Che fine hanno fatto i generali al termine della Grande Guerra?

7. Italia – Ultima parte: il maresciallo d'Italia e senatore del Regno Pietro Badoglio

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Con questa puntata concludiamo la nostra serie di puntate sulla storia dei generali della Grande Guerra a conflitto terminato.
Lo facciamo con il generale Pietro Badoglio, uno dei più discussi della storia del nostro Paese, l’unico generale che ha giocato ruoli molto importanti anche nel periodo di pace e nella Seconda Guerra Mondiale.
Fu nominato Maresciallo d’Italia, Senatore del Regno, Marchese del Sabotino, Duca di Addis Abeba e Capo del Governo Italiano.
Però venne inserito anche nella lista dei criminali di guerra dell'ONU su richiesta dell'Etiopia, ma non venne mai processato.

Pietro Badoglio nacque a Grazzano Monferrato il 28 settembre 1871.
Figlio di Mario Badoglio, modesto proprietario terriero, e di Antonietta Pittarelli, facoltosa borghese, il 5 ottobre 1888 fu ammesso all'Accademia Reale di Torino, dove conseguì il grado di sottotenente il 16 novembre 1890 e di tenente il 7 agosto 1892.
Nel febbraio 1896 fu inviato in Eritrea con il generale Antonio Baldissera e partecipò alla spedizione su Adigrat per liberare dall'assedio il maggiore Marcello Prestinari.
Tornato in Italia, fu promosso capitano il 13 luglio 1903 e partecipò alla guerra italo-turca (1911-12), ove fu decorato al valor militare e promosso Maggiore per merito di guerra.
 
Fu nominato Tenente colonnello il 25 febbraio del 1915, all'inizio della prima guerra mondiale e fu assegnato allo Stato Maggiore della 2ª Armata e al comando della 4ª divisione, nel cui settore insisteva il Monte Sabotino, privo di vegetazione e fortemente fortificato dagli austriaci anche tramite numerose gallerie, che fino ad allora era giudicato imprendibile.
In tale occasione, riuscì a convincere lo Stato Maggiore che per conquistare quella cima bisognava ricorrere a una tattica diversa da quella dell'attacco frontale, che aveva provocato migliaia di morti.
Badoglio ebbe l'idea di espugnarlo attraverso un dedalo di gallerie scavate nella roccia, a un livello inferiore a quelle austriache, quasi a contatto delle posizioni nemiche. I lavori per scavare e rafforzare le successive trincee durarono mesi.
Promosso colonnello nell'aprile 1916, comandò personalmente la brigata che prese d'assalto di sorpresa il Sabotino, conquistandolo con poche perdite.
Sicché il 6 agosto 1916 fu promosso maggior generale per merito di guerra, e, in novembre, prese il comando della brigata Cuneo.
Nel maggio del 1917 conquistò il Vodice e il Monte Kuk, posizioni ritenute anch'esse quasi imprendibili. E fu allora che il comandante della 2ª Armata, Luigi Capello, propose la promozione di Badoglio a tenente generale – sempre per merito di guerra – e lo destinò al comando del XXVII corpo d'armata.
 
Quando vi fu l’attacco a Caporetto, Badoglio si trovava a comandare il XXVII Corpo d'armata. La debole, intempestiva e inefficace risposta delle artiglierie italiane sul fronte del suo Corpo d'armata, è una delle ragioni accertate dello sfondamento, ma il motivo per cui ciò avvenne è tutt'oggi fonte di disquisizioni.
Le ragioni dello sfondamento furono molte, a partire dalla disposizione eccessivamente offensiva, per continuare con la comunicazioni difettose a tutti i livelli, la mancanza di esperienza difensiva e altre ancora.
 
