A 80 anni dall’8 settembre 1943. Seconda parte: Badoglio
Alla fine il Governo Badoglio firmò l’armistizio, senza dichiarare guerra alla Germania. Una scelta sciagurata
Badoglio legge l'Armistizio ai microfoni dell'Eiar.
(Puntata precedente)
Il Governo Badoglio I fu il sessantesimo governo del Regno d'Italia. Nominati i ministri già il 26 luglio 1943, il governo, ebbe un rimpasto nel febbraio 1944 e rimase in carica fino al 24 aprile 1944 per un totale di 272 giorni, ovvero 9 mesi e 2 giorni.
Fu un esecutivo tecnico-militare composto da sei generali, due prefetti, sei funzionari e due consiglieri di Stato.
Ecco la composizione del primo Governo Badoglio.
Capo del governo primo ministro segretario di Stato: Pietro Badoglio.
Ministro agli Affari esteri: Raffaele Guariglia.
Ministro all’Africa Italiana: Melchiade Gabba
Ministri dell’Interno: Bruno Fornaciari (fino al 9 agosto) e Umberto Ricci
Ministro di Grazia e Giustizia: Gaetano Azzariti
Ministro alle Finanze: Domenico Bartolini
Ministro Scambi e Valute: Giovanni Acanfora
Ministro della Guerra: Antonio Sorice
A seguire, altri 9 ministeri.
La prima cosa che fece Badoglio fu quella di eliminare molte riforme effettuate dal fascismo all'ordinamento statutario dello Stato liberale.
Il 2 agosto 1943 sciolse il Partito Nazionale Fascista, il Gran Consiglio del Fascismo, la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, le organizzazioni legate al partito e la denominazione «fascista» venne rimossa dai nomi degli enti pubblici.
Venne ricostituita la Camera dei Deputati, per la quale vennero disposte nuove elezioni entro quattro mesi, mentre il Senato del Regno rimase in carica senza variazioni.
Gli eventi successivi resero tuttavia impossibile la ripresa dei lavori parlamentari.
Come vedremo, l'8 settembre 1943, in seguito alla firma dell'armistizio di Cassibile, le forze armate tedesche invasero l'Italia (Operazione Achse - in italiano Asse), sopraffacendo rapidamente gran parte delle forze armate del Regno. La sera stessa Roma fu attaccata dalle forze della Wehrmacht e, il giorno seguente, il Re, Badoglio, la famiglia reale e lo Stato maggiore dell'esercito lasciarono la capitale.
Prive di guida, le forze militari a difesa di Roma capitolarono il 10 settembre, dopo tre giorni di confusi combattimenti e di ordini che non c’erano.
Molti ministri del governo non avevano lasciato la capitale al seguito di Vittorio Emanuele III, in quanto… neanche avvisati. Da non credere.
Furono abbandonati alla ventura: Raffaele Guariglia, ministro degli esteri, Umberto Ricci, ministro dell'interno, Leonardo Severi, ministro dell'educazione nazionale, Giovanni Acanfora, ministro per gli scambi e le valute, e Domenico Bartolini, ministro delle finanze.
A parte Guariglia, che si rifugiò nell'ambasciata di Spagna, gli altri ministri trovarono ospitalità presso il Palazzo del Laterano della Santa Sede.
I protagonisti del 1943, il Re e Badoglio.
Qui è bene precisare che cosa avvenne in quei giorni dove Re e Governo abbandonarono Roma.
Non mettiamo in discussione la legittimità del trasferimento nel meridione del Paese, per carità, quello che fu scandaloso è che nessuno lasciò disposizioni né ordini, come se gli importasse solo mettersi al sicuro.
Vediamo cosa successe, o meglio non successe.
Come si ricorderà, nel proclama diramato la sera del 25 luglio, Badoglio aveva dichiarato «La guerra continua». Ma sapeva benissimo che il problema principale che doveva affrontare era invece proprio il raggiungimento di un armistizio con gli Alleati, tenendo conto che i tedeschi avrebbero tentato di impedirglielo.
Comunque sia, Badoglio aveva accettato l’incarico senza avere una prfecisa strategia in testa.
