Storie di donne, letteratura di genere/ 541 – Di Luciana Grillo
Amélie Nothomb, «Psicopompo» – È il romanzo più personale e autobiografico della pluripremiata e amatissima autrice belga
Titolo: Psicopompo
Autrice: Amélie Nothomb
Traduttrice: Federica Di Lella
Editore: Voland, 2024
Pagine: 128, Brossura
Prezzo di copertina: € 16
Ho letto molti romanzi di Amélie Nothomb e devo confessare che ogni volta questa scrittrice mi riserva una sorpresa: ogni suo lavoro sa essere diverso da tutti gli altri, gli argomenti che l’autrice narra sono vari, originali, spesso crea storie, altre volte – come in questo caso – racconta di sé.
Fin dal titolo, il suo 32° romanzo incuriosisce: cosa sarà mai lo psicopompo?
È un essere che Amélie ha ripescato dalla mitologia. Ermes è stato il primo psicopompo di cui si abbia notizia, ma poi ci sono anche Apollo, Orfeo e Caronte.
Lo «psicopompo» accompagna le anime nel regno dei morti, ma mantiene con loro un contatto: continua a sentirne le voci.
Anche Amélie si sente psicopompo perché comunica con suo padre, la cui morte l’ha colpita profondamente.
È deceduto fra le braccia della moglie, ma nessuno ha potuto accompagnarlo al cimitero e seguire il suo funerale, perché era il tempo del covid.
Ma torniamo a questo piccolo libro che ci presenta la bimba Amélie in Giappone, in ascolto di una fiaba tradizionale, intrisa di crudeltà e sacrificio, in cui il personaggio che più incuriosiva la piccola era «una superba gru americana che si strappava con il becco le penne e le piume».
Il Giappone rimane nel cuore di Amélie che a soli cinque anni deve seguire con la madre e la sorella il papà diplomatico trasferito a Pechino: «insieme alla lingua giapponese scompariva la raffinatezza. Il modo di parlare della governante cinese era duro e sgradevole quanto il gracchiare del corvo. Io ricordavo che la soavità delle parole di Nishio-san era simile al canto del passero».
La bimba cerca gli uccelli, vuole sentirne il canto, ma «la Cina non tardò a diventare un deserto di uccelli».
Dopo tre anni, nuovo trasferimento, questa volta a New York che «pullula di uccelli. Piccioni, colombi, gabbiani. A Central Park passeri di ogni sorta. Anche corvi…Quel ricongiungimento fu per me una vera e propria resurrezione».
A undici anni, Amélie e la famiglia si trasferiscono in Bangladesh, e «il contrasto tra New York e Dacca non aveva nulla da invidiare a quello tra Pechino e New York».
La passione per gli uccelli in Amélie cresce, forse perché simboleggiano la libertà: la ragazza ne studia i comportamenti, le abitudini, i canti, sogna di poter volare.
Quando a Dacca arriva la nonna materna, Amélie mette in campo tutta la sua ironia: «era una donna di una cattiveria olimpica e aveva provato la curiosità di appurare con i propri occhi la povertà del paese. Non rimase delusa…rientrò in Belgio deliziata dall’immensa miseria di cui era stata testimone».
A dodici anni, Amélie teme di essere data in sposa a un anziano uomo importante, amico dei suoi genitori. Ma non accade.
Intanto Amélie studia il latino e il greco antico. Qualcosa di molto grave sta per succedere: mentre nuota al largo, subisce uno stupro da parte di alcuni ragazzi.
La mamma la soccorre, la porta a riva, dice “Povera bambina” e del fatto non si parlerà mai più. Per Amélie è una ferita profonda.
Nuovo trasferimento del papà, nuovo paese, la Birmania e successivamente il Laos.
E mentre paragona il Mekong allo Stige, Amélie diventa sempre più magra e mangia sempre meno.
Infine, ritorno in Europa, a diciassette anni Amélie è a Bruxelles, ma solo per completare gli studi universitari, perché la sua meta è il Giappone e il suo riscatto è la scrittura, perché «quando mi metto a scrivere, volo… Scrivere è il privilegio assoluto. Non esiste grazia più sublime».
In Giappone Amélie lavora, ma è per lei un’esperienza difficile, un calvario. Avrebbe voluto librarsi in volo nel cielo di Tokyo «prima di andare a subire le quotidiane ore di umiliazione in ufficio».
Torna a Bruxelles, va a Parigi dove un editore le pubblica il romanzo «Igiene dell’assassino».
Era il 1992: incantata dalla bellezza della città, sente che i lettori non la riconoscono come autrice del romanzo, perché donna, perché esile, perché giovane.
E comunque continua a scrivere «ad ali spiegate» e lo scrivere diventa una sorta di “accompagnamento” quando la morte di una persona cara la fa soffrire, ma «i miei manoscritti, pubblicati o meno, sono via via sempre più intrisi di morte».
Nothomb parla del suo romanzo «Sete» e quando lo ha stampato «divulgarlo mi è sembrato molto meno grave che scriverlo… ha scatenato qua e là le prevedibili collere. Tuttavia ha suscitato anche reazioni magnifiche», suo padre lo ha apprezzato, pochi mesi prima di morire… e poi, «ha cominciato a parlarmi ininterrottamente».
Amélie ammette: «Ho avuto un bel rapporto con mio padre, ma in realtà, dopo il suo trapasso, è diventato qualcosa di infinitamente più profondo di un semplice rapporto. Grazie a questa scrittura psicopompa ho avuto lo scambio che ogni figlio sogna di avere con il proprio padre e viceversa», anche se «non esiste una tecnica psicopompa, non c’è una regola per affrontare la morte delle persone care».
Avviandosi alla conclusione, Nothomb ricorda suo padre, il loro ultimo incontro prima della morte, il loro dirsi «ti amo»… «Non ce lo eravamo mai detto».
Luciana Grillo - [email protected]
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