Già l’indomani di Caporetto, il 25 ottobre 1917, il Parlamento italiano negò la fiducia al governo presieduto da Paolo Boselli che fu costretto a dimettersi.
Il giorno 30 ottobre il governo si ricostituì sotto la guida di Vittorio Emanuele Orlando, il quale, nei colloqui dei giorni precedenti, aveva richiesto al Re la rimozione di Cadorna.
Di conseguenza, con Regio Decreto del 9 novembre 1917, il generale Armando Diaz, fino a quel momento comandante del XXIII Corpo d'armata (non investito direttamente nella disfatta), fu nominato Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Italiano.
Al generale Armando Diaz, tuttavia, furono affiancati, con il grado di sotto-capo di Stato Maggiore (vice-comandante), i generali Gaetano Giardino e Pietro Badoglio.
Successivamente, il 7 febbraio 1918, Badoglio, rimase vice-comandante unico.
 
Il 13 agosto 1919, quando Pietro Badoglio stava per succedere a Diaz, la Commissione confermò l'attribuzione della colpa della disfatta a Luigi Cadorna, estendendola a Luigi Capello, Alberto Cavaciocchi e Luigi Bongiovanni, ma non citò neanche il generale Badoglio.
Sembra, anzi, che tredici pagine riguardanti l'operato di Badoglio siano state sottratte dalla relazione, al momento della sua presentazione in Parlamento.
Il giudizio degli storici sull'operato di Badoglio come vice capo di stato maggiore è comunque generalmente positivo.
 
Nominato Senatore il 24 febbraio 1919, il 13 settembre successivo (e sino al mese di novembre) divenne commissario straordinario militare per la Venezia Giulia. Rivestiva tale ruolo quando Gabriele D'Annunzio procedette all'Impresa di Fiume.
Il 2 dicembre 1919 Badoglio fu promosso capo di stato maggiore dell'Esercito, succedendo ad Armando Diaz e ricoprì tale incarico sino al 3 febbraio 1921, quando venne collocato a disposizione per ispezioni, divenendo anche membro del Consiglio per l'Esercito.
 

 
Alla vigilia della marcia su Roma (ottobre 1922), Badoglio fu consultato dal Sovrano sulla gravità della situazione. Il generale piemontese sostenne che la dimostrazione si sarebbe dispersa al primo colpo di arma da fuoco, e chiese poteri straordinari (che però non gli vennero concessi) per ristabilire la situazione.
Nel 1923, dopo l'insediamento del fascismo, fu nominato - a richiesta - ambasciatore in Brasile.
Successivamente, il 4 maggio 1925, assunse per primo l'istituenda carica di capo di stato maggiore generale, che mantenne ininterrottamente sino al 4 dicembre 1940.
Il 17 giugno 1926 fu promosso maresciallo d'Italia, insieme a Enrico Caviglia, Emanuele Filiberto Duca d'Aosta, Gaetano Giardino e Guglielmo Pecori Giraldi, grado istituito appositamente per quegli ufficiali che si erano particolarmente distinti durante la guerra mondiale, in precedenza attribuito solamente a Diaz e a Cadorna.
 
Il 18 dicembre 1928 fu nominato governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica. In quanto governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica, Badoglio dispose l'evacuazione forzata della popolazione, per la quale circa centomila persone furono costrette a lasciare tutti i propri beni portando con sé soltanto il bestiame.
La massa dei deportati fu rinchiusa in tredici campi di concentramento in una regione centrale della Libia, dopo una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto. Solo in sessantamila sopravvissero alla deportazione.
Sotto il profilo dell'amministrazione civile della colonia, Badoglio perseguì l'attuazione di un ampio programma di opere pubbliche, quali la progettazione della lunga strada litoranea e la realizzazione di edifici pubblici nelle città di Tripoli e Bengasi.
Fu richiamato in Patria il 4 febbraio 1934.
 

