Autonomie di Trento e Bolzano, una storia da rileggere oggi / 6

«La crisi del primo Statuto» – Di Mauro Marcantoni

Dopo la risposta negativa del febbraio 1957 da parte dell’Italia al Memorandum austriaco, i colloqui tra i due Paesi proseguirono senza reali prospettive d’intesa. Entrambi restarono di fatto arroccati a difesa delle rispettive posizioni. L’Austria insisteva sulla necessità di un’autonomia integrale, territorialmente delimitata, per il Sudtirolo.

L’Italia invece riteneva che lo Statuto di autonomia avesse sostanzialmente attuato l’Accordo di Parigi, nell’ambito dell’ordinamento interno allo Stato.
In primavera, a maggio (1958), si svolsero le elezioni politiche nazionali. Erano gli anni in cui si consumava la crisi definitiva del cosiddetto «centrismo», ossia di quell’esperienza di governo – fondata sull’alleanza tra Democrazia Cristiana e partiti «laici» di centro (Partito liberale, Partito repubblicano e Partito socialdemocratico) – che aveva caratterizzato lo scenario politico della Repubblica nei primi anni del dopoguerra.
In quelle elezioni la Democrazia Cristiana, sotto la guida di Amintore Fanfani, ottenne il 42,4% dei voti, un risultato di gran lunga migliore rispetto alle precedenti consultazioni.
Anche i socialisti, con il 14,2% dei voti, conseguirono un ottimo risultato, mentre i comunisti rimasero sostanzialmente stabili con il 22,7%.
 
A livello locale, invece, il risultato per la DC trentina fu deludente. Pur riuscendo a mantenere la maggioranza assoluta, con il 66,16% dei voti, subì un certo calo rispetto alle elezioni nazionali precedenti e ancor più rispetto a quelle regionali.
Socialisti e socialdemocratici, invece, confermarono anche in regione il buon risultato ottenuto a livello nazionale, aggiudicandosi un seggio ciascuno alla Camera dei Deputati.
Anche la SVP ottenne una buona affermazione, conquistando tre seggi.
 
Nel giugno successivo, Amintore Fanfani costituì un Governo sostenuto dalla DC e dai socialdemocratici, con l’appoggio esterno dei repubblicani.
Dopo i colloqui avuti con Fanfani, i parlamentari della Volkspartei decisero di astenersi dal voto al nuovo Governo, assumendo sostanzialmente un atteggiamento di attesa.
Sulla natura e sull’esito di quei colloqui si scatenarono in quelle settimane, in assenza di informazioni precise, voci incontrollate. In regione, il quotidiano Alto Adige lanciò dalle proprie colonne più di un allarme, insinuando il dubbio che tra Fanfani e i rappresentanti della SVP fossero state discusse «concessioni» alla popolazione di lingua tedesca dell’Alto Adige fortemente lesive nei confronti della popolazione di lingua italiana.
 
Ma ancor più significativo – in quanto dà la misura del livello della tensione tra i gruppi politici – fu quanto accadde all’interno del Partito socialdemocratico.
In attesa di conoscere l’esito dei colloqui tra la Volkspartei e Fanfani, i neodeputati socialdemocratici Lucchi ed Emerj manifestarono infatti l’intenzione di presentare una mozione per impedire al loro partito di partecipare al nuovo Governo, nel caso in cui la Volkspartei avesse votato a favore della fiducia.
Solo l’intervento di Giuseppe Saragat, segretario del partito, convinse i due deputati a ritirare la mozione.
 
Nel frattempo, in Trentino, stava prendendo forma una linea di pensiero politico più attenta alle questioni sudtirolesi e alla necessità di rispondere in modo diverso alle tensioni che si andavano via via moltiplicando e radicalizzando.
Una delle figure più attente a queste tematiche fu sicuramente quella di Bruno Kessler, entrato in Consiglio provinciale nelle file democristiane nel 1956, che si fece in più occasioni promotore di una riflessione critica sulla posizione trentina rispetto alle questioni sudtirolesi.
 
In verità, il clima complessivo rimaneva ostile a queste posizioni, pur riconoscendone i fondamenti, sia per il timore di un’eccessiva presa di distanza dalle posizioni romane, preoccupate di non dar spazio alle tentazioni separatiste, sia per non intralciare il già delicato impegno di Odorizzi nel difendere la traballante impalcatura Regionale.
Analoga era la posizione della Chiesa, anche se su questi temi cominciava a farsi sentire qualche voce contraria. Singolare, al proposito, fu la lettera inviata all’arcivescovo De Ferrari nell’aprile del 1958, che metteva sotto accusa il direttore di Vita trentina, monsignor Giulio Delugan, al quale, tra le altre cose, veniva imputata una eccessiva vicinanza alle posizioni del Dolomiten.
 
Mauro Marcantoni
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