Mosse alcuni funzionari minori affinché prendessero contatto con gli alleati, ma non disse loro nulla di preciso e, quel che è peggio, senza informarli che non erano gli unici a trattare.
Il 12 agosto inviò il generale Giuseppe Castellano in Portogallo. Il ministro degli Esteri Guariglia lo aveva incaricato di illustrare la situazione agli Alleati, precisando che senza il loro aiuto sarebbe stato impossibile staccarsi dalla Germania.
In affetti la Germania non si era addormentata in attesa degli aventi, era già pronta a intervenire. E quando Castellano giunse in Portogallo, i tedeschi avevano già occupato l’Italia settentrionale.
Dwight Eisenhower.
Dopo brevi consultazioni tra americani e inglesi, i generali alleati comunicarono a Castellano le condizioni: resa incondizionata. In quello che venne chiamato «Armistizio breve», all’Italia si chiedevano la fine immediata delle ostilità, la fine dell’alleanza con i tedeschi, il disarmo delle Forze armate, il rientro dei militari italiani all’estero. Non ultimo, la consegna di Mussolini.
Castellano non riuscì a ottenere nessun impegno in merito all’aiuto contro la Germania e tornò a Roma con il dettato dell’Armistizio breve. Tornò a Roma il 27 agosto.
Ma il 24 agosto (cioè tre giorni prima) era stato inviato a Lisbona un altro generale, Giacomo Zanussi, il quale non sapeva nulla di Castellano. Quando fu accolto dall’ambasciatore inglese, subito si pensò a un doppio gioco.
Purtroppo la realtà era più squallida: la mancanza assoluta di un piano coordinato.
Eisenhower volle incontrare di persona Zanussi ad Algeri e, al termine dell’incontro, gli fece consegnare la versione «lunga» dell’armistizio.
A Roma, quando il primo inviato, Castellano, parlò con i vertici del governo, questi rispedirono il generale in Sicilia per dire agli Alleati che l’armistizio così com’era non poteva essere accettato.
Avrebbe potuto essere accettato solo se gli Alleati avessero inviato 15 divisioni sulla costa tirrenica per far fronte ai tedeschi. Condizione fuori di testa in quanto gli Alleati avevano in tutto 6 divisioni a disposizione per l'intera campagna d’Italia.
Badoglio non andava bene.
Rispedito a Cassibile, in Sicilia, Castellano incontrò l’altro negoziatore Zanussi. Ognuno con incarichi diversi.
Superate le comprensibili irritazioni, i due concordarono sulla riduzione degli aiuti militari chiesti agli Alleati, limitandoli all’invio di una sola divisione di paracadutisti a Roma che, insieme ai militari italiani, avrebbero protetto almeno la capitale dai tedeschi.
Rientrati a Roma, Castellano e Zanussi riuscirono a convincere Badoglio ad accettare l’armistizio.
Il 2 settembre Castellano tornò a Cassibile ma, guarda caso, il generale non aveva nessuna delega per sottoscrivere un atto di quella importanza.
Dilettanti improvvisati.
Allora Badoglio e il Re si affrettarono a inviargli la delega e finalmente l’armistizio fu firmato.
Eisenhower nelle sue memorie ammetterà di non aver aiutato gli Italiani a uscire dai guai con la firma di quell’armistizio, ma al contrario di averli condotti nei guai: i tedeschi erano in agguato.
Poi iniziò la fase più vergognosa, quella di decidere quando rendere pubblico l’armistizio.
Badoglio aveva sempre paura dell’arrivo dei tedeschi, ma non provvide a far preparare gli aeroporti nei dintorni di Roma per consentire l’arrivo dei citati paracadutisti alleati per proteggere la capitale.
E già che era in vena di ambiguità, cercò di tranquillizzare i tedeschi dicendo all’ambasciatore Rudolf Rahn che avrebbe disposto le forze armate a fianco dei tedeschi. Ma era in buona compagnia, perché anche il Re aveva detto la stessa cosa.
Stars and Stripes: L'Italia si arrende.
Stufo di queste manfrine, Eisenhower informò Badoglio che avrebbe reso pubblico l’armistizio l’8 settembre.
Badoglio rispose che non era possibile perché non era stato fatto nulla per prevenire la reazione dei tedeschi.