 
Il 30 novembre 1935, Badoglio fu inviato a Massaua quale comandante del corpo di spedizione in Etiopia, in sostituzione del generale Emilio De Bono. Quest'ultimo aveva aperto le ostilità con l'Impero etiopico il 3 ottobre precedente occupando Adigrat, Adua, Axum e Macallè, ma francamente non aveva le capacità strategiche di Badoglio.
Badoglio non trovò una situazione particolarmente favorevole. Gli Italiani, infatti, si erano spinti circa cento chilometri avanti e gli abissini, riorganizzatisi, avevano ripreso l'iniziativa da entrambi i lati, con l'intenzione di tagliare in due l'offensiva italiana.
Badoglio, anziché proseguire nell'avanzata, prese ulteriore tempo per migliorare la situazione logistica e tattica, ripiegando su Axum e riprese l’iniziativa solo dopo aver ricevuto altre tre divisioni per un totale di 200.000 uomini, 750 cannoni, 7.000 mitragliatrici e 350 aerei, contro 215.000 Abissini, pressoché privi di artiglieria e aeroplani.
Dopo tre mesi di sosta, il Maresciallo, con una manovra convergente sostenuta dall'artiglieria e dall'aviazione, riprese l'iniziativa conseguendo la vittoria dell'Amba Aradam e annientando il grosso dell'esercito nemico (80.000 uomini).
Il 28 febbraio aveva occupato l'Amba Alagi e il 31 marzo, presso il Lago Ascianghi, veniva sbaragliata la guardia del corpo del negus, mentre quest'ultimo fuggiva imbarcandosi a Gibuti.
Il 5 maggio 1936, alle ore 16, Badoglio entrava vittorioso in Addis Abeba. Quattro giorni dopo, dal balcone di Piazza Venezia, Benito Mussolini proclamava ufficialmente la costituzione dell'Impero, con Badoglio viceré.
 
Già nel luglio del 1936 il deposto imperatore Hailé Selassié, tuttavia, aveva denunciato all'assemblea della Società delle Nazioni che Badoglio aveva disposto l’utilizzo su larga scala il terribile gas iprite che, irrorato dagli aerei in volo a bassa quota, sia sui soldati sia sui civili, venne usato con la precisa finalità di terrorizzare la popolazione abissina e piegarne ogni resistenza.
Badoglio aveva violato il protocollo di Ginevra - sottoscritto anche dall’Italia - che aveva posto al bando l’uso di gas nei conflitti.
Mussolini in persona lo aveva autorizzato, ma il generale aveva già cominciato autonomamente, sganciando 1.000 bombe all’iprite.
 
A guerra terminata, Badoglio chiese di lasciare la carica di Viceré d'Etiopia, per tornare a svolgere le funzioni di Capo di Stato Maggiore.
L'11 settembre 1936, il Duce accolse la richiesta e nominò Viceré Rodolfo Graziani. Contemporaneamente il Duce comunicò a Badoglio che il Re lo aveva nominato, motu proprio, Duca di Addis Abeba e gli fu consegnata la tessera onoraria del Partito Nazionale Fascista, retrodatata al 5 maggio, giorno dell'occupazione di Addis Abeba.
 

 
Il 29 maggio 1940, Benito Mussolini convocò a Palazzo Venezia il maresciallo Badoglio e tutto lo stato maggiore dell'esercito, in una riunione segreta, comunicando la decisione di entrare in guerra a fianco della Germania.
Il 10 giugno successivo l'Italia dichiarava guerra alla Francia e al Regno Unito e, su proposta dello stesso Badoglio, Vittorio Emanuele III firmava il decreto che conferiva a Benito Mussolini il comando operativo di tutte le Forze Armate.
 
Il Maresciallo, intimamente contrario a sferrare un attacco al quale non riconosceva possibilità di successo aveva disposto solo piani difensivi per il Fronte Occidentale, quello con la Francia.
Quando il Duce ebbe necessità di attaccare - essendo imminente la resa dei francesi di fronte ai tedeschi - Badoglio traccheggiò, adducendo difficoltà a elaborare piani offensivi. Il 18 giugno la Francia venne investita dall'attacco di oltre 300.000 uomini. Nonostante la rotta generale dell'esercito francese le truppe italiane segnarono il passo e, il 23 giugno, alla fine delle ostilità, l'offensiva aveva prodotto la conquista della sola cittadina di frontiera di Mentone, costata 1.237 morti e dispersi, contro 187 vittime francesi. Il 24 giugno Badoglio presiedette la Commissione d'armistizio con la Francia a Villa Incisa, all'Olgiata, presso Roma.
 
