Intervista con Edo Benedetti, l’Ultimo Testimone/ 1

Era sempre presente dove veniva scritta la storia del Trentino Prima parte: Gli anni della guerra Mondiale, l'incontro con Alcide Degasperi, il ritorno a casa. L'università, la Magistratura.

Il giorno che ho iniziato l'intervista, aveva appena compiuto 86 anni, essendo nato il 10 gennaio 1922. Suo padre era pretore a Mori, per questo era nato «lontano» dalla sua Rovereto, come dice lui.
Edo Benedetti è un po' la storia vivente del Trentino, una persona della quale possiamo andare orgogliosi, che ha sempre vissuto al servizio della comunità, senza privilegi, e senza pretese. Senza essere mai stato il grande leader, ma sempre un grande galantuomo. Senza aver mai scritto la storia, ma sempre presente e testimone dei grandi fatti che hanno accompagnato il secolo appena passato. Parlare con lui è come leggere un libro di storia senza dover sfogliare le pagine.
Una persona che non ha mai invidiato coloro che, venuti dopo di lui, hanno trovato tutto pronto, privilegi compresi.
Va tutti i giorni a piedi in ufficio, la sede centrale dell'ITAS della quale è presidente, con una falcata da fare invidia ai giovanotti. Ma ciò che fa invidiare il nostro personaggio, è la testa.
Molti si accontenterebbero di arrivare alla sua età. Pochi sperano di arrivarci con la sua lucidità e voglia di lavorare. Solo lui, penso, può essere ancora presidente di una grande realtà come Il Gruppo ITAS Assicurazioni che, essendo sorta nel 1821, è la più antica Compagnia che opera in Italia, facendolo con cognizione di causa e impegno reale ed effettivo. Nel corso dell'intervista siamo stati più interrotti perché doveva affrontare un improvviso imprevisto…
Più che un'intervista, si potrebbe dire che ne abbiamo abbozzato la sua biografia, perché con lui si sono svolti i passi più importanti della nostra terra.

Aveva solo 21 anni quando si trovava ad essere sottotenente dei granatieri in Puglia (nella belllissima foto qui sotto). Una fortuna, perché al momento dell'armistizio dell'8 settembre, che lo colse impreparato come tutti i nostri ragazzi, si trovava in territorio italiano e nel meridione del Paese, quello che sarebbe stato liberato per primo. Si trovò anche lui improvvisamente a cambiare lo status da alleato a nemico, in casa, dei tedeschi.
«Un'ora prima bevevi la birra con loro, - racconta il Presidente, come se fosse accaduto la sera prima - e adesso te li trovi con la Machinen Pistole spianata. Ma il peggio era che ognuno di noi si trovava costretto a decidere da solo che cosa fare. Eravamo stati abbandonati. È una prova alla quale nessuno dovrebbe essere mai sottoposto nella vita. Fai un giuramento di fedeltà a qualcuno che al momento della verità non ti dice a cosa devi essere fedele… - Si rabbuia un po', ma è solo un attimo. - Io non ho mai smesso lo stesso di credere nelle istituzioni, neppure al servizio reso da Casa Savoia all'Italia … Ma comprendo coloro che si sono sentiti traditi.»
«Cos'ha fatto dopo l'8 settembre?»
«Io e il mio piccolo reparto di Granatieri eravamo circondati dai tedeschi, ma nella notte eravamo riusciti a sgusciare via e, percorrendo ben una sessantina di chilometri a piedi, siamo arrivati verso mezzogiorno a Bari, dove già si erano insediati gli Inglesi. La loro diffidenza nei nostri confronti si era manifestata subito perché ci costrinsero a trascorrere alcuni giorni negli spogliatoi dello Stadio della Vittoria con scarsa alimentazione a base di scatolette di "met and egg" e acqua.»
«Lei conosceva inglese?»
«No e, anzi, la difficoltà di intenderci rese difficile il rapporto. Solo la presenza di un interprete, dopo alcuni giorni, consentì di chiarire la nostra presenza a Bari e cogliemmo l'opportunità che veniva offerta di spostarci ad Oria, dove si stava concentrando un consistente contingente di soldati italiani sostanzialmente sbandati e dove si stava prospettando l'iniziativa di costituire il primo reparto di volontari impegnati nella guerra di liberazione a fianco degli Alleati.»
«E l'avete fatto?»
«Abbiamo costituito il "Primo Raggruppamento Motorizzato", forma-to a maggior parte da Granatieri, ma c'erano anche Bersaglieri e Alpini. È stato impegnato a combattere con i reparti Alleati aggregati alla V Amata Americana e il rapporto con i componenti di tale struttura militare venne vissuto con spirito di vero cameratismo, tanto più che fra gli stessi Americani c'erano parecchi soldati di origine italiana.»

Mentre parla sembra che riviva il tutto, ma senza nessuna emozione di rimpianto o di nostalgia. Sono solamente pagine della vita, e la constatazione delle miserabili logiche che hanno scritto la storia.

