Molestie – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista
La cultura della violenza imperversa: dobbiamo chiederci come educhiamo i maschi, cosa insegniamo e quali modelli presentiamo
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Molestare è un verbo di violenza perché narra le azioni che la anticipano o la includono. Indigna però scoprire che le molestie sono tali solo se la reazione della vittima non è ritardata. Se si oppone dopo 20 secondi, la molestia non c’è e nemmeno il reato. Pare follia ma accade oggi. Quasi a dire che è il tempo a definire l’offesa, quando non hai una prova tangibile della molestia e non riesci a leggere la ferita interna. Se il corpo non accusa il colpo il danno non esiste.
Senza contare che si fatica a capire il costrutto del tempo come discrimine per definire che ogni molestia è offesa, abuso, violenza. Forse si dimentica che l’abuso psicologico produce danni pari a quello fisico e si trascura il fatto che anche le offese verbali possono lasciare tagli profondi e a volte segni indelebili.
La psico-traumatologia ha ribadito in più occasioni che la violenza è già dentro le offese fisiche e verbale, soprattutto quelle a sfondo sessuale, che feriscono in profondità la vittima e colpiscono l’intimità dell’individuo, la sfera personale del corpo come confine per le relazioni.
Lo confermano le risposte emozionali che le donne offese manifestano quasi immediatamente, dove per primo c’è il disorientamento e poi in successione la vergogna e la colpa insieme a un’umiliazione profonda. Questo paralizza o inibisce una possibile reazione e la sensazione prevalente è quella di sentirsi disarmata e incapace di reagire e proteggersi.
Non si tratta di consenso né di accettazione della prepotenza dei gesti: il ritardo con cui la vittima si oppone è dato dallo sconvolgimento che domina e dall’idea diffusa che qualcosa di negativo la vittima deve aver fatto per meritarsi quello che sta subendo. Significa che per prima cosa, la donna umiliata si ripete internamente di «me la devo essere cercata io» e essere lei stessa causa del suo mal.
Un tempo l’umiliazione era anche nelle «molestie di strada» ovvero in quei comportamenti maschili fatti di fischi, battute o gesti allusivi alla sessualità che sembravano esprimere apprezzamento per il genere femminile, mentre erano azioni offensive camuffate, pubblicamente imbarazzanti e volgari che facevano vergognare le vittime. Molestie che, si diceva erano il frutto del «pappagallismo» maschile e goliardico, mentre erano gesti indecorosi e offensivi di uomini che così facendo esprimevano potere e controllo maschile.
Oggi questa tipologia di molestie si sono ridotte, ma ancora troviamo diffuso il «catcalling» termine inglese che rimanda ai commenti volgari o anche ai complimenti innocenti ma imbarazzanti o agli insulti verbali in presenza e online, senza controllo e senza limiti, eredità pesante di una cultura patriarcale e sessista, dura a scomparire.
Allora serve una riflessione profonda dei maschi che possa renderli consapevoli della violenza che sta nei gesti offensivi anche «minimi», non nel tempo di esposizione o nella reattività della vittima. Ma serve una riflessione collettiva per capire quanto abbiamo ancora da fare per modificare la cultura della violenza e chiederci come si educano i maschi. Cosa insegniamo e quali modelli presentiamo.
Giuseppe Maiolo - Psicoanalista
Università di Trento - Docente di psicologia delle età della vita