Autonomie di Trento e Bolzano, una storia da rileggere oggi / 21

Le ragioni del Trentino: desiderio autonomista e principio di pariteticità – Di Mauro Marcantoni

Questione sudtirolese, ma non solo.
Negli anni ’60, la vocazione autonomista del Trentino e la sua pressante rivendicazione all’autogoverno ripresero a farsi sentire. L’inadeguatezza del primo Statuto, infatti, aveva determinato una crisi irreversibile della Regione e la richiesta della Südtiroler Volkspartei di una Regione autonoma del Sudtirolo aveva messo l’autonomia del Trentino in una situazione di sensibile incertezza.
Un’incertezza ulteriormente aggravata dal fatto che il Governo nazionale, nel pieno del conflitto etnico, aveva deciso di affidare alla Commissione dei 19 l’esclusivo studio della questione altoatesina in un contesto nel quale era ormai assodata la necessità di una profonda revisione costituzionale del primo Statuto.
 
Quale poteva essere dunque la sorte dell’autonomia trentina? Solo nel 1966 e nel 1967, in due importanti dibattiti parlamentari sulla questione altoatesina, venne formalmente affermato il principio della pariteticità fra Trento e Bolzano nella previsione del trasferimento di gran parte dei poteri e delle competenze dalla Regione alle due Province.
Lo fece in maniera solenne il Presidente del Consiglio dell’epoca Aldo Moro e il Parlamento gli affidò il mandato di procedere su quella indicazione.
I deputati trentini ne presero atto con soddisfazione. Flaminio Piccoli e Renato Ballardini alla Camera e Paolo Berlanda al Senato si rivolsero al Presidente del Consiglio con parole di apprezzamento e di sincero ringraziamento.
Anche Carlo Scotoni, il deputato trentino del PCI, che peraltro alla fine di quei dibattiti avrebbe votato contro, ebbe sulla questione trentina uno scambio di battute assai significativo con il Presidente Moro e prese atto con soddisfazione dell’impegno assunto.
 
Intendiamoci, quando in quei dibattiti del 1966 e del 1967 Aldo Moro affermò in Parlamento il principio di pariteticità fra Trento e Bolzano, la questione trentina si era ormai in larga parte ridimensionata. Anzi, la sua soluzione era sostanzialmente scontata.
Non così all’inizio degli anni Sessanta. Merito senza dubbio del contributo di idee, dello sforzo di intesa e del presidio politico attuati in Commissione dei 19 dalla rappresentanza trentina – Flaminio Piccoli, Luigi Dalvit e Guido de Unterrichter per la DC, il Presidente della Camera di commercio Leo Detassis e Renato Ballardini per il PSI – e merito anche del costante presidio assicurato in tutti i passaggi successivi dall’insieme della deputazione parlamentare trentina.
Una deputazione di assoluto rilievo e di grande prestigio nazionale.
 
Va inoltre precisato, considerata la sua assoluta importanza, che fu proprio la Commissione dei 19 la sede nella quale trentini e sudtirolesi, pur nella diversità delle posizioni, riuscirono a ritrovare il filo di un confronto costruttivo.
Dopo il fallimento delle azioni diplomatiche tra Austria e Italia che avevano caratterizzato gli anni Cinquanta, i lavori della Commissione ebbero quindi il duplice effetto positivo di risolvere la questione sudtirolese e di ricomporre i rapporti politici fra Trento e Bolzano dopo anni di incomprensioni.
 
Merito della lezione portata dagli errori pregressi, ma merito anche di una sorta di mutazione culturale che proprio in Commissione dei 19 ebbe modo di affinarsi e di centrare lo spirito di tutte le scelte: il passaggio da una concezione esclusivamente «Regione-centrica» del sistema autonomistico a una concezione più articolata, dove assumevano peso e ruolo anche le specifiche e legittime aspettative delle popolazioni trentine in funzione di una costruenda specifica autonomia, distinta da quella sudtirolese.
Per quei tempi e in quelle condizioni storico-politiche non si trattò di cosa da poco, ma di una vera e propria svolta, con tutte le conseguenze, sia sul terreno del confronto con i sudtirolesi che nella proposizione di merito del nuovo Statuto di autonomia.
 
Mauro Marcantoni
(Precedenti puntate)