L’Olocausto nella nota dello psicoanalista Giuseppe Maiolo
Servono gli anniversari per contrastare la «banalità del male». Ma forse non bastano a contenere la collettiva indifferenza quotidiana che alimenta intolleranza e odio
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La memoria è l’esistenza stessa e da sempre sappiamo che non è solamente il ricordare qualcosa.
Senza la memoria non c’è storia, non esiste il tempo, tantomeno lo sviluppo e il cambiamento.
Oggi sappiamo che la memoria ha un insieme di funzioni, che è «univoca e molteplice… selettiva… inalterata e vissuta… la rappresentazione delle differenze delle facilitazioni tra i neuroni e la psiche… una fucina di rimaneggiamenti e revisioni», come diceva il buon Freud nel lontano 1895 (Progetto per una psicologia scientifica, a cura di C. Musatti, Vol. II, Bollati Boringhieri).
In altre parole, diceva, è l’essenza stessa della vita psichica, quella che ha l’incredibile capacità di trattenere e allo stesso tempo immagazzinare nuove esperienze.
Per questo serve coltivarla, alimentare la coscienza e educare alla memoria. Quindi narrarla e renderla presente. In continuazione.
Altrimenti, scriveva Primo Levi «Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo…».
Così la Giornata della memoria serve per non perdere il passato e la nostra storia, anche quella più terribile che non abbiamo vissuto e conosciuto direttamente, ma il cui ricordo contiene vita e morte, sofferenza e dolore, tempo e sentimenti.
La memoria va raccontata in continuazione, narrata nei mille modi diversi che conosciamo, in maniera insistente e rumorosa come accade attorno a questa giornata che ci riporta e all’infinita tragedia dell’Olocausto.
Più di tutto nella memoria, contano le emozioni che servono per trasformare l’esistenza, giorno dopo giorno.
Servono i dibattiti e le lezioni sull’orrore, ma è la narrazione continua del terremoto che ha alterato la morfologia dei territori della mente e il subbuglio interiore generato dalla tempesta devastante (Shoah) che può trasformare il male.
Non basta la memoria episodica per far crescere la consapevolezza sulla violenza quotidiana che imperversa non solo nelle terre della guerra dove ogni giorno si muore senza tregua, con pari crudeltà e ferocia, ma serve la coscienza delle brutalità presenti negli immediati dintorni delle nostre vite.
Servono narratori di storie, capaci di scuotere le nostre anime e farci resistere nella lotta contro la violenza «normalizzata» e pervasiva, che come un «fil rouge» lega lo sterminio di ieri a quello di oggi.
C’è un bisogno vitale di narrazioni a figli e nipoti, ai bambini e agli adolescenti e abbiamo l’urgenza di padri e madri, nonni e amici che sappiano raccontare prima di tutto se stessi e il mondo che hanno vissuto, il proprio cammino e le strade percorse.
C’è la necessità di storie parlate, cioè della quotidianità e del ricordo, da consegnare ai figli di oggi perché le generazioni che stiamo crescendo sanno poco o nulla dei loro padri e del passato.
Non hanno idea dei loro genitori quando erano loro stessi bambini e quei figli diventano adulti senza memoria di ciò che è accaduto prima perché i «grandi» non ricordano il passato e non dicono, non sanno più raccontare e non lasciano consegne.
Servono gli anniversari per contrastare la «banalità del male» di cui parlava Hannah Arendt, ma forse non bastano a contenere la collettiva indifferenza quotidiana che alimenta intolleranza e odio e rende banale, cioè normale, la ferocia e il crimine.
Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento - Docente di psicologia delle età della vita
www.iovivobene.it