21 marzo: P come Primavera, P come Poesia – Luciana Grillo
Nel giorno in cui si compie l’equinozio di primavera si celebra anche in tutto il mondo la «Giornata internazionale della poesia»
Marina Cvetaeva, Arianna, a cura di Barbara Castiglioni,
Traduzione di Luisa de Nardis
Editore Mimesis 2021
Pagine 120, € 12
Gilda Policastro,
L’ultima Poesia – Scritture Anomale e Mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi
Editore Mimesis 2021
Pagine 200, € 18
Nel giorno in cui si compie l’equinozio di primavera e la durata del dì equivale alla durata della notte, si celebra anche in tutto il mondo – o almeno dove si può – la «Giornata internazionale della poesia».
Quale poesia? E ha un senso ancora oggi, nel 2022, parlare di poesia mentre risuonano boati di guerra, mentre l’umanità affronta quelli che si spera siano gli ultimi lampi di una pandemia?
L’editoria non trascura la poesia, anche se pubblicare versi è quasi sempre un flop… la poesia è forse un’esigenza intima che affiora nei momenti difficili; oppure poesia è sinonimo di ricordi, di giovinezza, di studio, di liriche imparate a memoria, di rime che dopo anni ancora ritornano in mente.
Si ripubblicano le opere di poeti classici, ma si riprendono miti e se ne fanno nuovi versi, come accade, ad esempio, in Arianna di Marina Cvetaeva, poetessa che ha cantato «la lontananza, la rinuncia, l’impossibilità… costretta a subire ogni tipo di abbandono e di esilio: dalla sua patria, dagli uomini e dalle donne di cui si innamorò, dal poeta che più venerava, Rainer Maria Rilke, con cui intrattenne una breve ma intensissima corrispondenza».
Arianna, «quasi passiva spettatrice del suo stesso mito>>, forse era stata una divinità, forse era legata al dio dell’ebbrezza – Dioniso, - forse dunque non era soltanto la donna abbandonata da Teseo, come è stata cantata da Catullo e da Ovidio, ma anche l’amante rabbiosa che si vendica, augurando all’uomo che aveva aiutato a sconfiggere il Minotauro «di essere smemorato con i suoi cari come era stato senza memoria con lei: e Teseo, con la memoria avvolta da nera caligine, dimenticherà di sostituire le vele nere con quelle bianche, provocando il suicidio del padre».
Teseo, smemorato e ambiguo, avrà tante donne e tanti amori, ma «tutti sfortunati», scrive Cvetaeva, che vive in prima persona i suoi amori sfortunati, fuggendo davanti alla possibilità di un incontro, come quando nel 1952 Pasternak le scrive che è pronto per lei ad abbandonare sua moglie… Marina preferisce l’assenza.
La curatrice del testo, Barbara Castiglioni, presenta dunque la tragedia Arianna e ci invita a leggerla considerando la protagonista prigioniera del tempo che «come una sibilla di sventura, presagisce subito il suo abbandono da parte di Teseo, pur non rinunciando ad illudersi…»; la traduttrice, Luisa de Nardis, «chiarisce le enormi difficoltà alle quali va incontro chi si cimenti nella traduzione dei versi della Cvetaeva: l’ardua impresa di tradurre poesia è resa ancora più difficile e insidiosa dalla ricerca di rendere in italiano il ritmo e la musicalità di una lingua tanto distante, il russo».
Naturalmente non posso riportare qui tutta la tragedia, ma qualche verso sì, per esempio il dialogo fra Arianna e suo padre Minosse, da cui emerge una mentalità arcaica (?) e maschilista:
Arianna: «Be’, rimarrò io, consolazione/della canizie tua.»
Minosse: «Una figlia non è un figlio./ Una figlia – ahimè, bel cambio! -/ Al posto di un figlio. Un baluardo scambiarlo/ con della spuma? In questo mare di lacrime/ spuma è la vergine, il figlio invece una roccia.»
Arianna: «Il figlio è una roccia, ma la figlia per conforto/ è stata plasmata, farfalla della casa.»
Troppo lontano ci porterebbe ora il discorso sulla traduzione (vedi)
La medesima casa editrice propone anche un testo che parla della poesia del secondo ‘900. È L’ultima Poesia, di Gilda Policastro, abile scrittrice già recensita nella mia rubrica «Storie di donne/Letteratura di genere» (vedi).
Policastro ricorda un’espressione provocatoria di Edoardo Sanguineti che, nel quarantennale della Neoavanguardia (2003), dice: «Dopo di noi, il diluvio».
È una battuta, ma esiste ancora la poesia nel secondo millennio? Qual è l’eredità che hanno ricevuto e raccolto i giovani poeti? e qual è il ruolo del poeta?
Non più solo scrivere, costruire versi e rime, mettere insieme parole e pensieri, il poeta deve anche «saper leggere, stare sul palco, portare il proprio corpo in scena e renderlo disponibile all’incontro col pubblico», deve confrontarsi con i presenti, anche se sono pronti ad assalire il palco, come accadde al Festival Internazionale dei Poeti che si tenne a Castelporziano nel 1979, durante una kermesse identificata poi come «la Woodstock della poesia».
Negli anni, l’idea stessa di poesia si è andata modificando, corrotta in qualche modo dalla «coesistenza (più o meno pacifica) di linee, modelli, linguaggi…», come troviamo nell’antologia Parola plurale «che aveva radunato i testi di sessantaquattro poeti, a partire dalla data fatidica del ’75: l’anno della morte di Pasolini e della pubblicazione dell’antologia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli Il pubblico della poesia».
Dunque, se da un lato c’è l’esigenza di un cambiamento forte, dall’altro «però resiste il tenace radicamento della poesia contemporanea, almeno nella declinazione egemone, premiata dalle grandi collane e dai contesti ufficiali se non dalle vendite, in un retroterra piangevole e un po’ petulante, pascoliano senza Pascoli (ovvero senza la cupezza e l’odore di morte delle sue apparenti scampagnate) e dannunziano senza più Fiume (o la guerra e le donne)».
Il pubblico delle lettrici e dei lettori si aspetta effetti speciali e colpi di scena, i poeti sono incastrati in nicchie, quasi imprigionati.
Policastro si occupa dei poeti oggidiani, come Gherardo Bortolotti che riduce malinconicamente il reale a marginalia; come Michele Zaffarano, poeta dell’oggettivismo e traduttore di poeti francesi, dotato di un tocco di comicità; come Antonella Anedda e Franco Buffoni.
A questi e ad altri poeti Sanguineti in qualche modo consegna il testimone, il post-diluvio offre una infinita quantità di possibilità diverse, nella convinzione che la prosa sia più poesia della poesia, che non si arrivi a «piccole poesie in prosa» ma a «piccole narrazioni in versi».
Intanto, gli anni sono passati, è finito anche il primo ventennio del secondo millennio, con Bortolotti e la sua realtà minuta, «le epoche equivalgono ai pomeriggi…»
Uscimmo dai muri, nella profondità del pomeriggio. / Nella trama del tempo conquistammo il corridoio.
Si va dunque verso scritture anomale, come scrive S. Menicocci: «scritture così concepite resteranno inevitabilmente ai margini del mercato ma questa è la loro forza, poiché è a partire da quei margini che è possibile produrre differenze qualitative e non quantitative, qualcosa che non sia copia dell’Uno, ripetizione e variazione della forma predatrice del bestseller romanzesco».
Questo testo apre una finestra inattesa sulla poesia dei nostri giorni, ci aiuta a comprendere canoni originali e controversi, difficili, ma sicuramente attenti ai tempi che viviamo.