Nell'ottobre del 1940, Mussolini, in un incontro riservato a Palazzo Venezia comunicò a Badoglio e a Roatta, all'epoca sottocapo di stato maggiore dell'Esercito, l'intenzione di dichiarare guerra alla Grecia.
Secondo quanto sostenne Roatta, i due generali fecero presente al Capo del governo l'esigenza di impiegare almeno venti divisioni, per il cui trasferimento in Albania sarebbero stati necessari almeno altri tre mesi.
Dai verbali della riunione ufficiale con l'intero stato maggiore, che si tenne il 15 ottobre alle ore 11, tuttavia, non risulta che Badoglio abbia posto alcuna obiezione, approvando passivamente l'intervento militare.
Successivamente, il 10 novembre, dopo i primi rovesci militari, si tenne un'ulteriore riunione tra Mussolini e i Capi di stato maggiore.
Il Maresciallo presentò allora le sue dimissioni dalla carica di capo di stato maggiore generale, che ricopriva ininterrottamente da oltre quindici anni. Il 4 dicembre 1940 le dimissioni furono accettate da Mussolini, che nominò al suo posto il generale Ugo Cavallero.
 
Dopo la sfiducia votata dal Gran consiglio del Fascismo il 25 luglio 1943, Vittorio Emanuele III ruppe gli indugi e nominò Badoglio capo del Governo.
Alle ore 22:45, Badoglio pronunciò il discorso che passò alla storia terminando così:
«La guerra continua e l'Italia resta fedele alla parola data... Chiunque turbi l'ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito.»
 

 
La prima riunione del nuovo governo (foto qui sopra) si tenne il 28 luglio e venne deliberato lo scioglimento del partito fascista, la soppressione del Gran Consiglio e dei tribunali politici, e l'interdizione di costituire qualsiasi nuovo partito politico per tutta la durata della guerra. Si preannunciavano, tuttavia, nuove elezioni generali a quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra.
Le leggi razziali continuavano a rimanere in vigore.
Poi Badoglio inviava una lettera a Hitler, ribadendo che, per l'Italia, la guerra continuava nello stesso spirito dell'alleanza con la Germania.
 
Le reazioni degli anglo-americani, all'indomani del venticinque luglio, sembravano aprire più di uno spiraglio alla conclusione di un accordo separato, finalizzato all'uscita dell'Italia dal conflitto, garantendone contemporaneamente l'integrità del territorio dalle truppe tedesche.
Tuttavia, nonostante la disponibilità degli anglo-americani, il governo italiano, restava immobile.
Tale attendismo irritò gli alleati e permise a Hitler di dare il via all’Operazione Alarico, che consisteva nel far defluire in Italia 17 divisioni tedesche.
Di fronte all'attendismo del governo italiano, e alla pericolosa iniziativa dell'esercito tedesco, il 2 agosto, il generale Eisenhower, diramava da Algeri un comunicato molto più duro dei precedenti nei confronti dell'Italia e, in particolare, verso il maresciallo Badoglio.
Solo allora, dopo un infruttuoso contatto con gli ambasciatori anglo-americani presso il Vaticano, fu effettuato un primo timido tentativo di trattative.
Non ottenendo risultati, tra il 4 e il 17 agosto, gli anglo-americani cominciarono un'escalation di bombardamenti aerei su tutte le maggiori città italiane: Napoli, Milano, Torino, Genova, Terni e la stessa Roma.
Venne avviata una seconda trattativa e il 27 agosto furono illustrate le clausole imposte dagli anglo-americani: costoro avevano chiesto la resa senza condizione, da attuarsi entro il 30 agosto.
Una prima risposta dell'Italia fu definita il 30 agosto, quando lo stesso Badoglio diede istruzioni al generale Castellano di tornare in Sicilia per esporre le tesi contenute in un memorandum redatto dal Ministro degli Esteri Guariglia. Secondo tale atto l'Italia non avrebbe potuto chiedere l'armistizio prima di ulteriori sbarchi alleati che mutassero le situazioni di forza a sfavore dei tedeschi.
Tali sbarchi dovevano essere effettuati da almeno quindici divisioni tra La Spezia e Civitavecchia.
L’incontro avvenne a Cassibile, presso Siracusa, ma gli alleati furono irremovibili, quindi l’armistizio non fu firmato.
Gli emissari tornarono a Roma e solo dopo varie riunioni il generale Castellano venne delegato a rappresentare l’Italia.
La firma dell’armistizio senza condizioni avvenne solo il 3 settembre.
Seguirono ulteriori contatti per definire la dichiarazione ufficiale dell’armistizio e solo l’8 settembre 1943, alle ore 19:45, dai microfoni dell'E.I.A.R., il Maresciallo Pietro Badoglio comunicò agli italiani che era stato firmato l’armistizio.

