Il mercato creato dalle organizzazioni criminali è il mercato non-democratico per eccellenza

Le testimonianze dei protagonisti della battaglia per la legalità al Sud. L'imperativo è rompere i rapporti organici fra mafia, affari e sistema politico

Il mercato creato dalle organizzazioni criminali è il mercato non-democratico per eccellenza. Si nutre di connessioni profonde e ramificate con il mondo imprenditoriale e con la politica, gestisce gli appalti pubblici, gli aiuti di stato, prospera dunque nella zona grigia dove legale e illegale si confondono e si contaminano a vicenda. Facile intuire dunque perché in un Festival dell'economia dedicato al tema «mercato e democrazia» le testimonianze sentite stamani, di alcuni dei protagonisti della lotta a mafia, camorra, 'ndranghera e altre organizzazioni criminali nel Meridione, con vasti agganci però anche nel resto dell'Italia e all'estero, assumano un'importanza eccezionale.
«La lotta per la legalità» era il titolo scelto per questo confronto, moderato dal giornalista de «Il Sole 24 Ore» Nino Amadore, e non ha deluso le aspettative: sul palco le testimonianze di Ettore Artioli, responsabile di Confindustria con delega per il Meridione, giovane imprenditore che nel 1991, quando venne ucciso Libero Grassi, denunciò l'indifferenza e finanche le collusioni fra la stessa organizzazione di cui faceva parte e Cosa nostra; Maria Teresa Morano, imprenditrice calabrese e coordinatrice delle associazioni antiracket; Liliana Ferraro, ex-collaboratrice di Falcone e protagonista della lotta alla mafia in Sicilia; Michele Prestipino, magistrato, già alla Direzione nazionale antimafia, il cui lavoro contribuì alla cattura di Michele Provenzano.

«Un paese normale vorrebbe un paese senza spazzatura ma soprattutto senza la spazzatura umana rappresentata dai mafiosi», ha esordito Amadore, che nel suo lavoro (e con la più assoluta libertà da parte dell'editore) ha tenuto a precisare di aver scritto anche cose che «a qualcuno non sono piaciute, ma si va avanti, perché chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.»
«Ci sono molti buoni motivi per dire che la mafia con l'economia c'entra eccome, perché il denaro mafioso cerca canali nuovi ogni giorno per arrivare nel circuito legale - ha proseguito il giornalista, aggiungendo che - al Sud è mancata una rivoluzione borghese. Abbiamo avuto un po' di democrazia, ma ci è mancato il mercato.»
Quel mercato, mercato pulito, mercato fatto di imprenditori che come ovunque nel mondo chiedono solo di fare il loro lavoro, sta tuttavia lentamente emergendo; è questa la grande novità oggi in Sicilia, ed è questo che fa sì che Cosa nostra stia perdendo terreno, assieme naturalmente all'offensiva delle forze dell'ordine.
«Gli anni '90 sono stati gli Anni di piombo nella mafia. - Ha detto Artioli - Ne colpivano uno per educarne cento, per citare il triste slogan di un'altra tragedia italiana. Io conoscevo Libero Grassi, conoscevo i suoi figli, frequentavamo gli stessi posti a Palermo. Prima della sua morte, la Confindustria da mesi sembrava occupata solo a prendere le distanze da lui e dalle sue denunce. Avevo trent'anni, pensavo ancora che il mondo potessero essere cambiato in meglio: manifestai, assieme a tanti altri giovani imprenditori, pieno dissenso verso il comportamento dei senior dell'organizzazione. Ma la colpa non era nemmeno loro, andava ricercata molto più indietro, quando la macchina si è messa in moto. Oggi molte imprese in Sicilia guardano al mercato, non solo al denaro pubblico, per questo le cose cominciano a cambiare. Il Meridione deve affrancarsi dal denaro pubblico. A volte mi chiedono cosa ne penso dell'ondata federalista che cresce al Nord: io penso che per il Sud sarebbe uno choc, ma alla fine avrebbe l'effetto di mettere in moto le sue vere energie produttive e imprenditoriali. Per questo sostengo l'abolizione della legge 488 (sugli aiuti alle imprese): perché sappiamo che i mafiosi conoscon benissimo i sistemi per portare le risorse stanziate da quella legge nelle loro casse.»

