«Liberare la parola, liberare l’uomo» – Di Massimo Parolini
Flavio Ermini ci sfida al cambiamento nel suo ultimo libro «Essere il nemico»
Flavio Ermini: «Essere il nemico. Discorso sulla via estetica alla liberazione», Mimesis .
«L’età della tecnica ha chiuso l’epoca umanistica e l’essere umano non conta più niente, è qualcosa di antiquato.»
Con queste parole di marcusiana memoria, il poeta e critico letterario veronese Flavio Ermini, introduce le sue considerazioni nel recente pamphlet «Essere il nemico. Discorso sulla via estetica alla liberazione», edito da Mimesis (nella collana «Il caffè dei filosofi»).
Ricordiamo che Ermini dirige la rivista semestrale «Anterem» (fondata nel 1976 con Silvano Martini, http://www.anteremedizioni.it), un laboratorio di ricerca sulla natura poetica tra i più coerenti e raffinati degli ultimi decenni, e presiede (dal 1987) il «Premio di poesia Lorenzo Montano» organizzato assieme alla Biblioteca civica del Comune di Verona.
Poeta e saggista, con questo testo l’autore veronese svolge una serrata e diretta riflessione sulla necessità di un’azione di ribellione dell’individuo in un clima di reificazione e meccanizzazione mortale dell’umano.
Ultrafuturo: la spina nel fianco del pensiero
Quale opposizione? Per la via estetica, come ci insegna Leopardi, abbandonando le illusioni. Siamo di fronte ad un uomo che, come scrive Balzac in «Eugénie Grandet» si pietrifica il cuore e si macera il corpo non più nell’attesa dell’eternità bensì nel desiderio di beni passeggeri, della roba di Mazzarò e Gesualdo.
Ermini si rivolge al lettore, lo conduce nella sua proposta di ribellione estetica, nessun plurale maiestatis, solo un tu: credimi, ascoltami, memore forse del montaliano incipit de «I limoni».
È necessaria una lotta contro le «repressioni individuali». La via della liberazione estetica, già indicata da Marcuse, per Ermini è l’unica via d’uscita: la resistenza sta nella realizzazione di «esistenze autentiche», «molteplici forme di vita che non si lascino integrare da nessun potere», oltre le imitazioni e gli artifici, oltre gli affarismi che rendono la vita una mascherata, come afferma Jaspers.
La via estetica tende alla cura del mondo, per salvarlo dalla violenza, dall’ingiustizia.
L’uomo deve alienarsi, perdere il proprio io e diventare l’altro, parlando il suo linguaggio, potenziando così la propria responsabilità verso il prossimo, memori del «principio dei passi motivati» di cui parla Musil, consistenti nel «non far nulla di casuale, di meccanico», affinché ogni accadimento sia di tipo spirituale.
L’etica della responsabilità unita alla via estetica della parola pensante, del pensiero poetante.
«È tempo di creare un ethos estetico», inteso marcusianamente nella sua radice etimologica di sensorialità e storica di relativo all’arte, alla bellezza.
Senza un nuovo linguaggio, nessuna immaginazione al potere
È il linguaggio del risveglio che deve tradursi nella fine dello Stato, in ogni sua forma coercitiva.
Nella fine di una società dominata dalla rete del mercato, dalle sedi delle nuove caste sacerdotali: i centri commerciali. Liberi dall’economia come forma del sociale.
Per l’autore bisogna tornare dal centro alle periferie, agli anfratti, «dove tutto c’è ma nulla si espone», oltre la città moderna, baudelairiana.
La liberazione è osare oltrepassare i limiti addomesticati. Il limite è la spina nel fianco del pensiero.
Va interrotto il rapporto abituale che manteniamo con le cose e le parole, «sacrificando ogni senso preesistente».
Bisogna aprire una «trincea antagonista», che cerchi la vera vita, che invia i suoi brusii intorno a noi, oltre le finzioni e le ingessature delle relazioni sociali strumentali.
Bisogna opporsi al potere che si fa violenza sull’uomo. La vita dell’uomo consiste solo, come ricorda Sartre, nel disegnare i confini del proprio volto.
Per Ermini dobbiamo schiodarci dalla croce, sconfiggendo la ragione calcolatrice che «misura l’essere sul metro del potere e del denaro», fondando un’umanità «immanente» (come ha scritto il filosofo francese Nancy, curatore del catalogo della recente mostra «L’altro ritratto» al Mart di Rovereto); un’umanità che si fonda sulla gioia e sulla generosità.
L’essere umano è tale se diventa il creatore di un se stesso mai compiuto, sempre indeterminato, da perfezionare, come ci insegna Pico della Mirandola in un suo celebre passo.
Sempre con Marcuse, va organizzata una rivolta «dell’istinto di vita contro l’istinto di morte socialmente organizzato».