«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
«La richiesta è stata accolta.
«Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.»

Le forze tedesche avevano già in mano l’Italia settentrionale, mentre dal sud sarebbero risalite quelle che avevano contrastato l’invasione della Sicilia.
Roma sarebbe presto stata al centro di furiose battaglie tra gli ex alleati.
In tale clima il sovrano e il maresciallo Badoglio, il 9 settembre, alle ore 5:10, si accinsero a partire clandestinamente per raggiungere il Sud, via Pescara, percorrendo proprio la via Tiburtina, ove stava ripiegando anche un corpo d'armata motorizzato, inizialmente previsto a difesa di Roma.
Del convoglio facevano parte anche la regina Elena, il principe Umberto, Ambrosio e Roatta.
Badoglio si imbarcò la mattina del 10, da Pescara, con la corvetta Baionetta. Poco dopo la corvetta fece sosta nel vicino porto di Ortona, dove si imbarcarono i sovrani e gli altri componenti della spedizione, diretti a Brindisi. Roma si arrese ai tedeschi il 10 settembre alle ore 16:00.
 
A Brindisi si stabilì la sede del governo che, sotto la tutela dell'Amministrazione Militare anglo-americana, ebbe giurisdizione sulle provincie di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto. Il 29 settembre 1943 Badoglio firmò a Malta il cosiddetto armistizio lungo.
Il 13 ottobre 1943, infine, per mano del diplomatico Giacomo Paulucci di Calboli, il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania.
Ma, data la debolezza della sua Presidenza, il governo Badoglio II resse solo poche settimane, sino a quando l'8 giugno 1944, con il ritorno a Roma, il maresciallo Badoglio dovette rassegnare le dimissioni nelle mani del nuovo luogotenente del Regno.
Gli successe il 18 giugno Ivanoe Bonomi.
 

 
Alla fine di giugno del 1944 Badoglio si ritirò a Cava de' Tirreni con la nuora e i nipoti (di cui uno liberato al lago di Braies in Alto Adige), che gli furono di conforto nell'assenza del figlio Mario, deportato in Germania e rinchiuso nei campi di concentramento di Mauthausen e Dachau.
Sopravvissuto, Mario Badoglio premorrà al padre, nel 1953, per i postumi della prigionia. Nel marzo 1946 l'Alta Corte di Giustizia dichiarò il Maresciallo decaduto dalla carica di senatore, con la quasi totalità dei componenti dell'assemblea vitalizia.
Rientrato a Grazzano, dopo la Liberazione, il Maresciallo volle che la casa natia, una volta ristrutturata, diventasse un asilo infantile, intitolato alla mamma Antonietta Pittarelli e destinato ad accogliere gratuitamente i piccoli del paese, riservandosi alcuni locali, da destinare a museo.
Nei mesi estivi era lui stesso ad accompagnare i visitatori, illustrando i vari cimeli esposti e le vicende della sua vita militare.
 
Pietro Badoglio morì a Grazzano il 1º novembre 1956 per un attacco di asma cardiaca. I funerali si svolsero il 3 novembre successivo, anniversario della firma dell'armistizio di Villa Giusti, con la partecipazione dei rappresentanti del Governo, delle Autorità e con tutti gli onori militari.
Nel cimitero di Grazzano Badoglio vi è una cappella dove oltre a quella di Pietro Badoglio sono custodite le spoglie di altri familiari.
Nel 1991, dopo la chiusura dell'asilo Pittarelli, la casa natia del Maresciallo d'Italia fu destinata a centro culturale, per conto della Fondazione Badoglio, divenuta proprietaria di tutti i locali.
 
GdM
 
Si ringrazia Wikipedia per le note e le fotografie.
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