«Trento, Città Fortezza»: la mostra inaugurata alle 18 di oggi

Alle Gallerie di Piedicastello la documentazione dello scempio che il capoluogo trentino dovette subire per negli anni della Grande Guerra

Carriaggi austroungarici nei pressi della ferrovia della Valsugana a Trento.
 
La mostra che viene inaugurata nel tardo pomeriggio di oggi alla Gallerie di Piedicastello, a cura di Elena Tonezzer, è forse la più importante e terribile testimonianza di quanto accadde nell’«anno di passione» (il 1915) con la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria.
Sono pochi i Trentini che conoscono la situazione (quasi zero gli italiani ), perché alla fine della guerra le istituzioni cercarono di cancellare in fretta le tracce del disastro, sia da una parte che dall’altra.
Ma sono pagine che l’intero Paese dovrebbe conoscere e ricordarle ogni volta che a qualcuno viene il sospetto di «ingiusti benefici» goduti dal Trentino.
 

Foto di gruppo in Piazza Duomo - Sotto, camion militare in Piazza Fiera.

 
Alla dichiarazione della guerra, il 23 maggio 1915, l’Italia aveva ptoclamato lo stato di guerra nelle province di Belluno, Brescia, Ferrara, Mantova, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza, nonché le isole e le coste dell’Adriatico. In queste province italiane entrò in vigore la legge marziale.
Il 23 maggio, l’Austria - respinti i sacchi contenenti la corrispondenza proveniente dall’Italia - si affrettava a interrompere le ferrovie del Brennero e della Valsugana, e tutte le linee telefoniche e telegrafiche tra i due Paesi. Poi dichiarò lo stato di guerra nei territori del fronte con l’Italia. In Trentino ordinò l’evacuazione di oltre 100mila cittadini che risiedevano nella parte meridionale della provincia. La presenza di italiani a ridosso delle linee dava un comprensibile senso di disagio ai combattenti che, come si sa, provenivano dal resto dell’Impero (niente italiani contro italiani).
Ma che fine fece il capoluogo? Trento aveva allora circa 30.000 cittadini. L’Austria ne ordinò lo sfollamento di 20.000, cioè due terzi della popolazione, perché c’era bisogno di abitazioni, di caserme, di mense, di ospedali. [Rovereto, 12.000 abitanti, fu quasi del tutto evacuata - NdR]
La scelta di chi dovesse lasciare la città fu fatta sulla base di alcune regole semplicissime. Anzitutto venne allontanato chi non contava nulla e chi contava troppo. Poi furono sfollati tutti coloro che non erano in grado di dimostrare di essere autosufficienti dal punto di vista alimentare e chi per qualche minima ragione potesse rappresentare un pericolo per la sicurezza militare.
 

In posa su un mortaio con San Lorenzi di sfondo - Sotto, ufficiali in Piazza Duomo.

 
Ricordo un aneddoto che mio padre raccontava in proposito. Suo padre (mio nonno) aveva un mulino alla Vela, le cui materie prime (granaglie) venivano dalle pianure ungheresi. Visto il valore strategico degli alimentari, aveva dei gendarmi di guardia allo stabilimento.
Ma i sacchi di farina erano troppo importanti. Non solo per nutrirsi, ma per evitare la deportazione in altre zone dell’impero per mancanza di mezzi di sostentamento.
Di conseguenza, ogni tanto arrivava il carro funebre con una bara. Vuota. Di nascosto caricavano dei sacchi di farina nella bara e di nascosto li scaricavano nelle abitazioni che stavano per essere controllate dalla gendarmeria.
Roba da niente, è vero. Ma si provi a pensare all’idea di dover fare i bagagli per andare chissà dove e lasciare che la tua abitazione venisse affidata a delle soldataglie…
 

Foto di gruppo sulla scalinata dell'attuale Provincia di Trento - Sotto, un aereo a Gardolo.