Eisenhower andò in bestia e ordinò i bombardamenti dell’Italia per convincere Badoglio che non scherzava.
Di qui l’origine del bombardamento del 2 settembre che distrusse il popolare rione della Portèla a Trento provocando 200 morti.
E, comunque, l’8 settembre rese pubblico l’armistizio comunicandolo a Spagna e Svizzera. La stampa internazionale pubblicò la clamorosa notizia e a quel punto Badoglio dovette pubblicarlo.
Questo il testo del comunicato di Badoglio.
«Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante delle forze alleate anglo americane.
«La richiesta è stata accolta.
«Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane devono cessare da parte italiana in ogni luogo.
«Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.»
Ovviamente l’ultima frase era rivolta ai tedeschi. Ma non mancò a produrre danni, perché il dover aspettare di essere attaccati per rispondere al fuoco ha provocato massacri spaventosi. Basti pensare alla corazzata Roma, che rispose al fuoco solo dopo essere stata bombardata dai tedeschi. E colò a picco.
La corvetta Baionetta sulla la quale re e Badoglio si imbarcarono per scappare a Brindisi.
L’armistizio non prendeva nemmeno in considerazione cosa fare con i tedeschi. Agli alleati importava poco, ma a noi sì. Se non dichiaravamo guerra al Reich di Hitler, tutti i nostri soldati diventavano «traditori» nel senso giuridico (nel senso istituzionale lo eravamo comunque).
Significava che i Tedeschi potevano trattare i nostri soldati che non consegnavano le armi e si arrendevano alla stregua «partigiani» e quindi passibili di fucilazione immediata, senza per questo violare alcun trattato internazionale.
Il Re firmò la dichiarazione di guerra alla Germania solo il 23 ottobre (un mese e mezzo dopo la firma dell’armistizio), cioè dopo che verranno consumate le stragi nelle isole egee.
L'indomani mattina, 9 settembre, la Famiglia reale, quella di Badoglio con alcuni ministri e alcuni generali, scapparono ad Ancona, dove si imbarcarono sulla corvetta Baionetta per scappare a Brindisi.
Arrigo Petacco ironizzò la fuga col nome della nave: l'assalto alla Baionetta...
Roma era rimasta da sola, senza ordini. Alcuni generali avevano ricevuto l'ordine di non contrastare i tedeschi per evitare rappresaglie, altri invece avevano l'ordine di difendere la città.
Ma nessuno aveva l'autorità di eseguire un ordine o l'altro.
Guido de Mozzi – [email protected]
(Continua domani)
Che fine hanno fatto
Finita la guerra, Vittorio Emanuele III si ritirò in esilio con la moglie, prima della consultazione referendaria, ad Alessandria D'Egitto, con il titolo di «Conte di Pollenzo».
Durante l'esilio egiziano il sovrano visitò le zone di guerra dove il Regio esercito aveva combattuto pochi anni prima, fra cui El Alamein.
Morì ad Alessandria il 28 dicembre 1947. Si spense quindi il giorno dopo la firma della Costituzione italiana che, con la XIII disposizione transitoria e finale, avrebbe visto lo Stato avocare a sé i beni in Italia degli ex re di Casa Savoia e delle loro consorti.
La morte di Vittorio Emanuele III in una casetta della campagna egiziana fu dovuta a una congestione polmonare degenerata in trombosi.
Pietro Badoglio era nato a Gazzano Monferrato nel 1871 e a Grazzano morì il 1º novembre 1956 per un attacco di asma cardiaca.
I funerali si svolsero il 3 novembre successivo, anniversario della firma dell'armistizio di Villa Giusti, con la partecipazione dei rappresentanti del governo e delle autorità e con tutti gli onori militari.
Nel cimitero di Grazzano Badoglio vi è una cappella dove oltre a quella di Pietro Badoglio sono custodite le spoglie di altri familiari.
Nel 1991, dopo la chiusura dell'asilo Pittarelli, la casa natia del Maresciallo d'Italia fu destinata a centro culturale, per conto della Fondazione Badoglio, divenuta proprietaria di tutti i locali.
La villa che il generale si era fatto dare dal Regime Fascista per la conquista dell'Etiopia è oggi sede dell'Ambasciata della Cina.