Il silenzio degli innocenti – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

Del bullismo se ne parla tanto ma ancora troppo poco si ascolta il silenzio di chi lo subisce: le vittime rimangono inascoltate

Valentina ha sperato ogni giorno che i suoi compagni potessero avere compassione di lei e prima o poi la lasciassero in pace, almeno durante la pausa quando gli altri si divertivano e lei si cercava una tana dove sparire. Ma inutile.
La guardavano e ridevano con una spavalderia tagliente. In fondo l’hanno sempre derisa per quel suo corpo informe, troppo grosso e incontenibile.

A lungo l’hanno ferita dentro con le lame affilate della derisione e delle ingiurie che non lasciano tracce visibili, ma solchi profondi e dolenti nell’anima.
Vale, come la chiamano da sempre, porta con sé da anni parole cattive e insulti che le ruotano in testa e da cui non riesce a staccarsi.
Ha un corpo ferito dalle prepotenze quotidiane.
Ha cicatrici come testimoni degli incubi notturni e angosce fatte di parole odiose scritte col fuoco sulla pelle, ma abilmente nascoste ai grandi.
Ha la certezza di essere sbagliata, inutile e colpevole. Nessuno saprà mai aiutarla.
 
«Vale sei un maiale» e giù grugniti e ghiande. Come quel giorno al bagno, prigioniera dei maschi della sua classe, costretta a mangiare da un sacchetto di plastica puzzolente ghiande e sale in un misto di giaculatorie spudorate e difficili da capire.
Lei, accerchiata dal branco come un piccolo animale in trappola, ricorda lo sguardo spietato delle femmine, complici silenziose della sua tortura, e conserva nelle orecchie i versi mostruosi di chi mimava il suo corpo di bambina obesa da deridere e colpire.
Alla fine se ne andarono, le belve, sghignazzando, ma non prima di averla coperta di rabbia e insulti che nessuna delle maestre raccolse.
 
Ma poi la storia è continuata e Valentina ha imparato a tenere tutto per sé. Sempre. Ora sa nascondere il pianto e la disperazione che non dice a nessuno.
Ripete a se stessa un monotono un mantra: «Meglio le botte», «Meglio prenderle e provare dolore sulla pelle che mostrare i tagli dentro».
Così nel tempo l’hanno ferita fuori con precisa determinazione e violenza. O per divertimento.
Il branco l’ha rincorsa ovunque e catturata sempre, mentre lei, con testardaggine, ha sperato fino all’ultimo giorno che qualcosa potesse cambiare e con la fine della scuola primaria potesse finire il suo inferno. Ma non è stato così.
 
È questo il tragitto abituale della vittima, di ogni vittima di violenza.
È una storia che ho sentito mille volte da chi ha subito abusi e da quei minori che hanno vissuto le prepotenze e le offese dei bulli.
L’ho voluta narrare questa sofferenza più che descriverla come si fa con i casi, perché il dolore se lo racconti ti muove qualcosa perché lo ascolti. E allora ti avvicini, lo fai tuo e lo condividi.
Del bullismo se ne parla tanto ma ancora troppo poco si ascolta il silenzio di chi lo subisce.
 
Perché il male, come quello di Valentina, spesso rimane taciuto e nascosto dalla vittima che lo tiene per sé.
Prima di tutto per vergogna e poi perché se parlasse non verrebbe creduta.
Infine perché si affida alla speranza o all’illusione che gli aguzzini alla fine possano cambiare registro e prendere coscienza del male che producono.
Servirebbe invece ascoltare il silenzio piuttosto che dire «Non hai voglia di far niente» o liquidare la sofferenza con un lapidario «Non si impegna e non partecipa».

Giuseppe Maiolo - Docente di Psicologia delle età della vita
Università di Trento - www.iovivobene.it