Autonomie di Trento e Bolzano, una storia da rileggere oggi / 9

«Il gelo dell’ONU sulla "questione altoatesina"» – Di Mauro Marcantoni

Incerta e confusa: tale appariva la situazione politica nazionale nei primi mesi del 1960.
A fine aprile, il Governo guidato dal democristiano Tambroni, che era succeduto al Governo Segni, ottenne la fiducia grazie ai voti determinanti degli esponenti del Movimento Sociale Italiano, provocando un’ondata di indignazione e moti di piazza in tutto il Paese.

Proprio Tambroni, a maggio, decise di riprendere il negoziato con l’Austria, proponendo formalmente al Cancelliere Raab di sottoporre la questione altoatesina alla Corte internazionale di Giustizia de L’Aia, data l’inconciliabilità delle rispettive posizioni di Italia e Austria.
Quest’ultima però era ormai intenzionata a rivolgersi all’ONU, trasferendo la vertenza altoatesina dal livello giuridico a quello politico, con l’obiettivo di pervenire all’autodeterminazione o, come minimo, a un nuovo accordo internazionale.
A ottobre di quell’anno, su richiesta dell’Austria, la questione altoatesina venne iscritta all’ordine del giorno dell’Assemblea generale dell’ONU.
 
Secondo l’Austria, la popolazione altoatesina di lingua tedesca rappresentava una «minoranza austriaca in Italia».
L’ONU, che esaminò la questione da un punto di vista giuridico, respinse questa lettura e parlò invece di «status dell’elemento di lingua tedesca nella provincia di Bolzano», rimuovendo così ogni possibile appiglio per una rivendicazione territoriale.
La risoluzione finale del 31 settembre 1960, approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale dell’ONU, accolse dunque le tesi italiane, anche se legittimò l’Austria a occuparsi del Sudtirolo.
I due Stati venivano invitati a riprendere i negoziati per risolvere i contrasti relativi all’applicazione dell’Accordo di Parigi. In caso di esito insoddisfacente delle trattative, veniva raccomandato loro di cercare una soluzione mediante qualsiasi strumento previsto dalla Carta dell’ONU, incluso il ricorso alla corte di Giustizia.
Per il Sudtirolo, che aveva sperato in un verdetto favorevole all’autodeterminazione, fu una nuova fortissima delusione. Le ripercussioni si fecero sentire anche a livello politico; tuttavia il mondo dell’imprenditoria altoatesina cominciò a pensare che la politica separatista della Volkspartei e la sua scarsa attenzione alle questioni economiche stessero all’origine del mancato impulso allo sviluppo industriale e, più in generale, della persistente stagnazione.
 
Alle elezioni regionali che si tennero a novembre, la SVP ottenne quindici seggi, ma il dato più significativo è forse un altro: su quindici consiglieri eletti nella lista del partito sudtirolese, dieci appartenevano alle correnti più moderate. Per il resto, la composizione del Consiglio regionale risultò del tutto simile a quella del 1956.
La Democrazia Cristiana si confermò come il partito largamente maggioritario, con il 64,24% in provincia di Trento, anche se dovette registrare un calo di oltre il 3% e la perdita di un consigliere a favore del Partito socialista, che raggiunse invece il suo massimo storico con oltre il 12% dei suffragi.
Il Partito comunista si attestò su una percentuale di poco superiore al 5%, mentre la forza degli altri partiti risultò sostanzialmente invariata.
Le trattative per la formazione della nuova Giunta iniziarono subito. La Volkspartei, fedele alla linea dettata a Castel Firmiano, dichiarò di non voler partecipare alla Giunta.
A precise condizioni, tuttavia, sarebbe stata disposta ad attenuare la propria opposizione e a rientrare in Consiglio regionale.
Tali condizioni erano: la presenza nella Giunta del Partito del Popolo Trentino Tirolese, la pronta attuazione del Piano Kessler e il definitivo allontanamento di Odorizzi.
 
Finalmente, dopo una lunga e complessa trattativa, ai primi di gennaio del 1961, in un clima meno conflittuale, venne eletta la nuova Giunta.
Era composta, oltre che dalla Democrazia Cristiana, dal Partito liberale, dal Partito socialdemocratico e dal Partito del Popolo Trentino Tirolese, ed era presieduta da Luigi Dalvit, che succedeva a Tullio Odorizzi.
Finiva così la prima esperienza regionale che Odorizzi, figura indubbiamente carismatica, cui anche gli avversari da ultimo riconobbero buona fede e onestà nell’azione amministrativa, aveva in un certo senso impersonato.
 
Mauro Marcantoni
(Continua)
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