L’uomo deve usare le proprie qualità per aiutarsi, non per scavalcarsi: la creatività solidale contro lo sfruttamento della ragione calcolatrice.
«Lottare per un nuovo Stato? Sarebbe come fare festa cambiando cella in prigione». La via che non ha bisogno di illusioni è da seguire. «Il futuro non è predeterminato dal passato. È il passato che cambia a partire dalle proiezioni del nostro futuro.»
La parola della liberazione
Urge superare i limiti del mondo che sono i limiti del linguaggio logico, sostituendolo con un linguaggio poetico, un dire pre-logico «ante-rem», che un uomo che si mette in ascolto, può iniziare a pronunciare, come il veggente del giovane Rimbaud.
Non bisogna entrare in un «ortus conclusus» autoreferenziale, ma pensare ad un impegno fattivo nella propria cornice storica.
In questo la parola che si fa letteratura può svolgere un’importante funzione di rivolta. Non deve pietrificare le cose nelle idee, ma aprirci all’impensato, all’indeterminato, alla libertà.
Il linguaggio deve essere non solo mezzo ma processo di auto creazione dell’uomo, non più solo spettatore bensì soggetto che modifica la realtà, oltre la comunicazione convenzionale, massmediatica; il linguaggio tradizionale è incapace di raggiungere certi fenomeni della vita.
La scrittura deve osare di penetrare dentro sé stessi, non rimanendo alla superficie. Va modificato il nostro rapporto col tempo, oggi accelerato dal processo produttivo, il nostro ritmo vitale non dev’essere scandito dalle macchine e dalla «circolazione del denaro».
Elogio della lentezza. Il lavoro per l’uomo, non l’uomo per il lavoro. Tempo di lavorare, tempo di meditare. Evitare di farsi pietrificare, di auto mutilarsi.
La parola della liberazione deve incontrare le cose, non «afferrarle», come suole fare la ragione per renderle ad una dimensione: come ne «L’Alba» rimbaudiana la liberazione consiste nel nominare le cose per ascoltare la loro lingua, il loro enigma, per farsi stupire da esse.
Per oscuri sentieri. La terra da ritrovare
Tra le vie estetiche alla liberazione Ermini individua le manifestazioni di forza degli esasperati, l’impulso creativo, la rivolta dei disadattati (né eroi né insetti) che vedono di fronte a sé un muro sartriano invalicabile.
È necessaria una critica consapevole del modello dominante che passi per una discesa nel «proprio» sottosuolo, nella catacomba in cui incontrare l’altro che in noi si può incontrare, per poi riemergere insieme alla vita sociale rigenerata: una via della mistica dell’uguaglianza.
Verso il regno della poesia e la fine, come auspicava Novalis, dell’età della prosa.
Va sostituito il dono alla vendita, l’onore al profitto. Il mercato produce forme culturali rozze e la stupidità.
«Il mondo è ridotto a sistema di oggetti» e l’uomo rischia di non progettarsi più come vita autentica.
«Come si può chiamare civiltà un rapporto sociale che funziona al prezzo della povertà di tanti esseri umani?» si chiede il pensatore. Una distruzione legata all’organizzazione attuale dei rapporti di lavoro.
L’uomo deve impedire che lo privino della propria libertà critica essenziale. In un mondo in cui «il capitale tende a non stringere nemmeno più accordi di lavoro» con l’uomo-lavoratore. In un mondo in cui chi non è più produttivo è una macchina che non gira più e quindi non merita più di vivere. In un mondo in cui la tecnica fa dell’uomo un semplice mezzo al proprio sviluppo indefinito, il lavoro deve tornare «il luogo in cui l’essere umano, realizzandosi, incontra se stesso, le sue capacità, le sue ideazioni.»
Pazienza e fuga, per questo stato di cose, sono i volti dell’impotenza: per Ermini bisogna uscire, kantianamente, dalla «minorità»-schiavitù, avere il coraggio della conoscenza. Rimanere, come nell’appello di Zaratustra, «fedeli alla terra». Sporgersi sopra «l’orlo degli affari e dei denari».
Uscire da quelli che il poeta austriaco Trakl definì «oscuri sentieri» andando verso i «sentieri interrotti» heideggeriani, che ci costringono ad una sosta, ad una pausa umana, ad un ripensamento.
Contro la «ricostruzione meccanica dell’universo» osannata da Depero (in questo periodo presente, assieme a Marinetti ed altri teorici futuristi alla mostra sulla grande guerra del Mart) Ermini invoca la riumanizzazione, la sepoltura dell’ibrido Frankestein, l’eliminazione dell’andoride Roy Batty (Blade runner) che si cela sotto apparenze umane.
La via estetica alla liberazione, conclude Ermini, va oltre i rapporti economici e nasce «dalla capacità di far contare nella vita di ogni singolo ciò che lo accomuna agli altri». E questo qualcosa può essere l’immaginazione creativa che cerchi la libertà e neghi la crudeltà.