Donne e lavoro: «Gioie (poche) e dolori (molti)»

Il«Valore D» produce maggiore redditività e migliore salute organizzativa. Eppure, le presenze rosa sono ancora pochissime



Una maggiore rappresentanza femminile, svela una ricerca di Valore D, produce maggiore redditività e migliore salute organizzativa.
Ciò nonostante l'Italia soffre di una profonda arretratezza sotto il profilo della presenza rosa, sia nelle istituzioni che nelle aziende.
Un gap destinato, a fronte di questo scenario particolarmente difficile, ad acuirsi.

La situazione, per le lavoratrici italiane, è tutt'altro che rosea. Il nostro Paese si posiziona all'ultimo posto in termini di tassi di occupazione femminile (47%), staccato di oltre 25-26 punti percentuali da Danimarca e Svezia e di 11 punti dalla media europea, pari al 27%.

Per quanto riguarda la «leadership femminile», poi, va ancora peggio. Con un risicato 4% di donne presenti all'interno del consiglio di amministrazione delle principali società, lo Stivale si posizione al penultimo posto della classifica, battutosolo dal Lussemburgo.

Eppure varie ricerche, tra cui quella condotta da Mckinsey, per l'associazione Valore D su 900 manager di ambo i sessi, attestano che le donne, in molti casi, sono più preparate e valide dei colleghi maschi. Tra i meriti ad esse riconosciute: una visione più ampia, l'alta capacità di motivare; il fatto di operare secondo le orme del consenso e non di potere.

La domanda, quindi, sorge spontanea: per quale motivo, allora, lo stato dell'arte è ancora così desolante?
A dare qualche risposta ci hanno provato i partecipanti dell'incontro «Sviluppo, un'impresa da donne. Perché le donne fanno bene all'economia e al business» di scena a Palazzo Geremia.

Secondo Monica D'Ascenzo, giornalista de Il Sole 24 Ore e autrice del libro «Donne sull'orlo della crisi economica» il sesso femminile raramente fa parte di un CdA non perché è priva delle competenze e dell'esperienza necessaria ma perché per entrarvi non serve un concorso.

Ne è convinto anche Carlo Dell'Aringa, professore ordinario di Economia Politica all'Università Cattolica di Milano.
«Dove viene riconosciuto il merito - sostiene Dell'Aringa - le donne primeggiano. Un esempio su tutti è la facoltà di medicina, dove per entrarvi bisogna superare un test di accesso. Le ragazze sono il 60% degli iscritti. Ma non solo. Mediamente, negli esami, hanno una votazione di un punto e mezzo superiore a quella dei colleghi maschi e di due punti nel voto di laurea.»

Vi sono poi tutta una serie di aspetti culturali.
«In primis - secondo Alessandra Perrazzelli, responsabile International Regulatory and Antitrust Affairs Intesas Sanpaolo e membro del consiglio direttivo Valore D - la permanenza di un "patto famiglia" che declina alla donna la quasi totalità della cura dei figli o dei genitori anziani. In secondo luogo, la mancanza di strutture di supporto alla maternità e il doppio incarico che mamme e mogli sono costrette a sostenere lungo tutto il percorso professionale. In Italia, infatti, solo il 6% dei bambini sotto i 3 anni accede al nido (rispetto al 44% di Norvegia, al 40% della Svezia, al 26% della Francia) e le donne del nostro Paese dedicano a casa e famiglia tra il 20 e il 45% di tempo in più rispetto alle colleghe di queste nazioni.»

La Fondazione Benedetti, prendendo atto di questo trend, ha voluto stimare il valore economico del lavoro gratuito di tipo assistenziale fornito dalle donne. L'importo che ne è uscito 300 miliardi di euro.
I margini per migliorare la situazione, secondo i relatori, ci sono. E potrebbero partire proprio dalle donne stesse. Basta, dunque, alla differente educazione tra figli maschi e figlie femmine.
Per quale motivo, si chiede Monica D'Ascenzo, il bambino quando aiuta il papà riceve una paghetta e quando a farlo è la figlia lo si considera un atto "normale"?

Altro escamotage potrebbe essere l'applicazione di una tassazione più leggera a favore delle donne o le quote di genere.
«L'80 per cento delle intervistate da Valore D - sottolinea Dell'Arringa - si dice favorevole a quest'ultimo strumento. Senza l'intervento della legge il cambiamento - sostengono le interpellate - sarebbe troppo lento. Dubito però che il Parlamento riuscirà ad approvare uno dei sei disegni legge inoltrati a tal proposito. Le parlamentari - conclude la giornalista - sono solo il 20%.»

Favorevole alle quote anche Alessandra Perrazzelli.
«Ci devono essere - commenta - procedimenti temporanei d'urgenza.»

Scettico invece il professor Dell'Aringa.
«Possono essere utili per forzare il cambiamento ma non vanno viste come soluzioni. Esse, infatti, non sono gratis. Un medico, ad esempio, deve essere scelto in base alle sue capacità e non in base al genere di appartenenza. Le quote, se usate male, - spiega Dell'Aringa - possono portare ad inefficienze che ricadrebbero, in taluni casi a caro prezzo, anche sul consumatore.»