Controcanto alla morte – Di Vittoria Haziel
Un controcanto più breve del solito. Meglio non soffermarsi troppo sull'argomento. Per scaramanzia, s'intende, e per non essere contagiati dal virus mortale… Tredicesima parte (e non poteva essere diversamente...)

Cari pellegrini, se per caso venite
in pellegrinaggio a Torino, per esempio nel 2010 a vedere la
Sindone nuovamente ostensa (e mi rivolgo ai «Pc», cioè a
quei pellegrini che abbiamo chiamato «comuni», che vanno a
piedi sulle rotte dei santi e dei santuari), sappiate che questa
città è in realtà la capitale del funerale. Lo dico anche ai
«pellegrini da Vinci» («P(d)aV»), che invece potrebbero
venire per mettersi in fila davanti all'Autoritratto di Leonardo in
una delle rare ostensioni da parte della Biblioteca Reale che ne è
proprietaria.
Alla capitale del funerale dico «no», e vengo subito al cuore del
problema. La situazione è la seguente da parecchi anni a questa
parte, e registra una crescita esponenziale. Torino è letteralmente
tappezzata di pubblicità funeree, che in luogo di gelati o di
vacanze ci parla di bare, becchini, sepolture e affini. Semafori,
incroci, strade di grande e minor traffico, fermate di autobus e
fiancate di mezzi pubblici, insomma dappertutto la città è presa
d'assalto da quello che sin dai primi spot è stato definito il
«funerale classico del Piemonte» (che griffe, signori!) che a
gomitate fa fuori gli altri, mettendo in guardia che «i
suggerimenti in ospedale sono da denuncia».
La città di Torino si conferma, toccando ferro, città laboratorio.
Ma non basta: le raffiche funeree continuano su televisioni e radio
private con i loro «spot della morte», si accaparrano intere pagine
di giornali.
E il cittadino? Sta a guardare, quando non è distratto. Silenzio:
parla «il manager delle onoranze funebri» (che poi in realtà pare sia una donna). Alla
carica, dietro a questo, vanno altri manager che
pubblicizzano la morte: altre ditte di pompe funebri, e addirittura
una nota società di fitness che tempo fa sban-dierava a tutta
pagina seminari sulla «assistenza al morente».
Che dite di questo dilagante parlare di morte, cari compagni di
viaggio?
C'è di più. I cartelloni giganti gridano anche a «una nuova
opportunità per lavorare in proprio» (pensare di farlo sugli spazi
che i giornali riservano alla ricerca del personale? Sarebbe troppo
soft!).
L'imprenditore mortuario quando «ricerca affiliati» in questo modo,
chissà perché suona più come il capo di una setta, che non come un
capitano d'azienda che sbandiera con orgoglio di primato le sue
«onoranze funebri in franchising». Imprenditore con mire
espansionistiche maniacali.
Apriamo lo Zingarelli alla voce «pubblicità»: «Attività aziendale
diretta a far conoscere l'esistenza di un bene o servizio e a
incrementarne il consumo e l'uso».
Va da sé che la pubblicità di un caffé mi stimoli comunque al
consumo di quella bevanda. A prescindere dalla marca. «Incrementare
il consumo e l'uso» (di bare, in questo caso), vuol dire farsi
venire la voglia di morire?
Si può dare il lasciapassare a questa industria della morte e al
suo marketing ostentatamente indelicato e di pessimo gusto quando
ricorda ossessivamente la dipartita a una città già «in agonia», in
un momento delicato della sua storia?
Qualcuno dovrebbe difenderci da questo entrare arrogante in casa
nostra nella vita di tutti i giorni, di casalinghe che escono per
fare la spesa o di impiegati che si recano al lavoro, ma ancor più
di bambini che vanno a scuola con il loro zainetto saltellante!
È doveroso chiedersi che effetto possa fare questa pubblicità di
sepolture sui depressi, sui disorientati, su coloro che sono
disturbati e scossi da una società che ha perso il capo e la coda,
su coloro che hanno smarrito fiducie e sicurezze e cercano una
scintilla qualsiasi per ricaricarsi le speranze, gli entusiasmi, il
coraggio di vivere.
Gli organi di controllo della pubblicità sono stati avvertiti, ma i
risultati stanno a zero. Nonostante i reclami dei cittadini (venuti
dopo l'articolo impubblicabile), la città è ancora lì, docile, a
subire i manifesti di morte contro i quali, evidentemente, nulla si
può fare.
Purtroppo il buon gusto non rientra nelle difese codificate. Ma ci
sono norme che regolano la pubblicità che tocca argomenti tabù. E
la morte non si può escludere che sia tra questi.
Nell'attesa di sviluppi, il popolo sovrano ha un potere, e lo usi:
quello di difendere la vita a tutti i costi. Cari pellegrini
vicini, siete d'accordo di cogliere questa occasione per opporci
decisamente al funerale per Torino? Attingiamo alle nostre risorse.
Teniamo duro, cerchiamo di non utilizzare quella pubblicità
menagrama. Forse, tutto sommato, la querelle mortuaria può servirci
a reagire con stizza e a rinascere. Al numero verde rispondiamo con
il semaforo rosso.
Il controcanto stavolta è più breve del solito. Il fatto è che non
vorrei soffermarmi troppo sull'argomento. Per scaramanzia,
s'intende, e per non essere contagiata dal virus mortale…
Davincianamente vostra
Vittoria Haziel
Nota del
direttore. La pubblicità deve essere veritiera. Al massimo
può esagerare, ecco. A purissimo titolo di esempio, dire che sono
morto è un'esagerazione. Non mi sento bene, tutto lì...
Nella foto:
Vittoria Haziel, in veste di goliarda (è arcivescovo del Sacro
Taurini Cornus), mentre prega con un'amica che la citta della
Sindone (sullo sfondo) scelga l'allegria in luogo dei
bombardamenti mortuari.