«Ha anche combattuto col nuovo reparto?»
«Certo! Abbiamo fatto una prima dolorosa esperienza l'8 dicembre del '43 con il battesimo del fuoco sulle pendici rocciose di Montelungo (quota 343), lasciando sul terreno ben 232 fra morti e feriti. È stata un battaglia male progettata, senza una specifica preparazione fra le truppe impegnate ed è mancato l'affiancamento degli Alleati (nella foto qui sopra) che non erano addestrati al conflitto ravvicinato su terreno montuoso. Solo, a copertura, un forte sbarramento di artiglieria che minacciava di colpire quanti combattevano sul fronte, noi compresi.»
«Se ricordo bene, c'erano anche Marocchini, Indiani, Neozelandesi…»
«Con noi c'erano anche i Polacchi che combattevano bene, mentre i Marocchini che vennero affiancati a noi in un momento successivo, erano degli avventurieri, se non dei predoni.»
«Non avevate sfondato, vero?»
«Il successivo 16 dicembre 1943, riprendemmo i combattimenti con una maggiore consapevolezza della strategia da adottare, sfondammo a Montelugno e ci attestammo nell'area ai piedi di Montecassino e Monte Mario.»

L'inquadramento storico


Nel contempo tuttavia Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche in Italia, aveva avuto il tempo di far affluire forze ben addestrate nella zona di Cassino, in particolare i Grünenteufel del generale Student. Il 20 gennaio i tedeschi riuscirono a respingere una divisione inglese e da allora fallirono tutti i tentativi di assalto sia da parte americana che neozelandese e indiana.
I comandi alleati si resero conto dell'impossibilità di prendere il Monastero in quelle condizioni. In questo contesto, tra il 5 e il 15 febbraio maturò una delle decisioni più controverse dell'intero conflitto: il «bombardamento di Montecassino».

La questione chiave, a cui gli alleati risposero affermativamente era se il Monastero fosse, o no, occupato dai tedeschi. In effetti non lo era, ma questo lo si scoprì solo dopo. Lo stesso Generale Clark, che dette l'ordine, a posteriori ammette che fu un tragico errore di tattica militare - oltre che una vergogna dal punto di vista morale - che rese poi tutto il lavoro più difficile.
Il 15 febbraio l'aviazione alleata rase a suolo Montecassino in un bombardamento che durò per tutta la mattinata. I bombardieri facevano il punto sul fumo dell'Etna, allora in attività.

Il giorno dopo la distruzione, gli attacchi degli indiani fallirono perché i tedeschi si impadronirono delle rovine che ora offrivano un riparo perfetto. Infatti qualsiasi esperto di guerra urbana può confermare come una casa o una struttura in generale può rivelarsi una trappola per topi, mentre invece delle macerie un riparo ideale.

A partire dalle 8,30 del 15 marzo 1944, ondate di bombardieri alleati rasero completamente al suolo anche la cittadina di Cassino (nella foto a fianco ciò che rimase dell'abbazia), che era già stata gravemente danneggiata dai precedenti combattimenti. 575 bombardieri pesanti e medi e 200 cacciabombardieri scaricarono 1.250 tonnellate di bombe sull'abitato. Anche questa volta la precisione dell'aviazione alleata lasciò a desiderare: alcune bombe vennero lanciate sul Quartier generale dell'8. Armata americana e sull'artiglieria neozelandese, causando 75 morti e 250 feriti; senza contare le perdite tra la popolazione civile italiana.

Alle 12,30 iniziò il fuoco d'artiglieria: dopo due ore 746 cannoni avevano sparato 200.000 proiettili sulla città e sulla collina. Una volta terminato il bombardamento, le truppe neozelandesi e indiane si lanciarono all'attacco, venendo però subito bloccate da una tenace resistenza tedesca: alla sera le truppe alleate erano penetrare meno di 200 metri fra le macerie della città, che nel frattempo si era trasformata in un'immensa barriera anticarro. Nei giorni successivi cruenti combattimenti tra le truppe indiane (tra i quali i temibili Gurkha) e neozelandesi vennero bloccati dalla tenace resistenza dei Grünenteufel tedeschi arroccati fra le rovine del Monastero, in quella che venne ben presto ribattezzata «la Stalingrado italiana».

Il 22 marzo, dopo l'ennesimo inutile assalto alleato, il Generale Alexander decise di sospendere ogni azione. Anche la terza battaglia si era conclusa con un sostanziale nulla di fatto. Le perdite tedesche erano però state pesanti: la 1. Divisione era ridotta a una forza che andava dai 40 ai 120 uomini per battaglione. Anche gli Alleati avevano sofferto gravi perdite, con le truppe neozelandesi, indiane e inglesi che avevano perso 2.400 uomini in meno di nove giorni di battaglia.