 
Fatto sta che la città fu stipata di militari che parlavano lingue sconosciute e che non si facevano riguardi sulle proprie necessità.
Il Castello del Buonconsiglio divenne una caserma, l’attuale sede della Provincia autonoma di Trento (già un grande albergo nei pressi della stazione) divenne il comando militare del teatro operativo (il comando dell’Armata del generale Dankl era a Bolzano), stessa fine il Grand Hotel Trento. Poi divennero ospedali, traboccanti di feriti e di ammalati di febbri contagiose che allora si diffondevano senza controllo, il seminario, le scuole Crispi, le scuole Verdi e tutta via Verdi.
Le campane vennero tolte dai campanili (nella foto a pié di pagina, quelle del Duomo).
Le piazze della città divennero centri di raccolta dei carriaggi e dei soldati destinati ai fronti sugli altipiani.
Sorse il campo di aviazione di Gardolo, che si aggiunse a quello strategico del Ciré e quello tattico di Folgaria.
In piazza Dante venivano esposti i bottini di guerra (mitragliatrici, cannoni, ecc.)
La città si trovò invasa da soldati di divise fino allora sconosciute, come gli ufficiali turchi che per qualche ragione gli Imperi Centrali avevano deciso di portare in Trentino.
 

Prigionieri italiani in Piazza Duomo - Sotto, un campo di concentramento.

 
Infine, arrivarono i prigionieri. Fatiscenti campi di concentramento raccoglievano quei poveri disgraziati che si erano arresi. Dovevano lavorare come schiavi, mangiare poco e non lamentarsi mai.
Tra questi i soldati russi, che – si badi bene – non lasciarono tracce nei minuziosi registri austroungarici. A quanto pare già allora erano già considerati «Untermenschen» (specie inferiore di uomini) e perfino dagli stessi comandi russi… Ma molti trentini ricordano che i nonni raccontavano dei prigionieri russi che imploravano un tozzo di pane per pietà, uniche parole che conoscevano in italiano. Non gli davano praticamente nulla da mangiare e li facevano lavorare dalla mattina alla sera.
I soldati trentini non venivano mai fatti tornare in licenza in Trentino, sarebbero stati scomodissimi e magari non sarebbero tornati più al fronte. Neppure i feriti potevano passare la convalescenza a casa, al massimo li portavano a Innsbruck.
I prigionieri italiani venivano trasferiti immediatamente in zone dove non si parlava l’italiano.
Quando venne fatto prigioniero Cesare Battisti, furono pochi i trentini che lo videro di persona. Si seppe subito, perché le notizie cattive correvano più veloci del telegrafo, così come si seppe del suo processo farsa e della sua esecuzione, indegna di un paese civile come l’Impero Austro Ungarico.
I Trentini soffrirono per la sua morte.
 

Un mezzo militare con la cappella dell'Ex S. Chiara di sfondo - Sotto, soldati in città.
 
 
Ecco, questo e tanto altro materiale è esposto nella Galleria Bianca (la si raggiunge passando dalla Galleria Nera), con testi scritti e parlati, con immagini statiche e dinamiche, con effetti azionati da sensori di prossimità, con documenti agghiaccianti e soprattutto fotografie in cui si riconosce la città solo grazie a qualche inconfondibile monumento di sfondo.
Invitiamo a visitarla, suggerendo di leggere il libro che uscirà a suo tempo per documentare lo scempio che la città di Trento dovette subire in quei terribili anni di guerra.
Ma, lo ripetiamo, l’Italia intera dovrebbe conoscere cosa accadde in questo piccolo territorio dell’Impero dopo che consegnò la dichiarazione di guerra, il 23 maggio 1915.
I Trentini sono italiani, è fuori discussione. Ma sono stati gli unici italiani ad aver perso la Grande guerra
 
G. de Mozzi.
 
Ringraziamo Elena Tonezzer per il bellissimo lavoro che ha svolto per allestire la mostra.