In Calabria, invece, questo risveglio ancora non si vede.
«Forse la struttura produttiva della Calabria non è forte come quella della Sicilia - ha detto Maria Teresa Morano - le grandi imprese non hanno dato ancora alcun segno di cambiamento. Se non stai alle regole sei tagliato fuori. Gli imprenditori che si ribellano non lavorano: c'è un'impresa di calcestruzzi con 50 dipendenti che ha denunciato il racket e dopo non ha più venduto un metro quadro di calcestruzzo, in una regione dove si sta rinnovando la Salerno-Reggio Calabria; la soluzione è andarsene, ma che ne è dei lavoratori? Questo non significa che non si possa dire di no. L'importante è capire che c'è differenza fra il farlo da soli, come fu purtroppo il caso di Libero Grassi, e farlo dentro un gruppo, un'organizzazione che fa da scudo. Questo è il nostro ruolo. Bisogna affrontare anche il nodo delle sanzioni per chi paga, perché chi paga il pizzo, oltre a tutte le conseguenze sociali del suo gesto, fa anche una concorrenza sleale all'imprenditore onesto.»

Liliana Ferraro ha rievocato i tempi in cui si costruiva l'aula bunker di Palermo.
«Ogni mattina controllavamo i camion che entravano in cantiere, facevamo controlli incrociati sulle targhe, i mezzi in odore di mafia non passavano. Un lavoro lunghissimo: bonificammo perfino le fognature perché temevamo che potessero farci arrivare una bomba per quella strada. Alla fine però la spuntammo. E dopo? Ci saremmo attesi che la Sicilia ci venisse dietro. Ma non è successo. Come Fondazione Falcone facemmo un'indagine nelle scuole: si scoprì che c'era una grande condivisione delle azioni della mafia. Per questo trovo straordinario vedere tanti giovani, qui a questo Festival dell'Economia di Trento. Da noi la tensione si è attenuata; abbiamo portato Ciampi, abbiamo portato Amartya Sen e tanti altri, raccogliendo 30-40 persone scarse. Ma non mi si venga a dire che le organizzazioni criminali riguardano solo il Sud dell'Italia. Dove vanno i profitti? Non certo a Napoli o a Palermo: magari a Los Angeles, dove il consolato francese era in affitto in uno stabile di proprietà di un mafioso italiano, che viveva in Costa Azzurra, godendo dell'immunità garantita dalle leggi del Paese: in Francia non mi credevano, poi mi hanno dato ragione, e finalmente ci hanno concesso l'estradizione.»
Riguardo al regime carcerario, infine, la Ferraro è netta: «Per gente come Riina o Provenzano non è possibile recupero.»

Infine Michele Prestipino, che ha sottolineato come il problema stia innanzitutto nella «zona grigia», quella che fiancheggia la criminalità organizzata. Una zona fatta di addentellati politici (negli anni '70, in Sicilia, all'epoca del «sacco di Palermo», Vito Ciancimino), ma anche economici e finanziari.
«Oggi sta accadendo un fenomeno nuovo: Cosa Nostra ha perso o almeno attenuato la sua forza, e ha subito durissimi colpi. Ma dall'altro lato ci sono gli interlocutori di sempre, quelli che hanno beneficiato delle loro relazioni con la mafia: la tentazione, per essi, potrebbe essere di iniziare a fare da soli, senza più appoggiarsi direttamente all'organizzazione criminale.
«Bisogna capire insomma che il rapporto fra organizzazioni criminali e tessuto economico non è mediato solo dalla tangente, dal famoso 3%. Lo stesso imprenditore spesso trae la sua convenienza dal rapporto con il mafioso. Per questo è stato straordinario vedere, recentemente, la scesa in campo della gente che lavora e che produce, gente che mette in gioco la sua faccia e i suoi affari, non, passatemi il termine, l'antimafia "parolaia". Ma anche altre categorie dovrebbero esporsi: liberi professionisti e politici su tutti.»