Di fronte a questa situazione, Alexander decise di aspettare la buona stagione prima di lanciare l'attacco finale alla Linea Gustav, in modo da prepararlo perché non potesse fallire.

L'ultima battaglia di Montecassino venne combattuta dai Polacchi. Il primo assalto portò gravi perdite ma permise agli Inglesi di irrompere tra le linee tedesche nella valle del fiume Liri, sotto il Monastero. Il secondo assalto, compiuto ad un altissimo prezzo da parte delle truppe polacche, spinse i tedeschi fuori dalla loro posizione quasi ad accerchiarli. Nelle prime ore del 18 maggio una pattuglia di Polacchi prese le rovine.

«Poi, dopo Cassino?
«Siamo saliti lungo il litorale del Tirreno, impegnati in alcuni combattimenti, incontrando anche quali avversari fratelli italiani appartenenti al Battaglione Monte Rosa costituito dall'allora Repubblica di Salò. Erano soldati senza ideali e ridotti alla fame, in prevalenza di origine meridionale e solo desiderosi di tornare alle proprie case dopo venir da noi disarmati.»
«Altri episodi cruenti?»
«Nella zona di Terracina subimmo un violento bombardamento aereo notturno, fortunatamente conclusosi con pochissime perdite. E quando avvenne lo sbarco degli Alleati ad Anzio, noi superammo le ultime resistenze tedesche nella zona di Genzano e Velletri per entrale il 5 giugno del '44 in Roma, ormai liberata.»
«Immagino che entrare a Roma abbia significato una grande emozione…»
«Ci mandarono a presidiare le strutture del EIAR a Monte Mario, ma accadde un fatto che vale la pena essere raccontato.»
«Prego.»
«Un incontro fortuito in Via della Conciliazione con lo scultore Ticò, originario di Volano, mi diede l'opportunità di avere un indimenticabile incontro e colloquio con Alcide Degasperi, che era stato accolto come rifugiato in Vaticano, al quale era stata affidata la tenuta dell'archivio. Degasperi mi accolse in un piccolo ufficio, con poco arredo, e il colloquio si protrasse per più di un'ora. Volle conoscere i precedenti della mia avventura militare, parlammo di democrazia (che per noi giovani cresciuti nel particolare contesto del periodo fascista rappresentava una novità), poi di monarchia e repubblica, sostenendo quest'ultima da lui definita "una democrazia più compiuta". E poi del nostro Trentino, anzi della nostra Regione, sottoponendo alla mia attenzione dei foglietti da lui vergati sui quali stava tracciando con grande intuizione e lungimiranza la bozza del nuovo Statuto di Autonomia della Regione Trentino-Alto Adige, puntualizzando come la Regione "doveva essere un contenitore con una cornice entro la quale avrebbero convissuto Italiani, Tedeschi e Ladini".»
«Si vede proprio che Degasperi era nato in una zona di confine, dove la diversità non fa nazionalità… Vedeva già l'Europa. Sua figlia Maria Romana mi aveva detto che studiando insieme a croati, ungheresi e cechi, l'ultimo problema era il "giusto confine"…»
«Ma non erano solo teorie, perché già era entrato nel vivo delle competenze parlandomi della scuola, della utilizzazione delle risorse idriche e della valorizzazione del legno, citando addirittura la foresta di Paneveggio da lui definita "la nostra miniera".
«Come era stato l'incontro, dal punto di vista umano?»
«Riguardo e soggezione. Lui aveva una certa soggezione per la mia divisa. Ma io avevo per lui un riguardo riverente. Era come se avessi capito chi sarebbe diventato, la sua statura era già tale da far capire che sarebbe stato lui il futuro del Paese.»

«La guerra come l'ha finita?»
«Proseguimmo la marcia di avvicinamento verso Nord, passando per Firenze, Sesto Fiorentino, Livorno e l'Emilia, attestandoci tutto l'inverno del '44 sui passi della Futa e della Raticosa, impegnati in scaramucce e isolati scontri con reparti tedeschi, ma specialmente impiegati nei servizi complementari all'attività bellica.»
«Dove si trovava quando venne firmato l'armistizio?»
«Io ero a Mantova. Chiesi e ottenni subito un permesso per andare a casa, a Rovereto, ansioso di incontrare i miei familiari, dei quali non avevo notizie da più di due anni. È stato un viaggio avventuroso durato tutta la notte per continue interruzioni stradali provocate dai Tedeschi in ritirata. A poche centinaia di metri da casa mi imbattei in alcuni tedeschi armati che presidiavano il Ponte sul Leno a protezione dei loro commilitoni che lasciavano l'Italia. Non mi molestarono.»
«E… il ritorno a casa?»
«L'incontro con i miei familiari ha costituito una grossa ed imprevedibile sorpresa con momenti d'indicibile commozione. Specie la mamma, incredula, svenne per l'emozione fra le mie braccia.»

Guido de Mozzi

(1/3 - Fine della prima parte dell'intervista)