perse.
Ostile alla guerra anche l’alleato premier ungherese, conte Risza: da una possibile annessione della Serbia si allargava la base slava dell’impero e da una vittoria militare non c’era mai da attendersi nulla di buono.
I militari austro ungarici invece sentivano che le loro sciabole si stavano arrugginendo e cominciarono a soffiare sul fuoco. Il capo di stato maggiore Conrad era il più autorevole fautore di una guerra contro la Serbia. Era certo che in pochi mesi avrebbe chiuso la partita.
Più che favorevole alla guerra anche il ministro degli esteri austro ungarico Berchtold.
Il gabinetto di guerra si radunò e nessuno dei presenti, pacifisti e guerrafondai, non fecero un passo indietro. Ma Berchtold informò Francesco Giuseppe che Risza non voleva la guerra solo per non portarsi un concorrente in casa.
L’imperatore convocò il proprio governo, il quale lo rassicurò che la guerra sarebbe stata chirurgica. Una botta e via. Conrad, fautore delle guerre preventive diede l’ultimo colpetto, precisando che le grandi potenze sarebbero rimaste a guardare. Tutto dipendeva dalla velocità delle operazioni e dalla generosità dell’Impero che non avrebbe voluto troppe conquiste. Dimenticava che una volta sul posto, le truppe era difficile richiamarle.
Lo stesso Conrad, peraltro, conosceva due verità sacrosante. La prima è che una mobilitazione non poteva avvenire in 24 ore, la seconda è che l’Austria Ungheria non sarebbe stata in grado di sostenere tre fronti: Italia, Slavi del Sud e Russi. Il suo quindi era un gioco d’azzardo fatto con delle scartine in mano. Con un termine del poker, un bluff.
 
Il ministro degli Esteri Leopold Berchtold.
 
La monarchia danubiana si mosse dunque nell’intento di un conflitto locale, ma muovendo le pedine come se si trattasse di un conflitto europeo. Per questo mandarono a Belgrado un plenipotenziario con l’incarico sostanziale di giungere alla guerra.
A Belgrado attendevano da tempo la reazione di Vienna. Ma quando il 23 luglio si presentò il barone Glies, recante l’ultimatum di Vienna, tutti restarono attoniti. Il messaggio, secondo il cerimoniale diplomatico del tempo, era stato redatto in lingua francese.
Fatto sta che nessuno commentò il messaggio e Glies se ne andò confermando la scadenza della risposta in 24 ore. Le sue istruzioni erano precise: nessun negoziato.
Perso tempo prezioso per tradurre il testo senza dubbi di interpretazione, venne esaminato il contenuto.
Al primo punto, Re Pietro doveva sconfessare pubblicamente gli attentatori e la propaganda irredentista. E fin qui nulla da dire.
Per secondo, doveva sequestrare tutte le pubblicazioni patriottiche, sciogliere tutte le associazioni e licenziare i dipendenti pubblici filo nazionalistici.
Il terzo e il quarto punto dell’ultimatum imponevamo la punizione di quanti avevano dato una mano al complotto.
Ma il quinto punto esigeva la presenza sul territorio serbo di truppe austro ungariche per garantire i punti precedenti.
Il gabinetto di Belgrado decise di accettare i quattro punti e di chiedere spiegazioni sul quinto.

Raymond Poincaré.

Il barone Glies, prendendo alla lettera le disposizioni ricevute da Vienna, decise seduta stante che l’ultimatum non era stato accettato. Dichiarò lo stato di guerra e partì per l'Austria.
Il 20 luglio 1914, cioè qualche giorno prima dell’ultimatum, il presidente francese Poicaré era arrivato al porto russo di Cronstadt a bordo della corazzata France.
Accolto festosamente, il presidente francese confermò allo Zar Nicola II che «nel caso deprecabile di un conflitto in aiuto della Serbia, sarebbe sceso a fianco della Russia».
In verità, lo zar non aveva nessuna intenzione di scendere in guerra contro chicchessia, né a favore di qualsiasi altro. La Russia aveva altri problemi e comunque non era pronta per un conflitto. Il più grande paese del mondo praticamente non aveva ancora strade né ferrovie.
Ma Poincaré, che voleva a tutti i costi rivendicare i territori francesi perduti nella guerra Franco Prussiana del 1870, riuscì a convincerlo, obtorto collo.
Lo Zar confermò gli impegni, certo peraltro che il tutto si sarebbe risolto in una bolla di sapone.
 
Lo Zar Nicola II.

A Vienna, anche Francesco Giuseppe non era affatto convinto di un’azione di forza. Nessuna operazione militare va mai come progettata. Nulla è più sfuggevole di un conflitto, che prima o poi va avanti da solo senza guide politiche.
Insomma, il vecchio imperatore non si decideva a firmare.
E allora ricorsero alla truffa».
Poiché Francesco Giuseppe non si decideva a firmare la dichiarazione di guerra, il 27 luglio il Ministro degli Esteri Berchtold informò l’imperatore che «le truppe serbe hanno iniziato le ostilità, aggredendo gli austriaci a Temes-Kubin».
Poiché la guerra era cominciata, non restava che dichiararla.
«Approvo la minuta annessa – scrisse Francesco Giuseppe – di un telegramma al ministro degli affari esteri di Serbia, contenente la dichiarazione di guerra.» 

Quando la notizia giunse allo Zar, Nicola II confermò la propria contrarietà alla guerra. I suoi familiari, i suoi ministri e i suoi militari però erano decisi ad andare fino in fondo. 
Il capo di stato maggiore russo porse allo Zar due decreti: uno era la mobilitazione generale, l'altro la mobilitazione parziale. Nicola II non firmò né l'uno né lo'altro. Ma il suo ministro degli esteri lo convinse che una mobilitazione avrebbe dimostrato agli imperi centrali che la Russia era determinata a intervenire. Questo non significava che entrasse in guerra, ma quando Guglielmo II venne a saperlo ordinò anche lui la mobilitazione generale. Con la differenza che se alla Germania bastava qualche giorno, alla Russia ci volevano mesi. Per la Russia la mobilitazione si dimostrò dunque un errore gravissimo e irreversibile.

Come abbiamo visto, l’Europa era in mano a governanti mediocri: a quel punto, nessuno sarebbe più riuscito a fermare la macchina bellica.
   
Guido de Mozzi